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Il nuovo punto di vista delle imprese, riguardo al territorio

Territori in transizione Il nuovo rapporto tra imprese e Politiche territoriali per la rinascita industriale e l’innovazione.

4. Il nuovo punto di vista delle imprese, riguardo al territorio

Lo sviluppo di global value chains (filiere globali) che mettono insieme più luoghi e più imprese in un rapporto di interdipendenza, ma anche di potenziale mobilità, mette i territori in concorrenza tra loro (Gereffi et al., 2005; Gereffi et al., 1991).

I territori, anche per questo, si stanno riposizionando, nel nuovo network globale della conoscenza che ne deriva (Cappellin, Wink, 2009). Ma non si tratta di un processo facile, perché i processi di governance che li caratterizzavano sono forti nel conservare ma spesso deboli nel cercare strade nuove e a rischio.

Più veloci nell’adattamento sono le imprese, o almeno quella parte delle imprese che ha un approc- cio strategico innovativo, e che sa prendersi i rischi conseguenti. Nel nuovo tendenziale assetto dei territori e delle forze produttive, le imprese cominciano a vedere il territorio in un duplice ruolo:

come

eco-sistema distintivo in cui sedimentare la propria intelligenza generativa e realizzare la

replicazione di massa di modelli standard, magari operativamente decentrati in altri luoghi della filiera mondiale;

come

piattaforma connettiva attraverso cui praticare la propagazione moltiplicativa verso il mondo

dei propri modelli di conoscenza replicabile

Nel primo senso, cercano il radicamento di qualità, che colleghi l’intelligenza generativa dell’im- presa a quella distribuita nel contesto; nel secondo cercano la mobilità localizzativa che consente di avere di volta in volta la soluzione più vantaggiosa (facendo investimenti diretti all’estero, scegliendo i fornitori esteri più convenienti, costruendo catene di distribuzione e marchi rivolti ai mercati in crescita).

In questo senso, l’impresa può entrare facilmente in conflitto col proprio territorio di origine, se questo non evolve nelle due direzioni sopra richiamate. Ossia se questo non fornisce alle imprese in esso situate una base di conoscenza generativa e una piattaforma moltiplicativa adeguata.

In questo, la recente esperienza italiana mostra una differenza importante rispetto a quello che accade in Francia, Germania e Stati Uniti. Paesi in cui il concetto di responsabilità sociale delle mag- giori imprese verso i territori di origini viene declinato apertamente e in una certa misura praticato, anche con importanti presidi dello Stato nazionale su questo versante. In Italia, invece, molte grandi imprese sono evaporate nel corso degli ultimi trenta anni, e altre stanno cercando vie autonome, poco collegate al paese di origine: manca, infatti, un rapporto di reciproca lealtà tra istituzioni e interlocu- tori privati.

Ma anche a prescindere dagli atteggiamenti soggettivi delle imprese, bisogna riconoscere un fatto: nelle filiere globali multi-localizzate, le imprese possono spostarsi, se il radicamento territoriale che hanno non frutta vantaggi ma svantaggi. Possono farlo facilmente se vanno alla ricerca di piattaforme esterne su cui esercitare la propagazione moltiplicativa; meno facilmente se cercano di riadattare la propria conoscenza generativa a contesti diversi da quello di origine. Ma possono comunque muo- versi, rompendo il vincolo territoriale, con costi più o meno grandi.

Minori possibilità di muoversi hanno i lavoratori, i cittadini, i territori nel loro insieme. Essi hanno bisogno dunque delle imprese che scelgono di giocare con loro la partita del riposizionamento, ma non possono più – come in passato – catturare le imprese “giuste” – quelle innovative, capaci di pro- durre valore - costringendole ad essere della partita. Devono convincerle a farlo.

È un problema non da poco.

Innanzitutto, c’è una trattativa da fare con le multinazionali che si sono impiantate in Italia da anni (come Siemens, Electrolux, e altre) conseguendo buoni risultati, e che oggi dubitano della con-

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venienza a continuare l’attività nel nostro territorio, in presenza di alternative localizzative meno costose.

Su questo versante, si stanno sperimentando politiche di riorganizzazione delle relazioni industriali e delle relazioni col territorio. Ma non bastano soluzioni emergenziali che introducono flessibilità o limitano temporaneamente le retribuzioni. Quello che è necessario è un salto di qualità nel tipo di processi e di prodotti che vengono assegnati alle lavorazioni in Italia, cosa che comporta, certo, una scelta della multinazionale nella sua divisione dei compiti entro la filiera globale, ma che richiede anche un investimento professionale non indifferente fatto dal lavoro italiano. Come coinvolgere le imprese interessate in un progetto che metta insieme flessibilità, aumento di qualità, investimento professionale sul nuovo?

È una domanda che rimane tuttora aperta, e dunque un campo importante per le politiche indu- striali e territoriale del prossimo futuro.

In certi casi esistono già delle caratteristiche professionali e qualitative che forniscono alle loca- lizzazioni italiane un potere di attrazione, rispetto a soluzioni alternative: ad esempio multinazionali della moda come Lvmh, che presidiano con massicci investimenti i marchi e la rete commerciale hanno trovato in Italia professionalità artigiane e tecnicalità che giustificano un loro legame stabile con il nostro territorio. In altri casi, l’attrattore è la localizzazione obbligata in Italia se si vuole ser- vire la domanda locale (Ikea, McDonald’s ecc.). Ma in tanti altri casi questa attrattività va creata, perché la storia passata non l’ha prodotta o non l’ha prodotta in misura adeguata.

Certo, se non riuscissimo a trattenere le imprese che hanno da anni fornito ai nostri produttori (lavoratori, fornitori) linee efficaci di relazione col mondo, è ben difficile che si possano attrarre nuove imprese e riattivare investimenti diretti dall’estero in misura importante e in nuovi settori.

Eppoi, last but not least, c’è da avviare un ripensamento delle relazioni industriali e delle relazioni col territorio che riguarda le imprese italiane, specie quelle maggiormente dinamiche, che potreb- bero anche cercare nuove possibilità di collaborazione e radicamento all’estero, invece che sul loro territorio di origine.

Ecco la necessità di politiche di condivisione progettuale e di co-assunzione di investimenti e

rischi congiunti con il drappello di imprese che accetta di fare da battistrada, nella trasformazione

dei contesti territoriali in cui sono insediate, a condizione che gli interlocutori locali (lavoratori, isti- tuzioni, banche ecc.) facciano la loro parte, nella elaborazione e realizzazione di un progetto comune di costruzione del futuro. Prendendo le distanze, se serve, dal passato, e recuperando quanto serve per andare avanti, in termini di risorse, cultura, immaginazione, identità ancorate al progetto di futuro da realizzare e apprezzate dagli interlocutori con cui si ha a che fare nelle filiere globali (Rullani, 2011b).

Fine dell’auto-referenza territoriale dunque, non solo in termini di relazioni, ma anche in termini di identità condivise.

Quanti territori e quante imprese sono oggi pronte, in Italia, ad iniziare una partita del genere?

5. Il riposizionamento da perseguire, insieme

Che tipo di politiche possono sostenere il progressivo ri-posizionamento, in Italia, dei tanti e diversi territori esistenti, ereditati dal ciclo 1970-2000, verso i nuovi requisiti della competitività globale?

Prima di tutto, bisogna rendersi conto del fatto che, nel confronto mondiale, ciascun territorio è condizionato dalla propria storia. A partire da un dato di fondo: la sostenibilità del reddito pro-capite nei confronti di territori che partono da un livello diverso (Rullani et al., 2012).

In Italia, al contrario di quanto accadeva nel quadro della concorrenza europea nella seconda metà del novecento, il reddito è salito e ormai si avvicina a quello dei paesi ricchi del mondo. In passato eravamo – relativamente agli altri grandi paesi europei – un paese dotato di un vantaggio di costo (del lavoro) che compensava altre carenze (nella dotazione di conoscenza scientifico-tecnologica, di infrastrutture, di capitale umano istruito ecc.). Oggi, dopo l’avvento dell’economia globale (dal 2000 in poi), siamo diventati un paese high cost. Ossia un paese che deve difendere un livello alto di

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reddito pro-capite, a confronto dei tanti paesi low cost che stanno imparando a fare le cose che una volta facevamo noi.

Il nostro livello di reddito può diventare sostenibile, nel prossimo futuro, solo se riusciamo – come sistema nazionale dei tanti territori e delle imprese in essi insediate - a fare un salto produttivistico in termini di valore per ora lavorata. Un salto tale da generare un valore per ora lavorata abbastanza alto da compensare lo svantaggio strutturale di costo, di cui soffriamo rispetto ai nuovi competitors.

È un problema che hanno un po’ tutti i paesi ricchi, ma in Italia si pone in modo particolarmente rilevante perché:

abbiamo ancora una scarsa capacità di innescare e utilizzare a nostro vantaggio i processi di propa- •

gazione moltiplicativa di modelli replicabili, usando trasferimenti sul mercato globale e in forme immateriali (ICT, comunicazione di massa). La dimensione piccola e locale dei nostri sistemi produttivi è rimasta “spiazzata” da questa evoluzione della concorrenza negli ultimi dieci-venti anni;

al contrario di molti paesi ricchi (come Usa, Germania, Giappone) che si sono trasformati rapi- •

damente in modo da essere complementari dei cinesi, degli indiani, dei turchi, ecc. nelle filiere globali, l’Italia ha ancora molti produttori che si trovano ad essere concorrenti con i nuovi produt- tori emergenti. Dunque, occorre non tanto un riposizionamento che cambi la specializzazione settoriale, quando un riposizionamento che cambi il ruolo svolto nelle filiere globali in termini di eco-sistemi distintivi (da fondare su investimenti importanti in conoscenza generativa) e in termini di piattaforme moltiplicative (da rendere efficienti per quanto riguarda la codificazione, la logi- stica, la comunicazione, la garanzia).

Il gap infrastrutturale italiano oggi pesa sulle prospettive della transizione non solo perché rallenta i trasporti o riduce le comunicazioni utili, ma perché – persistendo – impedisce la riorganizzazione del sistema industriale, cognitivo e di servizi che ne avrebbe bisogno.

6. Le cose da fare (primo step): organizzare la transizione nei territori attraverso

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