2 Ripensare la Vergogna
2.6 Vergogna e autovalutazione negativa
Nonostante Zahavi riconosca che tra accettare il valore dell’altro e condividerlo vi sia uno scarto,190 egli sostiene tuttavia che se la vergogna è sorta, significa che in qualche modo abbiamo dubitato della nostra condotta e ci siamo autovalutati negativamente. Egli scrive infatti che l’esempio di Castelfranchi e Poggi non dovrebbe essere considerato un caso di vergogna, ma di imbarazzo, poiché «I think shame, in contrast to embarrassment, involves a sense of a flawed self and is linked to a global decrease of self-esteem, and I do not think the situation in question—in which one does not share the other’s evaluation and knows it to be false—would occasion such a decrease»191.
Io credo ci siano almeno due ragioni per rifiutare una spiegazione di questo tipo. La prima è che non possiamo distinguere la vergogna dall’imbarazzo affermando che l’una, diversamente dall’altro, prevede una condivisione, anche se minima e soltanto a livello di valori, con il punto di vista dell’osservatore: se così fosse dovremmo o catalogare come casi di imbarazzo tutti gli episodi di razzismo e discriminazione sociale, e ciò è chiaramente impensabile, o ancora peggio, se affermiamo che l’emozione in questi episodi sia effettivamente vergogna, siamo costretti ad attribuire parte della responsabilità a coloro che subiscono l’ingiustizia.192
190 «In short, the real point of disagreement is not over whether others might impose certain
external standards on the subject—this is hardly disputed by anyone—but whether the subject needs to endorse the evaluation in order to feel shame.», cfr., Dan Zahavi, Self and Other, cit., p. 225.
191 Cfr., Ivi., p. 226. La stessa affermazione la troviamo anche in Dan Zahavi, Shame and the exposed self, in Jonathan Webber (Ed.), Reading Sartre: On Phenomenology and Existentialism,
Routledge, New York, 2010, pp. 211-227. p.218. Si potrebbe obiettare che in realtà qui Zahavi non si stia riferendo propriamente ad un’autovalutazione negativa ed ad un abbassamento dell’autostima, ma più in generale alla constatazione di essere stati svalutati. Tuttavia, l’autore è molto chiaro: «I think an initially more plausible criterion for demarcation is one that links shame, but not embarrassment, to a global decrease of self-esteem or self-respect and a painful awareness of personal flaws and deficiencies.», (cfr., Dan Zahavi, Self and Other, cit., p. 210) e quando più avanti differenzia la propria definizione di vergogna da quella di DRT e Taylor (spiegandoci come la semplice valutazione intrapersonale non catturi l’essenza dell’emozione), mantiene comunque l’autovalutazione come elemento fondamentale: «I find it more plausible to claim that shame, rather than simply involving a global decrease of self-esteem and self- confidence, is also essentially characterized by the way it affects and alters our relationship to and connectedness with others in general.», cfr., Ivi, p. 223, corsivo mio.
La seconda ragione riguarda invece le caratteristiche che Zahavi ascrive all’emozione: come spiegato, io non credo che accettare il punto di vista altrui comporti una condivisione193, né come spiegherò tra poco ritengo che la vergogna implichi necessariamente un’autovalutazione negativa e una riduzione globale dell’autostima.
Spiegherò qui brevemente cosa distingue a mio parere le due emozioni e dopodiché mostrerò come sia possibile parlare di vergogna anche senza le condizioni presentate da Zahavi.
È vero che l’imbarazzo è un’emozione meno intensa e meno dolorosa della vergogna194 , così come è vero che risulta essere più transitoria e momentanea in quanto legata all’aspetto contingente della situazione; tuttavia, contrariamente a quanto spesso si dice195, non credo che l’imbarazzo si distingua dalla vergogna
193 Mentre leggevo la spiegazione di Zahavi mi è venuto in mente un passo molto interessante di
Goffman, che per certi versi costituisce una risposta alla tesi di Zahavi, per cui per provare vergogna devi perlomeno avere il dubbio su quanto ti viene rimproverato (v. Dan Zahavi, Self and
Other, pp. 226-227): «Sapendo che il suo pubblico è capace di formarsi cattive impressioni di lui,
l'individuo può vergognarsi di un atto onesto e benintenzionato solo perché il contesto della sua rappresentazione offre delle impressioni false e negative. Provando questa vergogna ingiustificata, può pensare che i suoi sentimenti siano visibili; ritenendo di essersi scoperto, pensa che la sua apparenza confermi le conclusioni errate nei propri confronti. L'individuo può rendere la situazione ancor più precaria effettuando quelle manovre difensive che adopererebbe se fosse veramente colpevole. In tal modo è possibile per tutti noi diventare temporaneamente ai nostri occhi esattamente come pensiamo che gli altri possano immaginarci nella peggiore delle ipotesi. E nella misura in cui l'individuo rappresenta davanti ad altri uno spettacolo al quale egli non crede, finisce con il provare uno speciale tipo di alienazione nei propri confronti e uno speciale tipo di sospetto verso gli altri.», cfr., Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 269.
194 Per un’analisi generale dell’imbarazzo si veda Rowland S. Miller, Is Embarrassment a Blessing or a Curse?, in J. L. Tracy, R. W. Robins, & J. P. Tangney (Eds.), The self-conscious emotions: Theory and research, Guilford Press, New York, 2007, pp. 245-263. In particolare, sulla probabile
funzione evolutiva si dice: «Thus, as a social emotion rooted in our concern over what others are thinking of us, embarrassment provides us with a useful mechanism with which to overcome the inevitable small miscues of social life. It presumably evolved because it forestalls punishment or rejection that would otherwise occur (Semin & Papadopoulou, 1990). Early hominids who developed such a mechanism probably lived with others (and reproduced) more successfully than did those who were heedless of their fellows’ evaluations of them (Leary, 2004a; Turner, 1996). Justifiable embarrassment that is proportional to a predicament mollifies and reassures one’s critics, motivates remedial action, and generally resolves social perils, and we would likely be much worse off without it.», cfr., ivi., p. 252.
195 Su questo e sul fatto che l’imbarazzo corrisponderebbe ad un’emozione meno forte e duratura
e comporta necessariamente la presenza di uno spettatore reale, si veda ad esempio lo studio R. S. Miller, J. P. Tangney, Differentiating Embarrassment and Shame, Journal of Social and Clinical Psychology, Vol. 3, No. 3, 1994, pp. 273-287. Sulla differenza si veda anche J. P. Tangney, D. Mashek, Jeff Stuewig, Shame, Guilt, and Embarassment: Will the Real Emotion Please Stand up?, Psychological Inquiry, Vol. 16, No. 1, 2005, pp. 44-48.
perché si verifica in situazioni riguardanti trasgressioni sociali minori. La gravità di un fatto è infatti stabilita da come questo viene percepito e valutato: una persona che si accorge di avere un buco nella maglietta potrebbe non dare alcun peso alla cosa e provare al massimo imbarazzo nel rendersi conto di essere “socialmente fuori posto”, mentre qualcuno che dà molta importanza all’esteriorità e si mostra estremamente attento all’apparire, potrebbe vivere la situazione con profonda vergogna. Non è quindi tanto il tipo di violazione ad originare un’emozione piuttosto che un’altra, ma il modo e la severità con cui valutiamo l’accaduto.
Non per questo però dobbiamo considerare imbarazzo e vergogna una variazione della stessa emozione. 196
La mia idea è che nell’imbarazzo non soltanto noi percepiamo che la situazione non è particolarmente grave da minacciare la nostra identità sociale, ma crediamo anche che lo spettatore sia consapevole che ciò che è successo non sia abbastanza rilevante da apportare un giudizio negativo sulla nostra persona. Se inciampiamo su un gradino, diciamo una parola per un'altra durante una conferenza o ci accorgiamo in ufficio di aver indossato dei calzini diversi, sorgerà vergogna nel caso valutiamo l’azione maldestra, o la gaffe, come qualcosa che può essere percepita dagli altri come abbastanza grave da riconsiderare la nostra identità sociale; proveremo invece imbarazzo quando, pur riconoscendo di essere socialmente inadatti in quella data circostanza, crediamo non solo che il fatto
196 In un articolo di qualche anno fa Crozier ha sostenuto che le differenze catturate dal
linguaggio ordinario non siano in realtà supportate da alcuna prova empirica. Il problema più grande è che nonostante la letteratura presenti differenze e similarità tra le due emozioni, non è presente un consenso a proposito dei criteri da adottare per attuare una tale distinzione: «What proves difficult to achieve is the establishment of explicit differential criteria whenever comparative claims are made that one emotion is more serious than the other, impacts on more central aspects of the self, or breaches more fundamental norms or rules. Failure to reach agreement together with acknowledgement that other languages make different distinctions, as historically English seems to have done in the case of embarrassment, implies that an approach that starts from the assumption that there are two emotion states and it is a matter of pinning them down by identifying their correlates is unlikely to succeed. The study of emotion more generally provides few guidelines for deciding upon criteria to distinguish any pair of emotions. Insufficient attention has been paid to precisely what is entailed when the question of the relations between shame and embarrassment is raised, whether it is about emotions as “natural kinds” or about emotion concepts whether scientific or couched in ordinary language» Cfr., W. Ray Crozier, Differentiating Shame from Embarrassment, Emotion Review, Vol. 6, No. 3, July 2014, pp. 269-276, p. 275.
imbarazzante non sia poi così importante, ma riteniamo che anche per lo spettatore non sia sufficiente per rivalutare gli individui che siamo.
Chiaramente, poiché è la nostra valutazione ad essere cruciale197, possiamo provare vergogna anche se l’altro continua a ripeterci che ciò che è successo non è vergognoso (ad esempio lo stilista che si vergogna nel rendersi conto che il suo abito è macchiato, nonostante il totale disinteresse per la cosa da parte dei presenti), così come possiamo provare imbarazzo anche se lo spettatore in realtà giudica l’accaduto come vergognoso. Si pensi ad esempio a tutte quelle situazioni in cui è chi assiste all’atto imbarazzante a dire: “io al suo posto mi sarei scavato una fossa”, “non sarei più uscito di casa” e altre frasi di questo tipo.
L’inadeguatezza provata con l’imbarazzo è tale da farci sentire fuori posto, ma poiché crediamo sia percepita agli occhi dello spettatore come qualcosa non abbastanza severa da minare la nostra posizione sociale, è vissuta come rimediabile. Infatti, anche nel caso in cui pensiamo che lo spettatore possa essersi fatto un’idea sbagliata di noi stessi, sentiamo che è possibile sistemare la situazione dandogli una spiegazione.
In generale si può dire quindi che l’imbarazzo mette in luce un difetto o uno sbaglio che non compromette la nostra immagine sociale198.
Questo non solo spiegherebbe perché questa emozione è solitamente avvertita come meno dolorosa, persistente e distruttiva rispetto alla vergogna, ma potrebbe finalmente aiutarci a distinguerla da quelle situazioni in cui quest’ultima è avvertita meno intensamente e solo per una breve durata. In casi di questo tipo
197 Dal momento in cui è la nostra credenza ad essere fondamentale e non lo stato oggettivo delle
cose, possiamo imbarazzarci anche se l’altro in realtà non sa quello che stiamo provando, né sospetta ci sia qualcosa di socialmente fuori posto nella nostra presentabilità. Necessita di essere specificato inoltre che la nostra valutazione è influenzata chiaramente da che tipo di spettatore abbiamo davanti: accorgerci davanti a nostra madre di avere una pantalone strappato è diverso da rendersene conto in una riunione con il proprio datore di lavoro.
198 Escludendo il significato, a mio parere troppo forte, che Velleman da al concetto di
squalificazione sociale, trovo che in questo passo egli colga perfettamente la differenza tra le due emozioni: «This emotion differs from shame, first, because it involves self-consciousness rather than anxiety and, second, because it involves a sense of attracting unwelcome recognition rather than of losing social recognition altogether. Being ridiculed is an essentially social kind of treatment. Self-consciousness in the face of ridicule is therefore different from anxiety at the prospect of social disqualification. Whereas the subject of embarrassment feels that he has egg on his face, the subject of shame feels a loss of face-the difference being precisely that between presenting a target for ridicule and not presenting a target for social interaction at all.», cfr., J. D Velleman, The Genesis of Shame, , Philosophy & Public affairs, Vol. 30, No. 1, 2001, pp. 27-52, p. 49 (nota 27).
infatti abbiamo, anche solo per un attimo, la sensazione che la nostra azione sia suscettibile di mettere in pericolo la nostra identità sociale. Potrei vergognarmi all’idea che il buco sulla mia maglietta possa indurre chi mi vede a considerarmi un pezzente, ma smettere di provare l’emozione nel rendermi conto di non essere circondato da nessuno. Oppure potrei essere visto, provare vergogna per qualche secondo, ma poi debellarla al pensiero di essere stato notato esclusivamente da persone che non meritano la mia stima.
Inoltre, potrebbe fornire una spiegazione valida al perché l’imbarazzo, diversamente della vergogna, richiede la presenza reale dello spettatore. L’imbarazzo è possibile solo davanti ad un altro perché il dolore che caratterizza questa emozione consiste nel fatto che chi osserva mi scopre come socialmente inadeguato. Se non c’è l’altro io non posso essere fuori posto: è la sua presenza che da significato alla mia posizione in questa determinata circostanza.199
Nella vergogna, invece, il dolore può nascere anche in assenza di testimoni poiché questo non riguarda un’azione inopportuna su cui lo spettatore può soprassedere, ma la consapevolezza che ciò che è accaduto è abbastanza per escludermi da una categoria di persone. Posso vergognarmi di aver rubato anche se nessuno mi ha visto perché, anche se sono convinto che il furto non verrà mai scoperto, ai miei occhi tale atto mi qualifica come persona disonesta e, di
199 M. Lewis ha parlato di due forme di imbarazzo: una che riguarda l’essere oggetto
dell’attenzione altrui, e una (che viene spesso identificata con la vergogna) che prevede un’autovalutazione negativa da parte di chi la prova. V. Michael Lewis, Embarrassment, Pride,
Shame, Guilt, and Hubris, In Lisa Feldman Barrett, Michael Lewis, Jeannette M. Haviland-Jones
(Eds. Fourth edition), Handbook of Emotions, Guilford Press, New York, 2016, pp. 792-814. A dire il vero io rimango un po' scettico a proposito di questa distinzione. Più precisamente non credo possa emergere l’emozione se non ci sia almeno il sospetto di poter essere giudicati in un determinato modo. Quando ci sentiamo osservati mostriamo un atteggiamento difensivo, o rivolgendoci all’altro (“cosa hai da guardare?”) o osservandoci per controllare che sia tutto apposto (guardiamo se il nostro vestito è scucito, la maglia bucata etc.), perché la paura di poter risultare inadeguati è sempre presente. Il timore di essere giudicati negativamente a mio avviso è presente anche in quei casi in cui sentiamo imbarazzo per essere stati encomiati o lodati pubblicamente. L’esposizione, anche se positiva, genera disagio o perché in fondo non crediamo di meritare tali apprezzamenti (e magari qualcuno potrebbe scoprirlo o accorgersene) o perché aumenta pur sempre le possibilità di lasciar trapelare qualcosa che può essere oggetto di riso o disapprovazione (avere lo sguardo addosso ad esempio potrebbe portare qualcuno a notare che ho il vestito messo male, che ho del dentifricio sulla guancia o che ho messo male il rossetto). Va detto inoltre che solitamente, specie nella società occidentale, accettare fieramente i complimenti ci esporrebbe all’essere giudicati presuntuosi e vanitosi. Nella nostra cultura le buone maniere richiedono infatti che si ironizzi su di sé e che si tenti il più possibile di ridurre l’entità delle lodi ricevute. In questo caso l’imbarazzo potrebbe dunque costituire una strategia difensiva contro eventuali valutazioni negative.
conseguenza, comporta l’esclusione dal gruppo di persone da cui vorrei riconoscimento.200 Io stesso sento di non meritare tale riconoscimento.
Ritornerò su quest’ultimo tema a tempo debito, adesso procederò ad illustrare le ragioni che mi portano a pensare che non possiamo concordare con Zahavi nel ritenere la vergogna un’emozione che presuppone, per forza di cose, un’autovalutazione negativa e un abbassamento globale dell’autostima201.
Secondo me è importante precisare che il disvalore percepito quando ci si vergogna non è necessariamente un’autovalutazione negativa per ciò che si siamo rivelati essere. A volte, la sensazione dolorosa riguarda semplicemente l’esser valutati dagli altri inadeguati, senza che il soggetto pensi effettivamente di essere sbagliato in sé.
Si prenda in considerazione questo esempio: Michele è un impiegato di banca che vivendo una relazione a distanza è solito scambiare messaggi e foto sessualmente espliciti con la sua partner. Un giorno si rende conto di aver inviato per sbaglio uno di questi contenuti al numero del suo direttore e in preda al panico prova un’immensa vergogna. Proviamo a immedesimarci nel ragazzo: guardiamo il telefono e realizziamo di aver commesso un terribile errore, vorremmo poter riavvolgere il tempo e tornare indietro per cambiare il corso degli eventi, poter
200 Chiaramente qui non mi sto riferendo agli episodi di vergogna infantile, ma a quelli successivi
all’intersoggettività primaria e secondaria che prevedono dunque l’interiorizzazione di valori e norme. Se la distinzione che ho tracciato tra vergogna e imbarazzo è valida, l’emozione che il bambino prova già all’età di sei mesi quando viene invitato dai genitori ad esibirsi davanti ad estranei, non può essere un caso di imbarazzo. Come detto, questo a mio avviso richiede perlomeno il “sentore” (se non gli si vuole attribuire una valenza cognitiva) che l’atto non sia percepito come abbastanza grave da svalutarci e mettere in pericolo la nostra accettazione. Questo significa che l’imbarazzo è un’emozione più complessa della vergogna? Francamente non ho le competenze necessarie per fare una constatazione simile. Se l’imbarazzo necessita di una teoria della mente allora significa che casi precedenti all’acquisizione di tale capacità sono più elementari e dovrebbero essere catalogati come episodi, se pur brevi, di vergogna: potremmo dunque pensare che l’esposizione davanti a persone non conosciute genera nell’infante la paura di non poter essere apprezzato perché non conosce come potrebbero rispondere alla sua esibizione, e ciò è abbastanza per generare il timore del rifiuto. D’altra parte però, è possibile che non solo il bambino sia consapevole emotivamente dell’esposizione, ma anche della sua gravità, e questo significherebbe la non indispensabilità di processi psicologici complessi per poter provare imbarazzo. Parlerò delle esperienze di vergogna infantile nella prossima sezione.
201 Su questo punto Zahavi è stato criticato anche da Rowland Stout in On Shame: In Response to Dan Zahavi, Self and Other, International Journal of Philosophical Studies, Vol. 23, No. 5, 2015,
pp. 634-638. Trovo doveroso sottolineare che poiché Zahavi ammette la possibilità di esistenza dei casi di vergogna infantile, quando parla di autovalutazione negativa e autostima non fa riferimento necessariamente ad attività cognitive esplicite. L’infante potrebbe, ancora prima di aver acquisito un concetto di sé, percepire di aver perso valore.
prendere il suo cellulare prima che lui possa visualizzare il messaggio ricevuto o avere una scusa valida per fargli credere che non eravamo in possesso del mostro smartphone al momento dell’invio e che, in verità, si trattava semplicemente di uno scherzo di pessimo gusto da parte di alcuni amici. Ci rendiamo conto di non poter fare niente a riguardo, ci sentiamo completamente nudi e impotenti, vorremmo scomparire, sprofondare, poter non essere lì e non aver mai commesso uno sbaglio simile. Ma è troppo tardi e proviamo una vergogna insostenibile.
Io credo sia lecito pensare che nonostante Michele si vergogni, nessuna autovalutazione negativa accompagni l’emozione, nessuna diminuzione dell’autostima, nessuna percezione globale di disvalore. Alla base di questo episodio non sembra esserci un giudizio su sé stesso, una valutazione su che tipo di persona sia o una considerazione sul fatto che quello che ha fatto potesse essere sbagliato, volgare o indecente. Michele prova vergogna nonostante continui a pensare che ciò che solitamente fa sia perfettamente normale, appropriato e che continuerà a fare nonostante questo spiacevole episodio.
La svalutazione che caratterizza la vergogna non pare quindi essere sempre vissuta come un fallimento personale: è del tutto possibile che la nostra autostima rimanga intatta e che la sensazione dolorosa sorga semplicemente dal constatare che agli occhi degli altri non abbiamo valore.