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Vergogna e presentazione di sé

2 Ripensare la Vergogna

2.8 Vergogna e presentazione di sé

La tesi di Velleman è che la vergogna sorge nel momento in cui un’identità non scelta si impone su quella che avremmo voluto mostrare. Il tentativo di auto-presentarsi in un determinato modo tuttavia non è guidato dal desiderio di essere apprezzati dagli altri, ma di essere riconosciuti come agenti sociali con cui è possibile interagire:

«And insofar as your persona is a positive bid for social interaction, you positively want it to be recognized as such. Not being recognized as a self-presenter would entail not being acknowledged as a potential partner in conversation, cooperation, or even competition and conflict. You thus have a fundamental interest in being recognized as a self-presenting creature, an interest that is more fundamental, in fact, than your interest in presenting any particular public image. Not to be seen as honest or intelligent or attractive would be socially disadvantageous, but not to be seen as a self-presenting creature would be socially disqualifying: it would place you beyond the reach of social intercourse altogether. Threats to your standing as a self- presenting creature are thus a source of deep anxiety, and anxiety about the threatened loss of that standing is, in my view, what constitutes the emotion of shame. The realm of privacy is the central arena for shame, I think, because it is the central arena for threats to your standing as a social agent.»221

La vergogna non nascerebbe dunque dal fallire nel mostrarci belli, intelligenti, simpatici etc, ma dall’incapacità di auto-definirci e perdere, davanti agli altri e a noi stessi, lo status di agenti sociali222. Per Velleman è questo l’interesse principale dell’uomo, e non quello di vedersi riconosciute particolari eccellenze o tratti del carattere nel disperato tentativo di ricercare l’approvazione dello spettatore. Chiaramente possiamo vergognarci del nostro aspetto fisico, di alcuni lati della nostra personalità, della nostra condizione economica, etc., ma la vergogna non dipende esattamente dal giudizio rivoltoci e dell’idea che gli altri

221 Cfr., J. D. Velleman, The Genesis of Shame, cit. pp. 27-52, p.37. Questo non significa che per

Velleman la vergogna sorga solo in relazione alla privacy: l’autore sostiene semplicemente che sono i casi più paradigmatici. V., Ivi., p. 31 e p 44.

222 Più precisamente: «…shame is the anxious sense of being compromised in one’s self-

presentation in a way that threatens one’s social recognition as a self-presenting person». Cfr., ivi., p.50.

possano essersi fatti sul nostro conto, quanto piuttosto dal fatto che tale giudizio compromette la nostra capacità di auto-presentarci223.

In questo modo Velleman offre una soluzione allo Unity Problem cercando di coniugare la concezione sociale della vergogna ad un approccio di tipo Kantiano: da una parte riconosce il ruolo giocato dallo spettatore, dall’altro riconduce l’origine dell’emozione ad una caratteristica fondamentale dello status di persona224.

La mia impressione tuttavia è che la risposta proposta dall’autore di The

Genesis of Shame risulti per certi versi artificiosa e non ci aiuti a risolvere la

questione. Analizziamo la tesi nel dettaglio.

Stando a quello che dice Velleman la paura insita nella vergogna è quella di non essere riconosciuti come agenti sociali. Mentre apparire in un modo sbagliato potrebbe al massimo suscitare disapprovazione nello spettatore, non venir identificato come self-presenting creature comporterebbe l’esclusione da qualunque tipo relazione interpersonale. Poiché quest’interesse è più fondamentale, al fine di ottenere tale riconoscimento il soggetto deve preservare «his power of self-definition»225. Seguendo questa linea argomentativa sarebbe lecito aspettarsi che l’utilizzo di tale potere sia meramente strumentale e il motivo per cui «you feel vulnerable to the loss of your standing as a self-presenting person»226 è perché il fallimento di tale capacità di auto-presentazione comporterebbe un’esposizione e l’essere squalificati socialmente. Ma Velleman non ci sta dicendo esattamente questo. Sebbene in alcuni passi il dolore originato dalla vergogna sembrerebbe legato alla situazione di svantaggio e perdita di potere venutasi a creare a causa della nostra incapacità di esercitare il potere di auto-

223 «Of course, one can be ashamed of being greedy, cowardly, rude, ugly, and so on. But these

specific value judgments cannot play the role of the self-assessment that is involved in the very content shame, according to my account. These judgments stand outside the content of the shame that may be associated with them; and so shame can also occur without them.», cfr., Ivi., p. 41-42.

224 In Kant, come abbiamo visto, il requisito fondamentale di ogni essere razionale è il rispetto di

sé, in Velleman ciò che contraddistingue la persona è la capacità di auto-presentarsi.

225 Cfr., Ivi, p. 47. 226 Cfr., Ivi, p. 39.

definirsi227, in altri Velleman pare esprimere l’idea che esso dipenda non dalla conseguenza di tale fallimento, ma dal fallimento stesso228. Qual è esattamente il focus dell’emozione? Cos’è che genera effettivamente sofferenza nel soggetto? Il timore è legato al mancato riconoscimento degli altri o all’incapacità dell’agente di preservare il potere di auto-definirsi? Si potrebbe pensare che entrambe le risposte siano corrette, poiché per l’autore ciò che genera l’esposizione è proprio l’essere risultati incapaci di mostrarsi in un determinato modo permettendoci di conservare il nostro status di agente sociale229. Tuttavia, per Velleman è il

fallimento ad essere cruciale, non l’esposizione230: non soltanto infatti è possibile provare vergogna senza di essa, ma anche quando è presente, questa acquista rilevanza solo nella misura in cui compromette la capacità del soggetto di auto- presentarsi231.

Quello che sta sostenendo Velleman quindi è che è vero che la vergogna dipende dalla paura dell’esclusione sociale, ma il verdetto che sancisce l’emarginazione non dipende dagli altri, bensì dall’esercizio di una capacità del soggetto stesso. Questo ci viene confermato dal fatto che per l’autore lo status di agente sociale non è qualcosa meramente conferitaci dagli altri, ma più in generale una condizione ricercata dall’individuo anche in assenza di spettatori: «Even Robinson Crusoe […] lived in accordance with a persona that he composed, even though there was no audience for whom he composed it.»232. L’abilità di scegliere

227 «Failures of privacy put you at a disadvantage by threatening the power inherent in your role

as a participating member of the community, and the resulting anxiety constitutes the emotion of shame» cfr., Ivi, p. 38.

228 «The occasion for shame is a failure to compose oneself in the manner distinctive of persons,

and this failure comes to be felt as a loss of composure.», cfr.,Ivi, p. 40 (nota 17).

229 «Because of your interest in being recognized as a social agent, failures of privacy can set off a

sense of escalating exposure. When something private about you is showing, you have somehow failed to manage your public image, and so an inadequacy in your capacity for self-presentation is showing as well, potentially undermining your standing as a social agent», cfr., ivi, p. 38.

230 Qui con «esposizione» non mi sto riferendo allo stato di vulnerabilità di cui parla la

fenomenologia e che nell’analisi di Velleman coincide piuttosto col fallimento del potere di auto- definirsi, ma mi riferisco all’atto di mostrare (esporre appunto) aspetti privati del soggetto che potrebbero suscitare disapprovazione nello spettatore. È importante scindere questo tipo di esposizione, che per Velleman non per forza causa vergogna, con lo stato di vulnerabilità e perdita di potere che caratterizza l’emozione. «One’s standing as a self-presenting agent can be threatened without the exposure of anythings pecific, or of anything that one had specifically hoped to keep private», cfr., Ivi, p. 44.

231 «But if their exposure did not somehow compromise our efforts at self-presentation, they

wouldn’t cause us shame», cfr., Ivi, p. 42.

in opposizione alle proprie inclinazioni e resistere ai propri desideri non è solo una capacità che ci permette di decidere la nostra auto-presentazione e permettere agli altri di riconoscerci come agenti con cui è possibile interagire, ma più in generale è una funzione «inherent in the structure of the individual will»233. Dicendoci che un agente sociale deve «displaying, if only to him-self, behavior that was predictable and intelligible as manifesting a stable and coherent set of motives»234, Velleman sta togliendo il potere di inclusione / esclusione sociale

dalle mani degli altri e trasferendolo in quelle del soggetto. La perdita dello status sociale non si manifesta come un’espropriazione da parte della comunità, quanto piuttosto come un’ammissione da parte dell’agente di non essere, in quanto responsabile di non aver esercitato il potere di auto-presentazione, una persona che merita tale riconoscimento. È vero infatti che fallire nella capacità di auto- definirci causerebbe inevitabilmente un mancato riconoscimento da parte degli altri come agenti sociali, generando così vergogna, ma il giudizio biasimevole dell’altro non sarebbe in grado di suscitare l’emozione se questa nostra facoltà non venisse da noi compromessa. Il motivo per cui ci vergogniamo quando esponiamo alcune cose che sarebbero dovute rimane private, non dipende infatti dalla loro scabrosità o dal fatto che vengono accolte con disapprovazione dallo spettatore; la ragione per cui ci vergogniamo consiste piuttosto nella causa di tale esposizione, ovvero nell’esser stati incapaci di esercitare il potere di auto-definirci e presentarci in un modo che non avremmo voluto235. Se dunque vengo sorpreso dai miei genitori a fare l’amore con la mia fidanzata, la vergogna non sorge perché tale atto è riprovevole o perché essi non immaginavano che io potessi avere rapporti sessuali con la mia partner, ma dal fatto che esponendo qualcosa che sarebbe dovuto rimanere privato mi rivelo incapace di avere quelle caratteristiche che ogni agente sociale dovrebbe possedere. A precisare che è questo tipo di fallimento ad essere cruciale per la vergogna ce lo conferma Velleman stesso quando scrive che se esponiamo qualcosa che viene giudicato negativamente dagli

233 Ibidem.

234 Cfr., Ivi, pp. 35-36.

235 «What my explanation implies is that the impulse to cover one’s nakedness out of shame is

not, in the first instance, the impulse to hide something whose exposure might occasion disapproval. It’s rather the impulse to guard one’s capacity for self-presentation and, with it, one’s standing as a social agent.», cfr., Ivi, p. 40.

altri, ma tale esposizione non compromette la nostra capacità di autodefinirci (ad esempio mostrandolo con atteggiamento di sfida, oppure ammettendo qualcosa di riprovevole con umiltà e mortificazione), la vergogna non potrà mai sorgere. Così come non dovrebbe nascere nel caso il potere di auto-presentarci non dipende da un nostro fallimento ma da una violazione da parte di terzi.

Questo rovesciamento di vedute è a mio avviso molto simile a quello operato da DRT: così come per gli autori di In Defense of Shame la vergogna per essere stati sorpresi nudi dipende sì dal giudizio dello spettatore, ma solo perché l’esposizione coincide col fallimento nell’esemplificazione di un valore per noi importante (privacy), per Velleman è vero che la vergogna dipende dall’aver esposto qualcosa che siamo stati incapaci di mantenere privato esponendoci al giudizio altrui, ma questo è in grado di far sorgere l’emozione solo se c’è stata un fallimento da parte nostra nell’esercitare la capacità di auto-presentarci.

La mia impressione è che le tesi degli autori di In Defense of Shame e The

Genesis of Shame, per quanto diverse tra loro236, si fondano su una strategia problematica.

Sia Velleman che DRT infatti, nel tentativo di tenere conto dell’aspetto sociale e salvare quello personale, finiscono allo stesso modo per svalutare il ruolo dell’altro. Per non concedere che sia effettivamente il giudizio dello spettatore a causare l’emozione, essi cercando di ricondurre il dolore a qualcosa che in qualche modo dipende direttamente dal soggetto: nel caso di DRT, alla capacità di esemplificare un proprio valore, nel caso di Velleman alla capacità di auto presentarsi come si vorrebbe per mantenere il proprio status di agente sociale. In entrambi la paura della vergogna non riguarda cosa pensano gli altri, ma al fallimento di un valore (nel caso di DRT) o di una capacità (Velleman) che presuppone l’interesse per l’opinione dello spettatore. Ma così come è artificioso dire che il motivo per cui mi vergogno non è l’opinione altrui ma perché sono stato incapace di esemplificare il valore della reputazione, lo è altrettanto cercare di scindere il bisogno di ottenere un riconoscimento dagli altri dal potere di

236 In In Defense of Shame DRT infatti muovono una critica alla teoria di Velleman attaccando la

fragilità della nozione di self-presentation. V. J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of

mostrarsi come agenti sociali. Chiediamoci: A cosa è rivolta l’attenzione dell’agente che si vergogna?

Velleman dice di essere molto vicino alla posizione di Sartre: nonostante sostenga di non concordare con il filosofo francese nel ritenere l’autovalutazione insita nella vergogna un giudizio negativo riguardo delle attribuzioni particolari237, egli trova veritiera l’idea che l’autovalutazione della vergogna «is an assessment of the self as less than a freely self-defining person»238. Quando ci

vergogniamo dunque non lo facciamo perché troviamo vergognosa una nostra azione o una nostra caratteristica, ma perché tale azione o caratteristica minano il potere «to compose oneself in the manner distinctive of persons»239. Velleman, come DRT, sposta il focus dell’emozione: nonostante venga riconosciuto che la privacy consista nel tenere nascoste delle cose per evitare di essere vulnerabili, la vulnerabilità comporta realmente vergogna (e quindi esclusione) solo se il giudizio degli altri mette in luce il fallimento del soggetto nell’esercitare il potere di auto-definirsi. Poiché allora l’ultima parola spetta all’agente, vero responsabile della perdita e mantenimento della sua posizione sociale, la sua paura dovrebbe riguardare in primis la capacità di auto-presentarsi240. Tuttavia, se guardiamo alla fenomenologia non sembra essere questa la vera preoccupazione dell’individuo che prova vergogna. La nostra paura non è quella che qualcuno possa escluderci perché “incapaci di essere agenti sociali”, quanto piuttosto quello di ricevere giudizi particolari che comportano una nostra esclusione (“sei brutto, sei povero, non sei intelligente etc.)241. Nel momento in cui Milena viene ridicolizzata per il suo accento, il focus non è sull’aver fallito l’esemplificazione di un valore o sulla sua capacità di presentarsi come avrebbe voluto, quanto piuttosto nel sentirsi esposta e oggettivata dai compagni. Se dovessimo dare ragione a Velleman

237 Lettura che, come dirò in seguito, non condivido.

238 Cfr., J. D. Velleman, The Genesis of Shame, cit., p. 41 (nota 19) 239 Cfr., ivi., p. 40, nota 17.

240 Anche perché, come visto col caso di Robinson Crusoe, prescinde dalla presenza di spettatori

reali.

241 Velleman scrive che il motivo per cui l’orgoglio può proteggerci dal disprezzo di sé ma non

dalla vergogna, è perché quest’ultima non riguarda la semplice disapprovazione ma la squalificazione sociale: «[is] an anxiety that cannot be allayed by a sense of a personal excellence..». Io sono perfettamente d’accordo nel ritenere che l’essenza della vergogna sia la paura di essere esclusi, ma non vedo come questo timore non possa essere causata in primis dal rifiuto dello spettatore per un tratto particolare (aspetto, condizione sociale, personalità etc) o un’azione compiuta. Cfr., Ivi, p. 46.

quando scrive che «Proper occasions for shame are your own failures to manage your privacy, as symbolized in childhood culture by open flies and showing slips.»242 e quindi pensare che la preoccupazione del bambino in primo luogo consiste nell’aver fallito nel proteggere la sua privacy e non sul fatto che tale fallimento lo renda vulnerabile agli occhi dei compagni, non saremmo in grado di distinguere tale emozione dalla delusione di sé. Come spiegato in precedenza infatti un buon modo per differenziare le due emozioni è prestare attenzione alla preoccupazione del soggetto: nell’una essa si rivolge all’incapacità (vuoi che essa sia di aver fallito nell’esemplificare un valore o vuoi che essa consista nel non esser riuscito ad auto-presentarsi), l’altra consiste invece in una forma di paura nel vedere il bisogno di appartenenza minacciato.

I miei dubbi riguardo la tesi di Velleman vanno comunque oltre l’aspetto fenomenologico. Il tentativo di ricondurre l’origine della vergogna ad un fallimento da parte del soggetto risulta problematico anche per altri versi.

Un aspetto della teoria che mi lascia a dir poco perplesso è la distinzione tra fallimento e violazione. L’autore ci spiega che è vero che nelle situazioni in cui qualcuno viola la nostra privacy, ad esempio irrompendo nella stanza mentre noi siamo nudi, veniamo privati della libertà di presentarci come vorremmo, ma poiché il fallimento nell’esercitare tale capacità non dipende dal soggetto, questi episodi non generano vergogna.243

Ma questo non è chiaramente vero. Molte volte la vergogna nasce proprio nel momento in cui veniamo sorpresi a fare qualcosa che avremmo voluto rimanesse una questione privata. La cosa interessante è che Velleman è consapevole di ciò e non ha intenzione di negare questo punto, ma scrive: «If you learn that someone has been peeping through your bedroom keyhole, you don’t feel ashamed at the thought of what he might have seen; or, at least, you shouldn’t

feel ashamed: you should feel angry and defiant».244 Di punto in bianco l’analisi

descrittiva viene soppiantata da una considerazione normativa: è vero che potresti provare vergogna, ma non dovresti; è chi spia dalla serratura che dovrebbe sentire

242 Cfr., Ivi, p. 38.

243 «I say “failures of privacy,” not “violations.” When people forcibly violate your privacy, no

doubt is cast on your capacity for self-presentation. But then, violations of privacy do not properly occasion shame», cfr., Ivi, p. 38.

l’emozione, non chi ha cercato di preservare la proprio privacy chiudendo la porta. Poiché quindi non c’è stato un fallimento da parte nostra nella capacità di auto-presentarci non abbiamo motivo di vergognarci. Dovrebbe provare vergogna chi violando la mia privacy ha compromesso il suo potere di auto-definirsi non dimostrandosi «a competent self-presenter eligible to participate in conversation, cooperation, and other forms of interaction»245.

Questo a mio parere246 è un grave errore: una teoria della vergogna

dovrebbe cercare di spiegare tutti i casi in cui il soggetto è indotto a provarla. Velleman invece, nonostante riconosca che in queste situazioni l’emozione possa generarsi, non cerca di indagarne i motivi, ma evade il problema spostando l’attenzione sull’appropriatezza.

Un altro punto non esente da problemi è il motivo per cui, per Velleman, noi non proviamo vergogna nel caso di violazioni volontarie della privacy. La sua tesi è che poiché l’esposizione degli aspetti privati è un atto deliberato, non proviamo vergogna perché non c’è fallimento nell’autopresentazione; essa sorgerebbe «only when it entails some unintentional self-exposure as well»247. Ma perché fornire una soluzione così controintuitiva quando ne abbiamo a disposizione una più semplice? Le donne che espongono il proprio corpo sulle riviste come Playboy violano volontariamente la propria privacy perché sanno ciò viene accolto positivamente da coloro che comprano il periodico. Un’esposizione non voluta non genera vergogna perché viola la capacità di auto-presentazione, ma perché ci rende vulnerabili ad un possibile giudizio negativo. Velleman, come detto, ammette tale paura, ma riconduce l’emozione della vergogna non a questa vulnerabilità, ma alla condizione che l’ha resa possibile, ovvero ad un fallimento da parte del soggetto della capacità di auto-definirsi. Questo passaggio tuttavia non è a mio parere necessario. Non si tratta di un fallimento nell’abilità di scegliere cosa mostrare o cosa no, ma del perché scegliamo di tenere private alcune cose ed esporne altre.

245 Ibidem.

246 La confusione è abbastanza evidente ma, degli autori da me studiati, solo Thomason ha fatto

caso a questo passo: «I think Velleman is conflating the fittingness of shame with its