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Le ragioni della diffusione del native advertising

Capitolo 1. I cambiamenti di paradigma dovuti a internet e i nuovi modi di comunicare

4.2 Le ragioni della diffusione del native advertising

Molti dei soggetti intervistati hanno mostrato una forte consapevolezza nelle motivazioni per cui hanno deciso di fare native advertising. L’esigenza è triplice, e riguarda:

• le ragioni portate dagli editori;

• le ragioni delle aziende inserzioniste; • le ragioni delle agenzie.

Gli editori hanno colto un grande trend nel mercato pubblicitario guardando, innanzitutto, ad alcuni modelli di business che si erano dimostrati più profittevoli in alcune esperienze americane. Oltre a questa dimensione, si è sentita la forte esigenza di rispondere in maniera più coerente con i brief delle aziende inserzioniste, che negli ultimi anni hanno sentito sempre più forte il bisogno di raccontarsi. Il native advertising, in questo senso, può essere inteso come il prodotto di una tematica editoriale sposato dal brand, e frutto di una sinergia tra il brand e l’editore.

In questo senso, le esigenze degli editori si integrano con quelle delle aziende inserzioniste, il cui obiettivo di comunicazione di marketing fondamentale è quello di trovare dei punti di contatto con i propri clienti o potenziali clienti. Come sottolineato da Court et al. (2009), il customer journey – cioè il percorso decisionale verso l’acquisto di un consumatore – calato nel contesto digitale è profondamente mutato, e si sono creati moltissimi nuovi punti di contatto in grado di influenzare una scelta. In questo processo, risulta sempre più importante il concetto di brand awareness, perché secondo la ricerca di letteratura le

aziende che vengono considerate sin dall’inizio del processo decisionale hanno una probabilità tre volte più alta di essere acquistati rispetto agli altri brand.

In questo la ricerca empirica conferma quanto teorizzato da McMillan (2007), che inseriva i contenuti sponsorizzati all’interno di un contesto editoriale all’interno delle forme di pubblicità online adatte a “iniziare un contatto”, e a generare quindi un ricordo di marca. È rimarcata poi da Court et al. (2009) l’importanza di attività di comunicazione di marketing

pull, guidate dai consumatori più che dalle aziende, e delle testimonianze post-acquisto.

Per rispondere efficacemente a queste nuove sfide, le aziende hanno dovuto nel corso degli ultimi anni ripensare gran parte delle proprie attività di marketing in internet, pensando ad azioni specifiche in grado di influenzare i consumatori nei punti di contatto che si vengono a creare. Nella fase di awareness, il native advertising risulta una delle leve più efficaci per influenzare la credibilità nei confronti di un brand, e pertanto le attività di comunicazione legate allo storytelling sono tra le più rilevanti (Pulizzi, 2014).

Ad avere un expertise editoriale e di storytelling sono gli editori, che attraverso il native advertising hanno compreso che possono sfruttare la sinergia della produzione dei contenuti, tipica del loro lavoro, con la possibilità di distribuire quegli stessi contenuti all’interno del proprio ecosistema editoriale digitale, come è stato sottolineato da diversi player intervistati.

Ma non si tratta solo di storytelling e qualità editoriale – sebbene questo aspetto venga incontro alle esigenze di editori, inserzionisti, e soprattutto degli utenti – ma anche della crisi della display advertising, tradizionalmente la principale fonte di ricavo per le testate editoriali online. L’obiettivo dei banner è sempre stato quello di traffico verso il sito web dell’inserzionista o di stimolo all’azione, ma con degli effetti anche di brand awareness (Rodgers & Thorson, 2000). Tuttavia, come evidente anche dalla ricerca empirica condotta, gli editori stessi hanno affermato di evolvere verso nuove forme di pubblicità online perché i banner non vengono cliccati – avendo un click-through-rate medio dello 0,10% - e metà di questi non vengono nemmeno visualizzati dagli utenti. Ciò crea inefficienza nel mercato pubblicitario, poiché vengono dispersi gli investimenti delle aziende inserzioniste, e d’altro lato pone l’esigenza forte di trovare nuovi modelli di business per rifondare la fonte di ricavi per l’editore, con lo scopo di coinvolgere maggiormente gli utenti. Già Janiszewski (1998) aveva rilevato che i banner vengono visualizzati attraverso la visione periferica, e non con il punto focale di attenzione. Le affermazioni dei soggetti intervistati esprimono consapevolezza nei confronti di questo grande limite della display advertising. Pertanto le

aziende inserzioniste hanno iniziato a spostare i loro budget: per quattro delle cinque aziende intervistate – KIA, Sodastream, Salewa e un’azienda del settore fashion – tutti gli investimenti in display advertising sono in calo. Ciò a conferma del trend generale di mercato, per cui nel 2006 la percentuale di budget pubblicitario online dedicato ai banner era del 56%, e nel 2015 questo è sceso al 14%. Le aziende, però, continuano ad usare la display advertising – in particolare Pixartprinting – per l’efficacia dell’attività di retargeting, che permette di proporre una pubblicità a una persona che è già stata sul sito dell’inserzionista, permettendo così CTR più alti.

Inoltre, attraverso la letteratura era emersa l’importanza della tendenza da parte dei consumatori ad evitare le pubblicità e i brand se non sottostanno a specifiche condizioni legate al contenuto. I dispositivi di ad blocking sono infatti un importante trend da considerare per tutti i player coinvolti nella filiera pubblicitaria. Il loro utilizzo è in forte ascesa in USA, dove nel 2015 l’ad blocking è cresciuto del 48% rispetto al 2014, arrivando a coinvolgere 45 milioni di utenti attivi (Page Fair e Adobe, 2015). Questo aspetto è stato confermato nelle percezioni di molti dei soggetti intervistati, che hanno posto l’accento sulla dimensione di invasività nei confronti dell’esperienza dell’utente.

Attraverso la ricerca empirica sono inoltre emersi altri due punti importanti: • la crescita della fruizione di internet da dispositivi mobile;

• la crescita dei social media.

Entrambe queste dimensioni necessitano di un approccio pubblicitario diverso rispetto alla classica display: nel mobile la dimensione dello schermo è piccola, e pertanto non è molto lo spazio che è possibile dedicare ai banner pubblicitari senza interrompere l’esperienza di navigazione degli utenti. I social media, invece, rappresentano un luogo virtuale che specie da mobile è esterno ai siti web, dove la padronanza sulle pubblicità è dei concessionari di pubblicità digitale come Google e gli altri network display e di affiliazione.

L’approccio adeguato a rispondere a queste altre due tendenze potrebbe quindi essere rappresentato dal native advertising, che inserendosi contestualmente in entrambe le dimensioni può consentire agli utenti di avere una fruizione adeguata della loro navigazione, agli editori di monetizzare il traffico proveniente da mobile (che secondo Claudio Vaccaro è del 30% sul totale del traffico, e in alcuni settori del 50%), e alle aziende di intercettare i consumatori con un messaggio rilevante e contestuale.

Andando ad esaminare le ragioni delle agenzie, invece, si può affermare che queste abbiano colto un movimento nel mercato pubblicitario, per poi proporre delle forme

innovative di collaborare con i brand inserzionisti e con gli editori. Le agenzie con un maggiore expertise nel digitale – come BizUp – hanno potuto integrare facilmente le attività di creazione e di distribuzione dei contenuti, mentre le agenzie di comunicazione – come Ogilvy & Mather – stanno iniziando a dotarsi di figure in grado di proporre un contenuto coerente con le esigenze dei propri clienti e adatto ad essere ospitato in un contesto editoriale in linea con gli obiettivi di comunicazione.

Quindi, è possibile affermare che le esigenze di monetizzazione degli editori e di spostamento del budget degli inserzionisti – senza dimenticare le esigenze degli utenti – abbiano portato a una crescita molto rapida del native advertising in Italia.

Il rispetto dell’esperienza di navigazione degli utenti, unitamente alle esigenze di editori e aziende, hanno quindi incentrato l’attenzione del native advertising in particolare sull’importanza dei contenuti, dello storytelling, e in generale sull’importanza di trovare un approccio di comunicazione digitale in grado di capire i cambiamenti nell’ambiente di mercato per proporre soluzioni più efficaci su tutti i fronti.

4.3 Il flusso pubblicitario del native advertising

Uno degli aspetti più interessanti della ricerca empirica svolta riguarda la creazione e la distribuzione dei contenuti advertising, cioè il flusso del native advertising.

Si tratta di un aspetto poco indagato dalla letteratura (Matteo & Dal Zotto, 2015), che invece si è concentrata di più sullo spostamento della produzione di contenuti da parte dalle agenzie agli editori. Questa è una necessità dettata dal native advertising poiché sono le redazioni delle testate che fanno capo agli editori a riflettere meglio lo stile di scrittura e il tono di voce. Wegert (2015) riporta che sono molti gli editori che hanno iniziato a dotarsi di figure dedicate alla produzione di contenuti editoriali per i brand, come il Times Brand Studio del New York Times, i Guardian Labs del Guardian, la redazione di Buzzfeed e Brandvoice di Forbes. In Italia questa tendenza è stata accolta e confermata da tutti gli editori intervistati, seppure con delle peculiarità diverse da caso a caso.

Il gruppo editoriale A. Manzoni & C. Spa concentra la produzione dei contenuti native a capo della redazione delle testate, mentre Condé Nast ha creato un’unità dedicata alla produzione di contenuti ad hoc per le aziende, Think Content. Questa è considerabile a tutti gli effetti un’agenzia creativa a disposizione esclusiva delle redazioni di Condé Nast

Italia, e si occupa della produzione di campagne di native advertising intese come una serie di contenuti editoriali coerenti con il proprio stile editoriale e con le esigenze del brand. In questo le unità creative degli editori si sovrappongono alle agenzie di comunicazione, come Ogilvy, un altro soggetto intervistato, e risponde a un’esigenza anche delle aziende inserzioniste di avere un rapporto più diretto con l’output di comunicazione, senza la mediazione di un soggetto terzo, che è l’agenzia. Le agenzie, tuttavia, stanno trovando dei modi per riposizionarsi e di affermare il proprio valore, facendo leva sui propri asset. Nel caso di BizUp si è trattato di incorporare le funzioni di content marketing e di digital PR, in modo da avere una stretta connessione tra produzione dei contenuti e loro distribuzione. Nel caso di Ogilvy, invece, è stata creata una divisione con funzioni simili, in grado di progettare esperienze di comunicazione adatte ad essere inserite in un contesto editoriale di destinazione, e facendo leva sul valore di agenzia come soggetto in grado di interpretare le esigenze dei brand e trasformarle in una strategia di comunicazione declinabile su più canali, tra i quali sono considerabili anche gli editori che propongono native advertising. Tuttavia, se gli editori stessi iniziano a dotarsi di competenze simili a quella dell’agenzia, si crea il rischio per quest’ultima di essere disintermediata dalle funzioni di produzione dei contenuti, e di rimanere solo un soggetto in grado di dare una consulenza strategica su quali siano i canali e i media in cui veicolare le proprie attività di comunicazione.

La aziende inserzioniste, dal loro canto, hanno iniziato anch’esse a dotarsi di competenze interne abili alla produzione di contenuti, sebbene in modi diversi. Salewa, ad esempio, ha scelto di produrre internamente i contenuti attraverso il dipartimento di comunicazione, dove ci sono delle figure specificatamente dedicate al content marketing. KIA, invece, ha integrato gli uffici di marketing e di PR, con lo scopo di utilizzare le attività di marketing nelle attività di pubbliche relazioni, e viceversa. Pixartprinting, addirittura, non esternalizza alcun tipo di attività, ma svolge tutto internamente. In altri casi, come quello di Sodastream e di un’azienda del settore fashion, non ci sono invece figure dedicate alla creazione dei contenuti, i quali vengono affidati a un’agenzia nel primo caso e all’editore Condé Nast nel secondo.

Quello che è realmente distintivo per il native advertising è che le attività di creazione e sviluppo del contenuto vengono incorporate insieme alla sua distribuzione. Questo pone il creatore dei contenuti nella necessità di avere un atteggiamento in ottica “media”, dovendo pensare intrinsecamente alla produzione anche al target, al luogo dove verrà ospitato il contenuto, e al tono di voce che è necessario utilizzare per essere affini a un determinato

target e con lo stile della testata editoriale. È proprio questo il motivo per cui sono sempre più gli editori a presidiare entrambe le fasi, quella della produzione e quella della distribuzione del contenuto.

4.4 Obiettivi e metriche di misurazione del native advertising

Dalla ricerca empirica è emerso che gli obiettivi del native advertising si possono suddividere in due tipologie:

1. obiettivi legati alle prime fasi del customer journey; 2. obiettivi legati a fasi più avanzate del customer journey.

Secondo il paper dello IAB (2013) il native advertising è tanto più puro quanto più, al netto delle altre quattro caratteristiche (forma, funzione, integrazione e targeting), ha un obiettivo di brand awareness o di brand engagement piuttosto che di interazione diretta, ad esempio una conversione (come un acquisto, la compilazione di un form o il rilascio di un contatto). Andando a esaminare la teoria del customer journey di Court et al. (2009) e poi di Edelman e Singer (2015), si nota che i brand devono essere presenti in tutti i punti di contatto che si possono determinare con i consumatori, con un’importanza prevalente della fase iniziale di

awareness e di quella che chiude il cerchio di advocacy. L’obiettivo delle aziende nelle

attività di comunicazione non deve quindi solo essere quello di essere riconosciuti e poi considerati, ma anche di stabilire un contatto che prosegua per l’intero percorso e poi di rendere il consumatore fedele, utilizzando tutti i canali appropriati.

Il native advertising è un ottimo strumento di pubblicità inserito in un paid media in grado di catturare l’attenzione degli utenti e la coerenza con il contesto editoriale, attraverso dei contenuti in grado di interessarli e di stimolarli a proseguire nel percorso.

Se per alcuni soggetti intervistati, tra cui quasi tutti gli editori ed alcune aziende, l’obiettivo principale del native advertising è quello della brand awareness, per altri l’attenzione si sposta a degli obiettivi di engagement e di advocacy che vanno al branding puro.

Secondo l’editore Manzoni, il native advertising serve per affermare il brand a un livello alto, con una logica simile a quella della comunicazione istituzionale, e ciò è chiaro attraverso gli esempi delle aziende che hanno applicato il native advertising sui siti editoriali di riferimento. Ma già secondo Condé Nast Italia l’obiettivo si può estendere a quello dell’interazione sul sito dell’azienda, in base agli obiettivi dell’azienda, e a quello dell’engagement, in quanto i contenuti sono maggiormente in grado di creare una connessione valoriale tra brand e consumatori e quindi di stimolare un passaparola virtuale

attraverso i social network. Vediamo che in questo aspetto il native advertising genera effetti importanti anche sugli earned media, a partire da un canale a pagamento.

Le metriche di misurazione dei key performance indicators legati alle prime fasi del customer journey risultano essere quelli del numero di visualizzazioni del contenuto, il tempo di permanenza in pagina e il bounce rate (la percentuale di utenti che esce dal sito dopo avere navigato su almeno una pagina). Queste metriche sono anche in grado di dare una stima dell’engagement, che rappresenta il coinvolgimento degli utenti nei confronti del contenuto. Secondo i risultati della ricerca, la definizione di engagement non è ancora condivisa, ma si tratta di una metrica più avanzata in grado di prendere in considerazione anche la dimensione dell’attenzione e dell’interesse da parte degli utenti: se le visualizzazioni di un contenuto sono alte, così come è alto il tempo di permanenza in pagina, significa che i lettori hanno trovato rilevante il contenuto proposto da parte dell’azienda all’interno del sito editoriale, probabilmente al pari di un contenuto editoriale redazionale. Quest’ultimo è un ottimo indicatore per gli editori per valutare il successo delle campagne di native advertising. A rendere più interessante questa metrica, vi è anche il mutamento del modello commerciale pubblicitario, che passa da una vendita a impression (si paga il numero di persone che vengono raggiunte dalla campagna) a una vendita a contatto (viene pagato il numero di persone che effettivamente leggono il contenuto). Sebbene questo modello non coincida tra tutti gli editori, a tendere è ciò che si dovrà privilegiare per distinguere nettamente la vendita del native advertising da quella della display advertising.

Per quanto riguarda gli obiettivi legati alle fasi più avanzate del customer journey, è emblematico l’esempio di Salewa, i cui key performance indicators delle campagne native condotte erano sulle conversioni, a intendere le persone che registravano a un contest promosso dall’azienda, inizialmente anche sul sito gazzetta.it attraverso un contenuto sponsorizzato, stimolando gli utenti a proseguire nel journey sul loro sito internet e in integrazione con altri mezzi (tra cui il retargeting attraverso la display advertising), in modo da colpire utenti actives ed enthusiast e portarli a vivere, attraverso la vittoria del contest, un’esperienza Salewa, e di renderli così dei brand advocates. In questo senso l’esempio di Salewa rappresenta un caso di campagna integrata attraverso tutte le fasi del customer journey di successo, avendo raggiunto il duplice obiettivo di creare awareness sulla propria marca e di creare consumatori molto fedeli, se non entusiasti, al brand.

In ultimo, è bene sottolineare che si è riscontrata una dissonanza tra i KPI indicati dalla letteratura e quelli indicati dai soggetti intervistati.

Secondo Libert (2015), infatti, i KPI principali del native advertising sarebbero solo le visualizzazioni di pagina, il traffico sul sito del brand e l’engagement sui social network. Questi indicatori non considerano, come visto, KPI tipici sia di fasi iniziali del customer journey, come il tempo di permanenza all’interno della pagina e il bounce rate, sia di fasi più avanzate del customer journey, come l’acquisizione di contatti.

In generale, però, è emerso che una divisione così netta degli obiettivi alla base del native advertising potrebbe non essere una decisione corretta, se si guarda a una campagna di comunicazione digitale integrata tra i diversi canali. E proprio per questo motivo risulta rilevante attirare l’attenzione degli utenti con lo scopo di inserirli all’interno della propria customer journey, ed essere rilevanti nei momenti in cui gli utenti hanno un contatto con il brand, in modo da raggiungere gli obiettivi di digital marketing dell’azienda, coerentemente con gli obiettivi generali di marketing.

La ricerca ha dimostrato che il native advertising può essere utilizzato con successo sia per gli editori sia per le aziende inserzioniste. Significativo è il caso di UpStory, piattaforma di incontro tra publisher e inserzionisti creata dall’agenzia romana BizUp, che dopo un anno dalla sua nascita è arrivata ad occupare il 15% del fatturato dell’agenzia, promettendo una crescita anche per l’anno successivo. Anche per Condé Nast, che a gennaio 2016 ha dato vita a Think Content, il native advertising è il tipo di pubblicità digitale che cresce relativamente di più rispetto alle altre che vengono vendute dallo stesso editore. Dal punto di vista delle aziende inserzioniste, invece, come già sottolineato il successo del native advertising dipende dagli obiettivi dell’azienda.

Un esempio delle potenzialità di successo del native advertising viene da KIA, che misura le campagne native con dei KPI di breve periodo: nel caso della sua campagna con Il Sole 24 Ore il tempo speso all’interno della pagina di KIA provenendo dal native advertising era del +200% rispetto alla display advertising. Ma prendendo in considerazione anche l’indicatore più importante, cioè quello della brand awareness, con un monitoraggio trimestrale sulla percezione di alcuni attributi di marca in confronto ai propri competitor, l’azienda ha visto un incremento del 5-10% degli elementi valoriali che volevano essere diffusi con il native advertising.

4.5 L’aspetto della disclosure nel native advertising

La necessità della disclosure nel native advertising – ovvero l’utilizzo di un’etichetta chiara che contrassegna che il contenuto editoriale è sponsorizzato da un’azienda – appare in maniera condivisa come qualcosa nemmeno da discutere per i soggetti intervistati. In particolare, si ritiene che la disclosure sia l’essenza stessa del native advertising: poiché il contenuto sponsorizzato si inserisce organicamente all’interno dell’esperienza dell’utente, senza interromperla, significa che una caratteristica intrinseca del native advertising è che sia evidentemente pubblicità, e non che questo aspetto venga nascosto. I dibattiti sulla segretezza del native advertising da parte della letteratura, quindi, sembrano superati dalla pratica pubblicitaria e dalla consapevolezza dei player intervistati.

Per l’inserzionista, chiaramente, potrebbe esserci una volontà di segretezza poiché l’assenza della fonte di tipo aziendale in un contenuto editoriale potrebbe permettere