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Le politiche fiscali per la ricapitalizzazione delle imprese e le nuove forme di tassazione

È necessario procedere al taglio del cuneo fiscale, proseguendo lungo la strada già indicata dal Governo, privilegiando però le imprese che davvero aumentano la “buona” occupazione, che inve- stono in R&S o che fungono da leader nei processi innovativi. La riduzione del cuneo fiscale non può essere considerata come una misura alternativa ad una svalutazione dell’euro e neanche un sussidio minimo “erga omnes”; altrimenti avrebbe un’efficacia effimera, come già le “svalutazioni competitive” di una volta. Invece, le risorse finanziarie aggiuntive faticosamente reperite tramite un risparmio sulle spese pubbliche inefficienti e inefficaci dovrebbero essere utilizzate non solo per stimolare la domanda interna di consumi e di investimenti materiali ed immateriali, ma anche per sostenere una politica industriale moderna, incentrata su una forte selettività e concentrazione dello sforzo su innovazioni di prodotto e sugli investimenti necessari per introdurre nuove produzioni e creare occupazione. Prioritario appare ad esempio collegare la riduzione del cuneo fiscale ad un aumento nelle imprese dell’investimento in formazione continua o nei “contratti di solidarietà” per l’assunzione di giovani o dell’investimento in ricerca e progettazione.

D’altro lato, nelle imprese non finanziarie è necessario tassare di più il capitale finanziario (ora tassato con un’aliquota di circa il 20%) e l’uso di risorse naturali ed è invece necessario incentivare fiscalmente il lavoro e il reddito di impresa (ora tassati con aliquote anche superiori al 40%), ad esempio tassando in modo diverso il “margine operativo lordo” rispetto ai “proventi e oneri di tipo finanziario” delle stesse imprese industriali. Come nel caso della separazione tra banche ordinarie e banche di investimento, anche nelle imprese non finanziarie è necessario separare più chiaramente le operazioni “industriali” da quelle “speculative”.

Di fatto, evasione ed elusione fiscale costano ogni anno 1 trilione di euro all’UE e 180 miliardi in Italia. I meccanismi di elusione consistono essenzialmente nella creazione di società fittizie in paradisi fiscali nelle quali le imprese trasferiscono i loro utili attraverso finte transazioni (acquisti di servizi, consulenze, ecc.), come indicato dai casi Google e Apple e in Italia da alcune grandi case di moda e molti altri. I 60 miliardi di evasione delle grandi imprese sono aggredibili con iniziative già adottate in alcuni paesi ed in corso di esame in Europa. Per combattere l’elusione è necessaria una contabilità paese per paese, il registro pubblico delle imprese per risalire alla vera proprietà (registro che noi abbiamo ma Germania ed Austria ad esempio no) e criteri minimi di trasparenza fiscale come soglia per partecipare agli appalti. Non è possibile parlare di Europa unita se ancora i paesi membri si fanno tra di loro concorrenza fiscale sleale e ogni iniziativa fiscale di contrasto sarà molto più efficace se perseguita a livello europeo piuttosto che in un solo paese.

Accanto alla strenua lotta ai fenomeni di evasione ed elusione fiscale, la riduzione della pressione fiscale – in particolare sul lavoro e sulle imprese – può essere attuata anche attraverso nuove forme di tassazione. Al di là della questione se sia opportuno spostare parte del peso della tassazione dai redditi ai patrimoni (ed in Italia recentemente si è perso troppo tempo in merito alla questione della tassazione sulla prima casa) oppure di tassare maggiormente le rendite finanziarie, ci potrebbero essere altre fonti di entrata (che vedrebbero la non contrarietà di gran parte dei cittadini e del mondo produttivo). Si tratta delle rendite derivanti da trasformazioni urbanistiche ed immobiliari.

La questione fiscale e lo sviluppo industriale sono strettamente collegati con la questione urbana e lo sviluppo di un moderno federalismo fiscale che valorizzi l’autonomia fiscale degli enti locali. Una parte rilevante dei valori fondiari, e cioè della rendita fondiaria e immobiliare, deriva dalla presenza di beni pubblici: strade, parchi, stazioni, aeroporti, reti di mobilità e di comunicazione, servizi; tutti elementi che implicano una spesa pubblica, nazionale o locale, in conto capitale (investimenti) o in conto corrente (spese di gestione e di manutenzione). E la presenza di questi beni pubblici è legata all’esistenza di un qualche progetto collettivo di città.

Oggi, non soltanto appare necessaria una forte razionalizzazione della spesa pubblica complessiva, ma appare ancor più necessario rinvenire fonti di finanziamento delle nuove infrastrutture urbane,

Introduzione: linee guida per il rilancio della politica industriale e regionale 31

soprattutto introducendo o reinventando processi di equa ripartizione fra pubblico e privato dei plu- svalori emergenti dalla trasformazione delle città18. Si tratta di un programma solo in parte tecnico, ma soprattutto politico, orientato a una diversa distribuzione del reddito fra classi sociali e a una diversa allocazione dei plusvalori generati dalla città fra consumi e investimenti.

Analisi comparative internazionali ci suggeriscono che vi è nel nostro paese ampio spazio per un aumento sostanzioso della parte di plusvalore che può restare nelle mani del partner pubblico, da realizzare attraverso aumenti degli oneri di urbanizzazione, che oggi spesso non coprono nemmeno i costi delle infrastrutture direttamente al servizio delle nuove costruzioni, e/o attraverso extra-oneri da concordare col partner privato in presenza di importanti progetti di trasformazione.

Gli oneri sulle edificazioni residenziali sono di 748 euro/mq a Parigi e di 244 euro/mq a Milano; 660 euro/mq in tutta la Francia, 98 euro a Bologna. Come quota sul valore medio costruito in Italia ci si posiziona, al massimo, sul 5-7% del valore del costruito, a Monaco di Baviera sul 30%. I plusvalori estratti dalle trasformazioni immobiliari, fatti salvi i profitti del costruttore puro e del developer, si calcolano attorno al 50% del valore costruito a Milano e a Roma;

Persino nei paesi in via di sviluppo politiche di value recapture, cioè di ricattura a favore della collettività di plusvalori creatisi nella trasformazione urbana, sono fortemente auspicate dalle grandi agenzie internazionali e perseguite con decisione attraverso regole, nazionali e locali, e accordi negoziali fra amministrazioni e operatori immobiliari (land value sharing), con l’obiettivo di otte- nere risorse da dedicare alla capitalizzazione delle città e alla modernizzazione dei servizi pubblici, ma anche con quello di combattere e ridurre una delle più rilevanti fonti di corruzione politica: un insegnamento che non può non interessarci. In Francia una recente legge del 2012 ha unificato i precedenti e frammentati oneri in una sola taxe d’aménagement, che prevede, per l’intero territorio francese un onere di 660 euro/mq, aumentato a 748 euro per l’Ile-de-France. Nella nuova Costitu- zione spagnola si annuncia che “la comunità parteciperà ai plusvalori generati dall’azione urbanistica degli enti pubblici”.

Non si aumenterebbe il livello di tassazione generale ma si perseguirebbero plusvalori che stori- camente sono stati tassati solo lievemente o sono sfuggiti a una equa tassazione. Attraverso la filiera delle numerose transazioni che in genere vengono effettuate dall’acquisto del terreno (agricolo) alla vendita degli appartamenti si perde ampia traccia delle plusvalenze realizzate. Si tratta di colpire un ambito economico che rappresenta una sorta di paradiso fiscale, anche al fine di poter eventualmente ridurre una parte dell’imposizione patrimoniale sulla casa, oggi esagerata, che grava sulle famiglie e che costituisce una delle cause non ultime dell’attuale crisi di domanda nel settore immobiliare. Infatti, questo permetterebbe di alleggerire anche la tassazione su redditi diversi dalle rendite e l’ec- cessiva tassazione di famiglie che hanno già pagato un alto scotto alla rendita immobiliare all’atto dell’acquisto dell’appartamento.

Come si vede, i margini di plusvalore rappresentano quote elevatissime, probabilmente sottosti- mate, quali nessun settore produttivo industriale potrebbe realizzare. Tutte le parti politiche hanno parlato di tassazione delle rendite finanziarie, tassando anche i magri interessi sui nostri conti correnti, ma nessuna ha appuntato l’attenzione sulla rendita per eccellenza, quella che nasce dalle trasforma- zioni urbanistiche e immobiliari.

È importante ridurre il drenaggio di risparmi e investimenti dal settore industriale al real estate come anche ridurre la capacità di corruzione che storicamente nel nostro paese si annida all’interno della filiera immobiliare.

In particolare, nelle aree metropolitane di prossima istituzione assume un ruolo fondamentale l’or- ganizzazione e urbanizzazione del territorio e la gestione e lo sviluppo di una rete di infrastrutture sia all’interno dell’area metropolitana che di collegamento con l’esterno, che determinano un beneficio in termini di maggiore accessibilità e interazione per tutti gli attori, vantaggi di agglomerazione e fat- tori di competitività che attraggono nuove attività. In questa prospettiva è necessario redistribuire la tassazione dagli stock o dalla proprietà del suolo e degli immobili ai flussi, tanto più se i beni pubblici urbani o le infrastrutture esistenti e nuove servono a facilitare i flussi. Si deve quindi tenere conto del beneficio generato dalla città alle imprese che gestiscono in regime di monopolio le infrastrutture e i servizi a rete e a chi le usa pur non essendo residente nella città, dato che essi si avvantaggiano

32 Riccardo Cappellin, Enrico Marelli, Enzo Rullani, Alessandro Sterlacchini

delle economie di prossimità assicurate dalla crescente dimensione fisica ed economica della città. Pertanto, tali soggetti e non solo i cittadini residenti e proprietari di immobili devono contribuire a compensare i “cost of urban growth” o le diseconomie esterne associate alla crescita della città e alla realizzazione di quelle infrastrutture e servizi a rete che servono a contenerle.

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