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Per quanto detto, queste politiche dovrebbero privilegiare i seguenti campi di azione: favorire

l’auto-organizzazione dei processi di innovazione, dal basso, promossi dalle aziende più

innovative, cercando le legare alla loro esperienza di frontiera le retrovie. Le politiche possono intervenire nei processi di auto-organizzazione in modo soft promuovendo il rafforzamento delle

filiere (della subfornitura, specialmente), la cosruzione di reti di impresa tra partners complemen-

tari, le scelte vocazionali degli eco-sistemi distintivi, propri di ciascun territorio (investimento selettivo in conoscenza generativa nei campi di elezione), la realizzazione di efficaci piattaforme

connettive che li riguardano (comunicazione, logistica, garanzia). Non si tratta di cambiare tutto, in

base ad un piano razionale di programmazione dei territori che vogliamo (o meglio che vorremmo), perché probabilmente non sapremmo come farlo e non avremmo le risorse per farlo. Si tratta, al contrario, di identificare un set di innovazioni propulsive e di agganciarle a idee motrici di tipo condiviso che possono qualificare e rendere attrattivo un territorio;

favorire i processi di

surfing delle imprese (e dei territori collegati) sulle grandi onde della globa-

lizzazione, dell’iper-connessione, dell’automazione, del worldmaking, della dilatazione della complessità sostenibile. Anche in questo caso non si tratta di scrivere un libro dei sogni destinato a rimanere tale, ma di agire, con le politiche territoriali, in modo da rendere rapida e non conflittuale la ridefinizione del territorio, che viene investito, con grande forza e poco disegno, dai traumi del cambiamento in corso. Nel momento in cui le imprese devono costruire o inserirsi in filiere globali, si tratta, ad esempio, di agire per rendere possibili processi chiusura o di delocalizzazione di precedenti attività, riducendo i traumi conseguenti. E si tratta di investire nella creazione delle differenze distintive, in termini di conoscenze generative e di piattaforme connettive, che possono rafforzare la posizione del territorio nelle filiere globali stesse. Lo stesso vale per tutte le altre onde di cui abbiamo parlato. Se l’automazione spiazza una quota importante di lavoro, messo in concor- renza con le macchine o con i low cost globale, le politiche devono rendere meno dolorosa possibile

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la transizione dai vecchi ai nuovi lavori, accelerando in questo modo il cambiamento, invece di frenarlo come si fa, quando si adottano strategie difensive. Le politiche territoriali hanno molto da dire sul terreno del worldmaking, e del circuito senso-legami-valore che alimenta lo sviluppo di comunità di senso trans-territoriali. Il presidio dell’identità territoriale, anche in termini di signi- ficati da legare alla propria esperienza produttiva e di consumo, è un bene pubblico essenziale, che non puà essere lasciato soltanto al libero e anonimo mercato. Lo stesso vale per l’esplorazione della complessità sostenibile, associato alla ri-personalizzazione della produzione e del consumo. Le persone, infatti, vivono nei territori, e la loro capacità di interpretare la complessità emergente, trasformandola in una fonte di valore (varietà, variabilità, indeterminazione sostenibile) dipende in modo decisivo dalla qualità del contesto di vita e di lavoro che esiste nei luoghi in cui hanno radici. Rendere questi territori ricchi di stimoli, di reti e di competenze, recuperando in modo selettivo la propria storia e la propria differenza, è compito primario delle politiche del territorio, sempre che si voglia usare il surfing sulle grandi onde come chiave per costruire un nuovo territorio, invece di contemplare e difendere il vecchio.

Molte delle politiche territoriali attuali continuano – anche per effetto della crisi - ad operare in modo difensivo e auto-referente, partendo dalla concezione che il territorio aveva e ha di sé, a pre- scindere dall’evoluzione del mondo verso il capitalismo globale della conoscenza.

Ma, come accade in tutte le transizioni, esse potranno in questo modo avere un vigore decrescente, perché si troveranno – e già si trovano – ad operare su un territorio che sta cambiando fisionomia e composizione di fondo.

Guardarsi l’ombelico, in atteggiamento di difesa, non serve a niente.

Porta solo ad accumulare problemi che non sappiamo come risolvere e conflitti che eccedono la nostra capacità di mediazione e di governo. I territori che si difendono rischiano così di perdersi in un confuso confronto di tutti contro tutti, che non ha futuro.

Le correzioni a questa tendenza auto-referenziale suggerite dall’impostazione liberista hanno in questi anni mostrato la corda: maggiore concorrenza, maggiore flessibilità nei contratti (anche di lavoro), maggiore apertura alle dinamiche esterne vanno bene, ma spesso non bastano ad innescare le reazioni innovative che possono rendere queste “cure” sostenibili e utili per lo sviluppo del territorio o della filiera.

Bisogna fare di più. Ossia bisogna – con adeguate misure e investimenti – legare l’evoluzione competitiva delle imprese e del territorio alle grandi onde sopra richiamate (globalizzazione, iper- connessione, automazione, worldmaking, ri-personalizzazione della complessità). L’evoluzione del territorio, per intercettare il potenziale di valore disponibile, deve infatti agganciarsi a queste forze potenti che, giorno per giorno, modificano gli equilibri e i significati presenti in ciascun territorio.

Possiamo usare le politiche territoriali in funzione conservativa, per rimediare alle alterazioni e agli inconvenienti che la transizione comporta. Ma sarebbe invece più intelligente puntare ad usare le forze della transizione per costruire nuovi assetti e nuovi significati del territorio in cui viviamo e operiamo.

Bisogna immaginare politiche che non partano dall’idea (difensiva) di proteggere il territorio com’è, ma da quella (innovativa) di costruire per i suoi abitanti un modo in cui possano avere una buona qualità del vivere e del lavorare, sfruttando le grandi onde della transizione – sopra ricordate – come fonte di valore, da usare a sostegno del proprio riposizionamento competitivo.

Non è facile, né immediato: ma fa parte dell’agenda delle cose da fare, con cui tutti i giorni abbiamo a che fare. E che, nella crisi che ha investito i vecchi assetti dell’economia e della società, non possiamo evitare di sentire come minaccia e come problema, in attesa di risposta.

Prima impariamo a vedere le potenzialità positive che, pure, sono presenti nella nostra agenda del futuro possibile, e meglio è.

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