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La definizione di pratica commerciale scorretta e i principi di buona fede, correttezza e lealtà previsti dal codice del consumo.

QUADRO NORMATIVO

3. La definizione di pratica commerciale scorretta e i principi di buona fede, correttezza e lealtà previsti dal codice del consumo.

Dopo aver esaminato il concetto di professionista perseguibile per attività promozionali sleali564, appare ora opportuno soffermarsi sulla nozione generale di pratica commerciale scorretta.

Essa è dettata dall’art. 20, comma 2, cod. cons., la cui formulazione testuale riprende – non letteralmente, come avrò modo di chiarire tra un momento – la definizione riportata nell’art. 5, comma 2, dir.565.

Non tornerò sui rapporti tra «superclausola» generale-nozioni intermedie di pratiche ingannevoli e aggressive-cd. «liste nere» di pratiche in «ogni caso» vietate, su cui mi sono già ampiamente soffermata in precedenza566. Anche qui mi preme, tuttavia, ribadire che nell’interpretazione, a mio avviso, preferibile, la «superclausola» generale operi in via residuale: essa deve trovare applicazione nell’eventualità in cui si configuri un’attività pubblicitaria vietata, non inquadrabile all’interno delle previsioni degli artt. 21 e ss. cod. cons. Il che non assegna, però, lo sottolineo ancora una volta, un ruolo secondario all’art. 20, comma 2. Tale disposizione resta, invece, il fulcro dell’intera disciplina, sia perché la «superclausola» ha il ruolo di definire i criteri generali che qualificano come scorretta una pratica commerciale; sia perché essa funge da «norma di chiusura», che interviene nei (rari) casi in cui le previsioni «speciali» non riescano a «catturare» la fattispecie concreta, avendo il professionista realizzato un’attività non inquadrabile nelle fattispecie astratte più analitiche, ex artt. 21 ss. cod. cons.567.

Come si accennava poc’anzi, la nozione generale contenuta nel codice del consumo riproduce sostanzialmente quella prevista dalla direttiva 2005/29. Ai sensi dell’art. 5, comma 2, dir., una pratica commerciale è sleale, se integra contemporaneamente due requisiti: a) «è contraria alle norme di diligenza

564 V. supra ai par. da 1 a 2 del presente cap. III.

565 V. DE CRISTOFARO, La nozione generale di pratica commerciale «scorretta», in AA.VV.,

Pratiche commerciali scorrette e codice del consumo. Il recepimento della direttiva 2005/29/Ce nel diritto italiano (decreti legislativi nn. 145 e 146 del 2 agosto 2007), a cura di DE CRISTOFARO, cit., p. 143.

566 Si rinvia, in particolare, supra ai par. 2.1. e 2.2. del cap. I. 567 Si rinvia, ancora una volta, supra ai par. 2.2. del cap. I.

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professionale»; b) «falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori».

A ben vedere, la definizione di recepimento nazionale e quella comunitaria divergono in diversi punti.

In primis, l’art. 20 cod. cons. discorre di contrarietà alla diligenza

professionale e non alle norme di diligenza professionale. Come la dottrina ha opportunamente rilevato, si tratta, però, di una discordanza di poco conto, spiegabile nei termini di un mero miglioramento linguistico nella formulazione del testo normativo568.

Possono, invece, rivelarsi più importanti due altre differenze lessicali. Secondo la nozione riportata all’interno del nostro codice del consumo, va ritenuta scorretta la pratica che «è falsa o idonea a falsare…» e non quella che «falsa o è idonea a falsare…», come si legge, invece – lo si diceva poc’anzi –, nell’ambito della fonte europea del 2005.

L’interpretazione letterale dell’art. 20 cod. cons. porterebbe a definire come scorretta una pratica, oltre che se contraria alla diligenza professionale, per la sua «falsità», per così dire, intrinseca, ovvero, in alternativa, per la sua attitudine a falsare le scelte d’acquisto dei consumatori.

Parte della dottrina ritiene, però, un simile esito inaccettabile, poiché – si sostiene – una pratica commerciale non è mai di per sé o intrinsecamente falsa; semmai, sarebbero false unicamente le informazioni che, per il tramite della medesima, vengano divulgate al pubblico569. Siffatta dottrina argomenta poi che vi è tutta una serie di pratiche commerciali, la cui antigiuridicità non è affatto rappresentata dalla falsità del contenuto delle comunicazioni, quanto piuttosto dalle modalità con cui il professionista decide di relazionarsi con i consumatori. Si fa riferimento, a titolo esemplificativo, alle azioni ingannevoli per confusione o per violazione dei codici di condotta, alle omissioni ingannevoli di informazioni rilevanti o perché poco trasparenti, ovvero ancora alle pratiche commerciali aggressive570.

Quest’ultima argomentazione, seppure corretta, non mi sembra, tuttavia, estendibile a tutte le pratiche commerciali. In ogni caso, siffatta tesi non mi convince. Basti qui richiamare la definizione generale, di cui all’art. 18, comma 1, lett. d) cod. cons., che per «pratica commerciale» – come è noto – intende «qualsiasi azione, omissione, condotta, dichiarazione, comunicazione

568 Cfr. DI NELLA, Le pratiche commerciali sleali «aggressive», cit., p. 298.

569 V. DE CRISTOFARO, La nozione generale di pratica commerciale «scorretta», cit., p. 144; DI

NELLA, Le pratiche commerciali sleali «aggressive», cit., p. 298.

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commerciale, ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto…». Ma, allora, attribuire qualità palesemente non vere ad un prodotto reclamizzato, ossia, in altri termini, dichiarare il falso, costituirà certamente una «pratica intrinsecamente falsa». Se, ad esempio, in un claim si promuove una lozione per capelli con proprietà «miracolose», promettendosi l’impossibile (una rapida ricrescita dei capelli caduti), nella mia opinione, si ha a che fare con un’attività pubblicitaria falsa in sé e la falsità atterrà proprio al contenuto della suddetta comunicazione commerciale. In ogni caso, fatico a comprendere la differenza tra «pratica intrinsecamente falsa» e pratica che diffonda informazioni false.

La dottrina che si tenta in questa sede di confutare sostiene, inoltre, che una lettura troppo aderente al dato testuale dell’art. 20 cod. cons. risulti incoerente con la struttura «a piramide» della disciplina e, in particolare, con le nozioni intermedie di pratiche ingannevoli (ancor più che con quelle di pratiche aggressive). Non capisco, tuttavia, in quali termini si realizzerebbe un simile contrasto.

Secondo la ricostruzione che qui si critica, una simile esegesi risulterebbe in palese contraddizione con il diritto europeo571. Ma così non è, se il verbo «falsa …» riportato nell’art. 20 non viene isolato dal contesto dell’intera disposizione. Si torni all’esempio della pratica commerciale che promuove una lozione per capelli dagli effetti prodigiosi. Una simile pubblicità è intrinsecamente falsa (perché dichiara il falso), e, in ogni caso, anche a voler prescindere da tale profilo, certamente essa «falsa o è idonea a falsare in misura rilevante il comportamento economico del consumatore medio». Letta in questi termini, la definizione del codice del consumo italiano rispecchia perfettamente quella dettata dalla direttiva (art. 5).

In ogni caso, in forza della supremazia della fonte comunitaria, un’interpretazione della disposizione nazionale in senso conforme al diritto euro-unitario è imprescindibile. D’altronde, come pure ha rilevato un autore572, «appare tutt’altro che inverosimile che il legislatore italiano si sia discostato in questo punto dalla formulazione della direttiva non tanto in virtù di una scelta consapevole e ponderata, quanto piuttosto per una mera svista dovuta a superficialità e disattenzione!».

Un ulteriore elemento di diversità lessicale, rinvenibile nella disposizione nazionale, posta a confronto con quella comunitaria, è dato dall’aggettivo «apprezzabile», preferito a «rilevante»: ai sensi dell’art. 20, comma 2, cod. cons.,

571 Tanto più tenuto conto della portata di armonizzazione completa della fonte sulle PCS (DE

CRISTOFARO, La nozione generale di pratica commerciale «scorretta», cit., p. 144).

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la pratica scorretta deve essere, dunque, idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio.

Tale novità è stata invero giudicata positivamente dalla dottrina, che ha ritenuto l’espressione più idonea a garantire la massima protezione per i consumatori, rispetto al termine utilizzato nella versione italiana della direttiva. La parola «apprezzabile», preferita dal nostro legislatore, abbraccia, infatti, un numero di pratiche potenzialmente più ampio, richiedendo all’attività promozionale scorretta un’idoneità ad incidere sulle decisioni economiche dei consumatori in misura minore rispetto a quanto lasci intendere l’espressione «rilevante». Quest’ultimo aggettivo, invece, come osserva giustamente un autore, richiederebbe «quantitativamente una maggiore influenza della pratica» sulle scelte d’acquisto dei consumatori, al fine di poterla ricondurre all’interno del divieto generale573. Nei termini in cui è formulato dalla disposizione italiana, quindi, il divieto pone in opportuna evidenza la naturale destinazione della pratica commerciale ad influire sulle scelte dei singoli consumatori e garantisce a questi ultimi una tutela più estesa574.

L’importanza di quest’ultimo profilo è confermata, peraltro, dallo stretto legame tra disciplina sulle PCS e art. 39 cod. cons.575. Ai sensi di tale previsione, «le attività commerciali sono improntate al rispetto dei principi di buona fede, di correttezza e di lealtà, valutati anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori».

Prima di esaminare nel dettaglio i requisiti normativamente richiesti affinché una pratica commerciale possa dirsi sleale576, occorrerà, dunque, chiarire il rapporto intercorrente tra la scorrettezza, di cui all’art. 20 cod. cons. e «i principi di correttezza, buona fede e lealtà», richiamati dall’art. 39. Un simile chiarimento appare tanto più opportuno, in considerazione del fatto che nell’elenco dei diritti fondamentali dei consumatori (e utenti), di cui all’art. 2, comma 2, cod. cons., la lett. c bis)577 prevede espressamente il diritto

573 V. DI NELLA, Le pratiche commerciali sleali «aggressive», cit., p. 299, in part. alla nota 28. 574 Cfr. TOMMASI, op. cit., p. 56. D’altra parte, la Proposta di direttiva del Parlamento Europeo

e del Consiglio relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno e che modifica le direttive 84/450/Cee, 97/7/Ce e 98/27/Ce (direttiva sulle pratiche commerciali sleali), COM (2003) 356 def., 18 giugno 2003, p. 14, nella presentazione generale

del divieto ex art. 5 dir., ha chiarito che «la pratica commerciale, considerata nel contesto, deve avere un effetto sufficientemente significativo da modificare o essere idonea a modificare il comportamento del consumatore».

575 V. TOMMASI, op. cit., p. 58.

576 Tali requisiti sono stati menzionati all’inizio del presente par. e saranno oggetto infra dei par.

4 e 5 del presente cap. III.

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«all’esercizio delle pratiche commerciali secondo i principi di buona fede, correttezza e lealtà»578.

Non è revocabile in dubbio che i principi della lett. c bis) dell’art. 2 siano i medesimi a cui fa riferimento l’art. 39 cod. cons. Come è dato leggere nella Relazione illustrativa del d.lgs. n. 206/2005, infatti, l’art. 39 «introduce regole generali nelle attività commerciali, conformi ai principi generali di diritto comunitario in tema di pratiche commerciali sleali». L’affermazione trova ulteriore conferma nella Relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 221/2007, laddove si precisa che la lett. c bis) – aggiunta proprio in tale sede – detti «una disposizione di richiamo ai principi di correttezza, lealtà e buona fede, conformemente con quanto previsto dalla Direttiva 2005/29/Ce in materia di pratiche commerciali sleali recepita con il decreto n. 146 del 2007».

Dalla stretta connessione tra le norme menzionate, si desume, innanzitutto, che l’espressione «pratiche commerciali», riportata all’interno dell’art. 2 cod. cons., vada letta nel senso chiarito dall’art. 18, comma 1, lett. d) cod. cons. e, quindi, nell’accezione specificamente prevista dalla disciplina sulle PCS. Parimenti, nella stessa accezione, va intesa anche la locuzione «attività», invero preferita alla formula «pratiche commerciali», contenuta nell’art. 39 cod. cons.

In secondo luogo, ed è questo il corollario più importante, la qualificazione di una pratica commerciale come scorretta, ai sensi degli artt. 20 e ss. cod. cons., esprimerà certamente la sua non rispondenza ai «principi di buona fede, correttezza e lealtà», richiamati dal combinato disposto degli artt. 2 e 39 cod. cons.

In conclusione, il professionista che viola il divieto di pratiche commerciali scorrette viene meno, con un simile comportamento, al precetto di cui all’art. 39 cod. cons. e lede, al contempo, un diritto riconosciuto come fondamentale per i consumatori (e utenti) dall’art. 2, comma 2, lett. c bis)579.

4. I parametri di valutazione della scorrettezza: a) la contrarietà alla

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