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Obiettivi legati alle fasi più avanzate del customer journey

Capitolo 1. I cambiamenti di paradigma dovuti a internet e i nuovi modi di comunicare

3.6 Obiettivi e metriche di misurazione del native advertising

3.6.2 Obiettivi legati alle fasi più avanzate del customer journey

Nel sottoparagrafo precedente è stato citato il caso di Condé Nast, che trattava gli obiettivi legati alle prime fasi del customer journey. Per questo editore, l’obiettivo di una campagna di native advertising dipende da caso a caso, e non si può generalizzare. Anche nel native advertising in senso stretto, cioè quello editoriale, secondo Elia Blei è possibile che ci sia un collegamento con obiettivi più avanzati, come la vendita, nel caso di un e-commerce. Ciò è possibile ad esempio inserendo un banner che punta all’e-commerce del brand all’interno di un articolo nativo, rendendo leggermente più commerciale quanto è squisitamente editoriale.

“Altri clienti invece vogliono fare in modo che dai contenuti si vada al loro sito o al loro e-commerce. Dipende: il native è una cosa che non si può fare one-shot: le storie devono essere inserite in una serie. Quindi uno può essere più di interattività, uno un’attività in cui c’è più direzione artistica, e l’obiettivo è posizionarsi più chiaramente, in un altro raccontare una tematica che si avvicina al prodotto. Oppure creare dei prodotti editoriali che vanno a coniugare il materiale ricevuto dal cliente con il materiale prodotto da noi. Comunque sono tutti prodotti editoriali. Dipende dall’obiettivo che ha il cliente, può cambiare da prodotto a prodotto.”

[Elia Blei] Forse non ha senso distinguere tra obiettivi legati alle prime fasi del customer journey o a quelle più avanzate, perché un brand dovrebbe pensare ai propri obiettivi di posizionamento, declinati poi in degli obiettivi di comunicazione. E in una strategia di comunicazione sono da individuare i touchpoint più adatti per raggiungere i propri scopi, considerando tutti gli strumenti più adeguati per poterli presidiare.

“A monte l’azienda deve partire dal presupposto di creare una content strategy, e dopo identificare i vari touchpoint e i punti di diffusione dei propri contenuti. Uno di questi, con cui arricchire il flusso dei contenuti è sicuramente quello del native, ma a monte deve esserci il contenuto e qualcosa da raccontare. Quindi anche se il consumatore atterra su un contenuto native, ma è un contenuto non rilevante per quell’utente, alla fine forse ha fatto quasi peggio che a fare il banner!”

[Chiara Davanzo Zamarian] Il potenziale di engagement di un contenuto potrebbe anche portare l’utente a compiere una conversione finale, e ciò costituisce un aspetto molto sfidante del native advertising.

“Agli obiettivi aggiungerei anche il tassello dell’obiettivo di lead, a questo punto più sfidante, perché allora il contenuto deve essere molto ingaggiante, al punto di portare l’utente a lasciare i suoi dati, però l’azienda ha fatto “bingo”.”

[Chiara Davanzo Zamarian] Il caso di Salewa è forse quello più interessante per capire il legame che c’è tra gli obiettivi di brand awareness e gli obiettivi di lead generation.

“Gli indicatori più corretti per misurare il successo del native advertising dipendono dai KPI che uno si mette. Nel nostro caso avevamo un obiettivo di brand awareness e di supporto alle campagne di lead generation. I KPI principali della campagna erano sulle conversioni, che erano subscribers nel 2015, e registrati nel 2016, alle nostre properties, quindi anche all’e-commerce. Nelle campagne seasonal l’obiettivo era più legato alla vendita.”

[Andrea Scroccaro] Il legame tra il native advertising e altre campagne più legate al performance marketing è ben comprensibile dalla spiegazione successiva.

“Il 70% della lead generation ci proveniva dalle campagne lead che facevamo, dove la misurazione avveniva a CPL. Invece abbiamo utilizzato l’advertorial per creare

[Andrea Scroccaro] Il native advertising quindi è un supporto per creare interesse nei confronti di un determinato prodotto stagionale, oppure nel caso di branding, in modo da stimolare l’utente a proseguire nel funnel di vendita. E in questo senso il native advertising si inserisce all’interno di un percorso, che l’azienda deve disegnare in coerenza con la propria strategia di marketing.

“Se stai dalla parte alta del funnel, alla fine stai vendendo impression, una roba vecchia, chiamata con un nome nuovo. Se invece hai anche il coraggio di spingerti un po’ più in fondo nel funnel, allora è giusto che vengano ritarate anche le KPI.”

[Marco Ziero] Questa multidimensionalità negli obiettivi legati al native advertising è possibile perché si tratta di un insieme di strumenti, più che di uno strumento che ha un singolo obiettivo di branding, secondo le parole di Claudio Vaccaro.

“Io non sono d’accordo con chi dice che l’obiettivo del native advertising è solo di brand awareness. Secondo me il native è un insieme di formati pubblicitari, e come tali possono essere utilizzati per diversi obiettivi a seconda di dove vengono inseriti e di quali formati vengono scelti. Se scelgo un formato video, probabilmente sono nella fase di awareness; se scelgo un formato testo più immagine, che mostra un prodotto da acquistare, quella è più verso l’ultima fase. Addirittura c’è un formato nativo inserito nell’e-commerce, qui si può parlare di awareness? Certamente no.”

[Claudio Vaccaro] E queste forme diverse di native advertising si riflettono in modi diversi di impostare l’obiettivo di una campagna di native advertising. Se infatti anche Google AdWords viene considerato native advertising, dove l’obiettivo è fortemente centrato sulla conversione, difficilmente si può restringere l’ambito alla sola brand awareness.

“Ci sono dei player, ad esempio Ligatus, molto focalizzati sulla performance. Un widget di raccomandazione può avere un obiettivo di performance legato alla generazione di contatti – come la richiesta di un preventivo. Chiaramente un articolo sponsorizzato all’interno di Repubblica non potrà mai avere un obiettivo di vendita. Anche AdWords, secondo il Playbook di IAB, è un formato di native.”

[Claudio Vaccaro] Per misurare il raggiungimento di un obiettivo in questo contesto, non c’è ancora una metrica universale per cui tutti i player sono d’accordo, anche se Claudio Vaccaro ne

propone una, che è accostabile all’engagement e all’attenzione degli utenti che sono stati citati molte volte all’interno di questo paragrafo.

“Sempre di più le metriche da guardare, anche se manca una modalità di misurazione standardizzata, sono quelle dell’attenzione generata dal contenuto, e l’attenzione si misura in funzione del tempo e dell’ingaggio generate: quante volte l’utente ha scrollato la pagina per visualizzare il contenuto? Quanto tempo l’utente è rimasto su quel contenuto? Quali azioni ha fatto su quel contenuto? Quindi c’è sempre più la possibilità di misurare metriche che dicono al brand qual è il tasso di attenzione dell’utente. I brand dovrebbero sempre di più guardare all’attenzione degli utenti più che alle impressioni erogate da una pubblicità.”

[Claudio Vaccaro] Una volta che il brand ha capito il modo in cui può stimolare l’attenzione dell’utente, deve poi trovare una metrica di misurazione adatta.

A questo proposito risultano molto importanti le considerazioni del Country Manager Italia di Outbrain, il widget di raccomandazione che è stato discusso nel sotto-paragrafo 3.2.4, il quale porta anche un esempio di un suo cliente – Europ Assistance, azienda del settore assicurativo – dove l’obiettivo principale della campagna native era la conversione, cioè la sottoscrizione di una polizza viaggio online.

“Outbrain dà un supporto anche nelle fasi più avanzate del customer journey. Noi parliamo di content funnel: Il contenuto è il driver che ti porta nel funnel di marketing. Il primo step è l’awareness, mentre il secondo è la consideration, quindi un primo livello di interazione con l’utente. Ma se il contenuto è scritto nel modo giusto e la pagina su cui si atterra ha le call to action giuste, allora si può usare questa forma di native advertising anche per portare conversioni. Ti cito l’esempio di Europ Assistance. L’obiettivo era quello di promuovere le assicurazioni viaggio: una delle pagine scelte da promuovere era una pagina che raccontava tutte le cose da sapere per viaggiare negli Stati Uniti: dal tipo di documenti che servono, alla corrente elettrica, temperature, fusi orari, ecc. L’utente che atterra su questa pagina lo fa perché è un contenuto che gli interessa, però allo stesso tempo è un utente profilato, che è sicuro di viaggiare negli Stati Uniti nei prossimi mesi. Per cui una call to action forte su quella pagina del tipo “sei interessato a una polizza viaggio?” può portare a molte conversioni.”

Nelle campagne su Outbrain, i KPI vengono dati dai clienti. Il widget di raccomandazione, però, può andare a misurare una serie di eventi che vanno molto oltre al singolo click sul contenuto, e prendono in considerazione tutta la customer journey, fino ad azioni come la compilazione di un form, quindi qualcosa di legato alla lead generation.

“I KPI ce li dà il cliente. Noi possiamo misurare una serie di eventi. Il primo evento è il clic dell’utente, tutto in mano nostra. Poi ci sono eventi successivi di consideration, quindi il tempo speso sulla pagina, le condivisioni di questa pagina, la visualizzazione di un sito fino alla fine, ecc., fino ad azioni vere e proprie come una lead, o la compilazione di un form, anche un acquisto.”

[Alberto Mari] Come sottolineato da Claudio Vaccaro, però, la metrica di misurazione più importante dovrebbe essere quella dell’engagement, intesa non come una mera misurazione del successo dei contenuti sui social network, ma nel senso di attenzione che si riesce a catturare. A questo proposito, vale la pena riprendere quanto detto da Alberto Mari e già riportato in precedenza.

“Il vero tema è sempre di più come avere l’attenzione dei consumatori. I consumatori hanno dichiarato apertamente di essere disponibili a concedere questa attenzione, ma in cambio vogliono qualcosa. In cambio vogliono contenuti di valore. E questo è molto più valore sul target giovani e su tutto il mondo mobile..”

[Alberto Mari] Quindi, forse è poco importante che gli obiettivi del native advertising siano o meno legati alle prime fasi del customer journey o possano spingersi anche più avanti. Ciò che è rilevante è che un contenuto prodotto per determinati obiettivi – siano essi di branding oppure di lead generation, se non di vendita – attiri l’attenzione degli utenti, e li possa portare all’interno di un customer journey che l’azienda ha specificatamente studiato per raggiungere i propri obiettivi generali di marketing.