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Vergogna e Innocenza

2 Ripensare la Vergogna

2.4 Vergogna e Innocenza

Un punto su cui dovremmo fare attenzione è quello per cui la vergogna, a differenza della delusione di sé e della colpa173, non richiede necessariamente la responsabilità per il fallimento. Questo costituisce un altro dei grandi problemi che la prospettiva tradizionale della vergogna non pare essere in grado di fronteggiare: se l’emozione ha a che fare fondamentalmente con la nostra incapacità, perché dovremmo vergognarci, e quindi valutarci negativamente, se la mancata esemplificazione di un nostro valore è dipesa da fattori fuori dal nostro controllo?

Se ad esempio un nostro genitore apre la porta della nostra camera e ci scopre in un momento di privacy con il nostro partner, perché proviamo vergogna se non abbiamo alcuna responsabilità riguardo il tradimento del valore in questione?

Il problema, a mio avviso, è che si è sempre pensato alla vergogna nel tentativo di confermare il suo ruolo positivo dal punto di vista morale, e così facendo la maggior parte degli esempi proposti da chi ha affrontato l’emozione,

173 È doveroso a questo proposito aprire una piccola parentesi e precisare che quando si parla di

responsabilità non si intende necessariamente intenzionalità. Come ci ha spiegato Bernard Willams nel saggio Moral Luck, non è assolutamente vero che gli agenti morali siano valutabili solo ed esclusivamente rispetto alle loro intenzioni. Ciò che il filosofo britannico volle mettere in luce è che ci sono delle azioni che hanno a che fare con la sorte e che queste finiscono per avere un peso nella valutazione morale di chi siamo, cosa facciamo e perché. L’esempio che presenta Williams è quello di un camionista che inavvertitamente investe un bambino che attraversava la strada. Questa azione non è intenzionale; non avrebbe mai voluto investirlo. C’era ignoranza delle circostanze particolari. Se avessimo effettivamente una morale dell’intenzionalità ci verrebbe da pensare che il camionista, poiché l’azione non è stata intenzionale, debba provare dispiacere ma non senso di colpa, esattamente come farebbe uno spettatore esterno. Ma, Williams nota, nella maggior parte dei casi il camionista non solo prova il dispiacere dello spettatore imparziale, ma quello che lui chiama Agent Regret, una sorta di rimpianto molto vicino al senso di colpa. Inoltre, se l’atteggiamento del camionista fosse diverso, quasi di disinteresse perché consapevole di non avere alcuna responsabilità, qualunque spettatore esterno troverebbe la sua reazione mostruosa e disumana. Come già ci aveva fatto notare Aristotele nell’Etica Nicomachea con l’esempio del comandante della nave, che costretto dalle circostanze, salva la sua vita e quella degli altri marinai gettando il tesoro in mare, Williams ci rammenta che anche le azioni non volontarie e quelle miste rivelano il carattere che abbiamo, le nostre gerarchie di valori e ciò a cui diamo priorità. V. B. Williams, Moral Luck, Cambridge University Press, Cambridge, (Massachusetts), 1981, trad. it di R. Rini, La Sorte morale, Il Saggiatore, Milano, 1987.

sono spesso moralizzati: l’agente si vergogna per aver commesso un errore, per aver violato una norma, per aver disubbidito ad una regola, per essere andato contro quello in cui crede etc. Così facendo, ovvero associando la vergogna ad un fallimento del soggetto per non essere stato in grado di soddisfare qualcosa per lui importante, la teoria tradizionale ha finito per studiare l’emozione assumendo implicitamente il modello della colpa. La conseguenza di ciò è, appunto, l’impossibilità di fornire una spiegazione plausibile per tutti quegli episodi in cui la vergogna non è attribuibile ad uno sbaglio o incapacità dell’individuo.

Chi sostiene il modello basato sulla mancata esemplificazione dei valori di solito mette in pratica diverse strategie per ovviare questo problema, ma nessuna di esse sembra funzionare: Rawls ad esempio taglia fuori questi casi catalogandoli come natural shame174, e quindi non utili alla discussione sul ruolo morale dell’emozione; altri propongono di classificare questi episodi come situazioni di imbarazzo, perdendo di vista il fatto che due persone nella stessa circostanza potrebbero rispondere emotivamente in maniera differente; altri ancora parlano di questi casi etichettandoli come irrazionali. La posizione di DRT in In Defense of

Shame risulta invece da questo punto di vista ambigua. Gli autori parlano di tre

tipi di irrazionalità175 riguardo a situazioni di vergogna, e per ognuna forniscono degli esempi. Il primo raffigura Sam, una persona per cui è importante il valore della generosità, che si vergogna per non aver fatto il regalo al figlio della sua domestica: la vergogna è irrazionale perché Sam non pensa di esser venuto meno al suo ideale e trova l’emozione ingiustificata; il secondo episodio presenta Mary, una ragazza non molto dotata per il pianoforte, che prova vergogna nel non riuscire ad appagare gli standard dei genitori musicisti: la vergogna qui è irrazionale perché il valore che vuole esemplificare va oltre le sue possibilità e le

174 V. John Rawls, A Theory of Justice, cit. p. 390. Per una critica alla distinzione tra natural shame

e moral shame, considerata ad hoc, si veda Krista K. Thomason, Naked: The Dark Side of Shame

and Moral Life, Oxford University Press, Oxford, 2018, p. 28.

175 Our account of shame in terms of a feeling of incapacity to live up to our self-relevant values

to even a minimal degree suggests that shame can go wrong in at least three different ways. First, one’s shame can be said to be inappropriate because the relevant situation does not qualify as one in which the subject’s shortcoming manifests any sort of incapacity. Second, it might be inappropriate because, although the situation indeed indicates some incapacity, the relevant threshold has not been properly set. Third, the fact that some values of ours are attached to inalterable traits leaves room for another kind of inappropriateness related to shame.», cfr., J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame, cit., p. 109.

sue aspettative sono insensate; il terzo caso riguarda invece quegli episodi che non sono direttamente irrazionali, ma solo indirettamente, in quanto presuppongo l’attaccamento ad un valore che è impossibile da personificare: rientrano in questo gruppo i casi di vergogna per qualcosa che non possiamo modificare (ad esempio tratti fisici, intelligenza etc). Ciò che mi stupisce non è tanto che l’esempio di Sam, non rientrando nella definizione proposta, venga declassato a irrazionale, quanto il fatto che se consideriamo non razionali gli ultimi due casi, in cui il soggetto non può nulla per esemplificare il valore a cui è attaccato, dovremmo considerare appartenenti a questa categoria anche i casi di Milena e Huck che DRT presentano invece come razionali. Riguardo la vergogna di Huck gli autori ci avevano detto che dipendeva dal fallimento del valore della riservatezza: ma dal momento in cui non era in potere del ragazzo sapere della presenza della famiglia che faceva il picnic, come può questo episodio essere considerato razionale? Il caso di Milena presenta lo stesso problema: non dovrebbe rientrare nel terzo gruppo? Lei si vergogna per il suo accento e per il suo aspetto, ma questi non sono tratti attribuibili alla sua responsabilità né caratteristiche modificabili.

Inoltre, se teniamo conto del tentativo di riabilitare la vergogna da un punto di vista morale, la loro spiegazione ha un problema addirittura più grosso.

Ripensiamo all’esempio che vede Huck come protagonista: gli autori ci dicono che il ragazzo prova vergogna perché l’esser stato sorpreso in quella circostanza comporta un fallimento del valore della riservatezza. Un’affermazione di questo tipo tuttavia, come scrive Thomason, lungi dal corroborare la loro tesi le rema addirittura contro:

«Since Huck’s failure to be modest is not a failure of his own making, the traditional view is forced into a dilemma. If advocates of this view claim that Huck’s shame is rational since he failed to protect his privacy, they have to give up on the claim that his shame is constructive, since the failure was not of his own making. There is no way Huck could have lived up to the ideal of modesty, since he had no way to know that the family was in his secluded spot. As such, the shame he feels cannot be a response to something he has done wrong, and it cannot inspire him to improve himself. If, on the other hands, advocates of this view want to claim that Huck’s shame is irrational because his failure was not of his own making, then they are still left with the problem of explaining shame about

sex or nudity. The appeal to modesty or privacy thus does not solve the problem it was meant to solve.»176

Se quindi sosteniamo che la vergogna può insorgere a causa di un fallimento che non necessariamente dipende da un nostro errore, non si capisce per quale motivo quest’emozione dovrebbe giocare un ruolo positivo all’interno delle nostre vite. D’altra parte, se tacciamo questi episodi come casi irrazionali, siamo costretti a classificare come tali la maggior parte delle situazioni in cui ci capita di provare l’emozione. Potremmo chiaramente dire che il sesso, la nudità, i bisogni fisiologici fanno parte della nostra natura e, per questo, non dovrebbero essere occasioni appropriate di vergogna; ma in che modo ciò ci aiuta a comprendere le ragioni del perché, in circostanze di questo tipo, rispondiamo con questa particolare reazione emotiva?

Se la teoria tradizionale è costretta a catalogare molti degli episodi più comuni di vergogna come irrazionali, è più probabile che sia la definizione su cui fa affidamento che necessita di essere rivalutata.

La teoria dell’informazione della minaccia, o più in generale qualsiasi teoria che veda la vergogna come l’emozione connessa alla nostra immagine sociale, non avrebbe invece questo problema e riuscirebbe facilmente a dar conto di questi episodi.

Studi empirici hanno dimostrato che per elicitare la vergogna è sufficiente percepire di essere svalutati, indipendentemente dal fatto che il soggetto abbia effettivamente commesso qualcosa di sbagliato o scabroso:

«the true trigger of shame is negative perceptions of the self by others—not by the self.[…] Notably, even when a person knows that others' devaluing beliefs are false, such beliefs still trigger shame. […] On this view, the innocent can feel shame if they simply know or suspect that others view them negatively. This is because it is primarily others' beliefs—and not the facts of the matter—that determine a person's reputation and value to others.»177.

176 Cfr. Krista K. Thomason, Naked, cit. p. 35.

177 Cfr., Theresa E. Robertson, Daniel Sznycer, Andrew W. Delton, John Tooby, Leda Cosmides, The true trigger of shame, cit., p. 567 e p. 571.

Questo conferma che ad essere centrale nella vergogna non è il fallimento nell’esemplificazione di un proprio valore, ma cosa gli altri pensino sul nostro conto, anche se a produrla è qualcosa su cui noi non abbiamo, né abbiamo avuto, alcun potere decisionale.178

Tuttavia, non dobbiamo fare l’errore di credere che il giudizio degli altri sia sufficiente a produrre l’emozione. Sappiamo infatti che la valutazione negativa non sempre genera vergogna, ma può talvolta generare ira, indignazione, umiliazione etc. Come ci ricorda Sanchez, ma anche DRT179, pensare che la

critica dello spettatore sia in grado sempre di farci vergognare significherebbe erroneamente appiattire l’emozione al concetto di disonore. Qual è allora il motivo per cui tendiamo a vergognarci piuttosto che provare altre reazioni emotive?

178 Questa d’altronde è una lezione Aristotelica. Thomason sostiene che la teoria di Aristotele è

probabilmente «the most widely referenced and those most closely aligned with the commitments of the traditional view.», cfr., Krista K. Thomason, Naked, p. 16. Il mio disaccordo con questa affermazione non potrebbe essere più grande. È vero che Aristotele sostiene che la vergogna può nascere per qualcosa che il soggetto trova effettivamente vergognoso (ad esempio fuggire in battaglia o gettare via lo scudo, Rhet II 6, 1383b 18a), ma intelligentemente ci fa notare che è possibile vergognarsi anche per qualcosa per cui non siamo responsabili e, cosa più importante, per qualcosa che non riteniamo vergognoso in sé, ma che sappiamo esserlo per le persone di cui ci importa essere stimati. Allora, in ottica Aristotelica è del tutto possibile vergognarsi in pubblico per qualcosa che in privato non troviamo vergognoso, perché ciò che risulta essere centrale è la nostra identità sociale. A riprova di ciò si pensi a ciò che Aristotele dice a proposito degli sconosciuti: in Rhet. II 6, 1384b 24-26 spiega come mentre davanti ai conoscenti si prova vergogna per cose realmente vergognose (e che quindi, presumibilmente, il soggetto reputi anch’esso come tali) davanti agli estranei ci si vergogna degli atti che sono vergognosi secondo la convenzione sociale (e quindi, non necessariamente vergognose in sé). Lungi dal dire che la vergogna dipende esclusivamente dal fallimento del soggetto, Aristotele ci fa capire quanto questa emozione si estenda oltre il perimetro della colpa e si configuri, per dirla con parole di Fussi, come «un moto di protezione dell’identità sociale anche quando non siamo noi ad agire». Cfr., Alessandra Fussi, Per una teoria della vergogna, cit., p. 14. All’origine della discutibile lettura che Thomason fa di Aristotetele vi è probabilmente l’utilizzo di un testo della Retorica che traduce in maniera erronea il passo Rhet. II.6, 1383b13-16. Thomason infatti utilizza quella di G. Kennedy, e scrive: «Aristotle says we feel shame about things that are our “own fault”», (cfr., Krista K. Thomason, Naked, p.16). Ma Aristotele non parla di azioni colpevoli o di sbagli da parte del soggetto, quanto invece di mali [κακά] presenti, passati o futuri connessi alla nostra reputazione e che, come spiegherà qualche riga dopo, non si riferiscono solo a dei fallimenti del soggetto, ma anche a quelli che possono capitare per cattiva sorte o quelli che subiamo a causa del comportamento altrui.

179 «...the main difference between shame and bearing a stigma is that while the former is an

emotion, the latter is not, not even in the dispositional sense. That the two get confused, however, is unsurprising, for, as we shall see, bearing a stigma is tightly connected to shame. Th e two are distinct, however. Shame is an emotion and bearing a stigma is causally related to shame or, as we shall also say, is a recurring occasion for shame.», cfr. J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame, cit., p. 230.

Nella letteratura troviamo solitamente due risposte: c’è chi sostiene che la vergogna richieda l’accettazione della valutazione rivoltaci, e c’è chi difende l’idea che l’emozione necessiti perlomeno di un accordo con il valore ad essa sottostante180. Spiegazioni simili però non sembrano poter abbracciare tutti i casi possibili.

Le situazioni in cui ci vergogniamo in pubblico per qualcosa che in privato non consideriamo un problema non sono infatti riconducibili esclusivamente agli episodi in cui il fallimento del valore non è attribuibile alla nostra responsabilità; esistono casi di vergogna in cui l’emozione sorge nonostante non pensiamo di aver fallito l’esemplificazione di alcun valore a cui siamo attaccati. Si pensi ad esempio ai casi di discriminazione: se non penso ci sia nulla di sbagliato nella mia etnia, perché mi vergogno se subisco un insulto razzista?

Sicuramente in questo caso non condivido il giudizio rivoltomi, né si può dire che abbracci il valore che lo veicola. Per evitare la minaccia dell’eteronomia (tesi (2)) DRT direbbero che il fallimento in questo caso riguarda il valore della reputazione, che si è rivelato essere il più importante per il soggetto. Sappiamo però che non possiamo accettare questo tipo di risposta. Più argutamente, Fitzgerald ci aveva fatto notare che in molti casi avviene una contaminazione di valori e colui che prova vergogna tende ad acquisire momentaneamente principi che non gli appartengono.

Nonostante ci aiuti a comprendere alcune situazioni, questa soluzione si scontra con delle difficoltà quando deve confrontarsi con episodi simili a quello sopracitato. Dobbiamo davvero pensare che il ragazzo di colore abbia in qualche modo concordato, anche solo provvisoriamente, con il valore dell’assalitore?

Nella prossima sezione mostrerò che se teniamo a mente che l’accettazione di un valore non presuppone necessariamente una sua condivisione, è possibile affrontare la questione in maniera diversa.

180 “We need, however, to distinguish more carefully between the other’s evaluation and the