DELLA GIURISPRUDENZA INTERNA E COMUNITARIA
8. L’intervento ben poco risolutivo della Corte di Giustizia CE:
un’occasione mancata.
Come ho già avuto modo di anticipare497, il 13 settembre 2018, la seconda sezione della Corte di Giustizia si è pronunciata sul rinvio pregiudiziale promosso dal Consiglio di Stato in merito all’interpretazione di alcune previsioni della direttiva 2005/29, da applicare allo specifico settore delle telecomunicazioni498.
L’esegesi della Corte di Giustizia appariva ai più decisiva per poter finalmente definire, in piena conformità con il diritto euro-unitario, il binomio discipline-autorità competenti nel contrastare le pratiche commerciali scorrette all’interno dei mercati regolati italiani.
495 V. Orientamenti per l’attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE relativa alle
pratiche commerciali sleali, Bruxelles, 25 giugno 2016, SWD (2016) 163 final, cit.
496 Cfr. MOSCA, op. ult. cit., p. 527. 497 V. supra al par. 7 del presente cap. II. 498 V. Corte CE, 13 settembre 2018, cit.
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Viste le continue oscillazioni della giurisprudenza e della legislazione nazionale sul punto, i quesiti sottoposti ai magistrati europei avrebbero richiesto una risposta ampia e il più possibile esaustiva. Una risposta che, seppure inevitabilmente riferita al settore strettamente coinvolto nella vertenza, potesse estendersi, in via interpretativa, a tutti i mercati regolati e a tutte le ipotesi di potenziale conflitto di una lex specialis con la direttiva del 2005. In tal modo, almeno indirettamente, si sarebbe potuta risolvere la questione della compatibilità con il diritto comunitario dell’art. 27, comma 1 bis, cod. cons. Su tale questione, è bene precisarlo, i magistrati europei non erano tenuti ad esprimersi, giacché il Consiglio di Stato non ne aveva fatto oggetto di alcun quesito specifico. Tuttavia, una risposta più esauriente della Corte avrebbe potuto contribuire a fare luce anche su un simile profilo.
Sennonché, i giudici di Lussemburgo, più o meno consapevolmente, si sono ben guardati dall’affrontare in modo approfondito il collegamento tra normative e autorità competenti nell’ambito delle attività promozionali sleali. Le aspettative di quanti confidavano in una soluzione definitiva della questione esaminata in queste pagine sono state così disattese: lungi dall’offrire una conclusiva «quadratura del cerchio», la decisione sorvola sugli elementi più salenti sottoposti all’attenzione della Corte e non giunge ad un chiarimento utile e persuasivo.
Dopo aver riassunto i fatti e riportato i quesiti sollevati in sede di rinvio, la Corte di Giustizia affronta le questioni pregiudiziali, esaminando congiuntamente le prime due e le restanti cinque, senza offrire alcuna risposta all’ultima.
Una simile tecnica argomentativa già di per sé mi lascia perplessa. Per quanto i quesiti fossero tutti strettamente collegati l’uno all’altro, ciascuno di essi avrebbe richiesto un’analisi approfondita. Trattando simultaneamente più questioni, i giudici europei hanno invero aggirato alcuni interrogativi e chiarito solo superficialmente altri. Fatico poi davvero a comprendere per quale ragione, secondo la Corte, «non occorre rispondere alla settima questione».
Segnatamente, i magistrati comunitari, in primo luogo, hanno stabilito che la nozione di fornitura non richiesta, quale pratica commerciale «in ogni caso» aggressiva, ricomprenda certamente le condotte degli operatori di telecomunicazioni oggetto dei procedimenti principali, «consistenti nella commercializzazione (…) di carte SIM sulle quali sono preimpostati e preattivati determinati servizi, quali la navigazione Internet e la segreteria telefonica, senza che il consumatore sia stato previamente ed adeguatamente informato né di tale preimpostazione e preattivazione né dei costi di tali servizi».
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È irrilevante – continua la pronuncia – che l’utilizzo di siffatti servizi abbia richiesto, in alcuni casi, «un’azione consapevole da parte del consumatore», o che questi abbia avuto l’opportunità di optare per la loro disattivazione. L’acquirente medio di carte SIM non è in alcun modo consapevole del fatto che, al momento dell’acquisto della carta, essa contenga automaticamente servizi aggiuntivi; ovvero che, una volta inserita la SIM in un dispositivo mobile, quest’ultimo possa collegarsi a Internet all’insaputa del consumatore con costi ulteriori, non preventivabili.
A conferma di tali osservazioni, la Corte aggiunge che il prezzo costituisce un’informazione necessaria, nella specie occultata dai professionisti, affinché l’acquirente assuma una decisione di consumo consapevole.
I rilevi dei giudici europei su tali questioni appaiono interessanti, perché ammettono, seppure implicitamente, la possibilità di pratiche commerciali aggressive in forma omissiva. Un’eventualità quest’ultima che solo alcuni autori avevano sostenuto espressamente e su cui io stessa ho manifestato alcuni dubbi499.
In secondo luogo, con riferimento alle ulteriori questioni analizzate cumulativamente, i giudici di Lussemburgo hanno precisato che l’art. 3, comma 4 e il Considerando n. 10 dir. vanno interpretati nel senso che la disciplina generale debba applicarsi «soltanto qualora non esistano specifiche norme del diritto dell’Unione che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali»500.
Dal momento che la direttiva «servizio universale» non contiene «norme disciplinanti aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, come la fornitura non richiesta»501 e la stessa direttiva prevede che le sue disposizioni si applichino «fatte salve le norme [dell’Unione] in materia di tutela dei consumatori», la Corte conclude che nei procedimenti principali valgano esclusivamente «le norme pertinenti della direttiva 2005/29»502.
Da siffatte considerazioni mi sembra possibile evincere che i giudici europei abbiano optato per una declinazione del principio di specialità «per
499 Cfr. BERTANI, Relazione dal titolo Pratiche commerciali ingannevoli fra disciplina generale
e regolazione di settore, cit. Già in occasione del convegno ferrarese e, in termini ancora più
netti in un secondo momento, l’a. ha, però, sollevato condivisibili perplessità sul punto (BERTANI, Pratiche commerciali scorrette e violazione della regolazione settoriale tra concorso
apparente di norme e concorso formale di illeciti, cit., p. 943). Rinvio alle considerazioni che ho
espresso supra al par. 6.1. del presente cap. II.
500 Sul punto la sentenza richiama Corte CE, 16 luglio 2015, Abcur, cause riunite C-544/13 e C-
545/13, cit. (v. punto 58 della sentenza).
501 V. punto 66 della sentenza della Corte. 502 V. punto 69 della sentenza della Corte.
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fattispecie (astratte)» o «per norme»503. Tuttavia, a mio avviso, sarebbe stato più opportuno se si fosse esplicitata chiaramente l’esegesi prescelta.
Inoltre, resta inspiegabilmente irrisolta la questione relativa alla nozione di «norma comunitaria». La pronuncia pregiudiziale rinvia genericamente alle disposizioni europee: non viene affatto chiarito se l’antitesi tra leges speciales e
lex generalis – riprendendo il quesito formulato dalla Sesta Sezione – riguardi,
in senso stretto, «le sole disposizioni contenute nei regolamenti e nelle direttive europee, nonché le norme di diretta trasposizione delle stesse», ovvero, in senso ampio, ricomprenda anche le «disposizioni legislative e regolamentari attuative di principi di diritto europeo». Nel silenzio della Corte su tale profilo – silenzio che io stessa ho definito assordante504–, direi che dovrebbe privilegiarsi una lettura restrittiva del concetto in esame.
Quanto alla nozione di «contrasto», i giudici di Lussemburgo l’hanno intesa, in definitiva, quale sinonimo di divergenza insuperabile. Su tale interpretazione mi sono già espressa505. In questa sede, mi limito solo a ribadire che la scelta esegetica della Corte con riferimento a tale termine sia stata quella, a mio avviso, preferibile per le ragioni esplicitate in precedenza.
Sebbene i magistrati comunitari non dicano nulla in proposito, dal tenore complessivo della sentenza parrebbe poi emergere una preferenza per l’applicazione trasversale e il più possibile generalizzata della direttiva sulle PCS, nella sua funzione di «rete di sicurezza», a scapito delle eventuali discipline settoriali concomitanti. Lo si evince, nella mia opinione, dal passaggio in cui la Corte afferma che la fattispecie di fornitura non richiesta, dovendo essere valutata alla luce della direttiva 2005/29, non può essere sanzionata dall’Autorità Nazionale di Regolazione prevista dalla direttiva (speciale) «servizio universale»506. La fonte comunitaria del 2005, quale lex generalis, dovrà essere, allora, il riferimento costante, la «rete», appunto, che risolve dubbi applicativi e lacune. In tal senso, la sentenza ha il merito di offrire, seppure tra le righe, indicazioni utili a definire il rapporto tra discipline e autorità competenti nell’ambito delle pratiche commerciali sleali.
Infine, mi sembra grave l’omissione dei giudici comunitari sul quesito pregiudiziale «di chiusura», formulato, tra l’altro, in termini molto chiari dal Consiglio di Stato: esso avrebbe necessitato di una valutazione particolarmente approfondita da parte della Corte europea. I magistrati italiani si erano chiesti se per una condotta aggressiva o «in ogni caso» aggressiva, realizzata in un mercato regolato, dovesse trovare comunque applicazione in via esclusiva la lex
503 Lo accennavo già supra al par. 7 del presente cap. II. 504 V. supra al par. 7 del presente cap. II.
505 V. supra al par. 7 del presente cap. II. 506 V. punto 70 della sentenza della Corte.
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generalis, anche a fronte di una lex specialis che avesse disciplinato la medesima
fattispecie in modo compiuto. La Corte di Giustizia ha ritenuto la questione fondata su una premessa errata, ossia quella per cui la direttiva «servizio universale» si occupi direttamente anche di pratiche commerciali di tipo aggressivo, ragion per cui, a detta dei giudici, non occorre offrire alcuna risposta all’interrogativo suddetto.
Ma è chiaro che, pur partendo dal caso di specie, il quesito della Sesta Sezione avesse valenza generale. I magistrati europei, per contro, si sono trincerati dietro la peculiare vertenza da cui è originato il rinvio, per eludere del tutto il quesito. Un chiarimento da parte della Corte sarebbe stato invero fondamentale, tenendo conto anche della possibilità, emersa nella prassi507, di riservare un trattamento differenziato alle tipologie di pratiche commerciali scorrette, a fronte di una (ipotetica) maggiore gravità delle attività promozionali aggressive rispetto a quelle ingannevoli.
In conclusione, la sentenza della Corte di Giustizia dello scorso settembre appare deludente. Pur offrendo alcuni spunti, essa non risponde adeguatamente ai molti interrogativi emersi in questi anni in merito al collegamento tra discipline e Authorities nell’ambito delle pratiche commerciali scorrette.
Resta, inoltre, ancora aperto il problema dell’euro-compatibilità del comma 1 bis dell’art. 27 cod. cons. Come anticipavo poc’anzi, sul punto non è rilevabile alcuna omissione dei giudici europei, dal momento che essi non sono stati direttamente interpellati sulla questione. Tuttavia, una risposta più esaustiva agli altri quesiti pregiudiziali avrebbe potuto essere d’aiuto anche su tale profilo. Mi preme qui ribadire508 come, nella mia opinione, l’art. 27, comma 1
bis, cod. cons. si ponga in aperto contrasto con la lettera dell’art. 19, comma 3,
cod. cons., che, a sua volta, ha recepito pedissequamente l’art. 3, comma 4, dir. Nell’impossibilità di individuare una lettura della disposizione conforme al diritto comunitario, l’unica strada percorribile è, a mio avviso, disapplicare il comma 1 bis dell’art. 27 cod. cons., facendo prevalere l’art. 19, comma 3, cod. cons./art. 3, comma 4, dir. Mi sembra, peraltro, significativo e ben poco confortante il fatto che la procedura d’infrazione intentata nel 2013 dalla Commissione UE nei confronti dell’Italia per violazione della direttiva sulle PCS509 risulti tuttora in corso.
507 V. supra ai par. 6.1. e 7 del presente cap. II. 508 V. supra al par. 5.1. del presente cap. II.
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