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di Valeria Pracchi

Nel documento Regione Lombardia. Volumi pubblicati (pagine 44-49)

©Edizioni Angelo Guerini e Associati

1I. Prigogine, I. Stengers, voce «Sistema», in Enciclopedia Einaudi, vol. XII, Torino 1981, p. 998.

2Ibid., p. 996.

3I. Calvino, «Descrivere», in La lettura. Antologia per la scuola media… •completare dati•.

Inoltre, la terminologia adottata, spesso legata alla metafora medica4, non deve fuorviare rispetto all’idea fondamentale di cura-accudimento5e, in generale, rispetto all’impostazione teorica, attenta all’epistemologia della complessità, che ha portato a sostituire, almeno per il patrimonio tutelato, il termine «manutenzione» con

«conservazione»6. Se al proposito va previsto un aggiornamento, o meglio un indirizzo ulteriore della ricerca rispetto alla terminologia adottata, esso riguarda l’uso frequente, mutuato dall’ambito tecnologico, di lemmi che poco si prestano al settore qui considerato per il quale il guasto, il difetto ecc. risultano poco appropriati.

La redazione del piano ha certamente un nodo cruciale nella definizione delle problematiche alle quali si riferiscono i controlli da effettuare e le pratiche manutentive. Ma definire le problematiche presenti o pre-vedibili, e valutare la loro rilevanza, presuppone la conoscenza delle azioni alle quali l’edificio è soggetto, quindi richiede di definire campi di ammissibilità di tali azioni e di comprendere le risorse e le collabora-zioni che caratterizzano l’oggetto considerato anche come sistema tecnologico. Tale comprensione è la base per progettare le «attività preventive», come vengono definite nelle linee guida allegate: si tratta di opere di manutenzione, ma la dizione «preventive» tende a sottolineare come soltanto alcune tra esse siano accetta-bili nel contesto di un edificio inteso come «storico», come bene culturale.

I criteri di ammissione o esclusione delle pratiche manutentive sono appunto l’oggetto di questa nota.

Sembra qui opportuno un chiarimento terminologico. Tra le attività «preventive» sono infatti comprese sia operazioni di prevenzione vere e proprie, sia di protezione. Benché spesso i due concetti siano per brevità so-vrapposti, oppure confusi, ci sembra utile accettare la rigorosa distinzione corrente nella letteratura scientifi-ca, per cui prevenzione significa diminuire la probabilità che un evento indesiderato si verifichi, mentre pro-tezione vuol dire ridurre le conseguenze dell’evento stesso. Tale distinzione, familiare a chi si occupa di ana-lisi del rischio7, è particolarmente utile per capire la differenza tra le modalità operative che tendono co-munque ad agire «prima» per impedire o ridurre fenomeni di degrado, ma con diverse strategie e differenti impatti sugli edifici nella loro materialità.

Le opere di prevenzione comprendono azioni che possono non incidere affatto sulla materia della fab-brica edilizia. In primo luogo, infatti, esse consistono in regolamentazioni dell’uso che si traducono in con-dizioni di esercizio meno «sollecitanti» per i diversi componenti dell’edificio.

Quando il piano fa parte di un progetto generale, si può presumere che vi sia una ragionevole corri-spondenza tra la «dotazione» dell’edificio e l’uso previsto: ma ciò non toglie che sia opportuno vigilare sul rispetto delle limitazioni ipotizzate dal progettista, che potrebbero variare col passare del tempo e con even-tuali variazioni nelle forme di utilizzo. Gli esempi possono comprendere la limitazione del carico su un so-laio o della capienza di una sala, la regolazione di un impianto di riscaldamento, la predisposizione di zone di rispetto per il traffico veicolare nell’intorno, la proibizione di svolgere, dentro l’edificio o nel suo intorno, attività che inducono sollecitazioni dinamiche, l’inserimento di apparecchi di regolazione del tasso di umi-dità dell’aria, la scelta di un’illuminazione che non danneggi i materiali… L’elenco potrebbe continuare, ma sembra sufficiente per dimostrare quanto possa interessare tutto l’arco delle problematiche di conservazione e funzionalità individuate nell’edificio storico.

Accanto alle limitazione d’uso, si comprendono tra le opere di prevenzione quelle pratiche che evitano l’insorgere di processi di degrado. Si pensi in primo luogo ai depositi che, in processo di tempo, si trasforma-no in sporco vero e proprio e determinatrasforma-no l’insorgere di molteplici degradi, ben al di là dell’offuscamento del-l’immagine: la loro asportazione tempestiva non ha certo la delicatezza concettuale che l’operazione di puli-tura assume nel campo del restauro, e i depositi sono fisicamente distinguibili rispetto alle superfici edilizie.

Pertanto, possiamo dire, operando una semplificazione, che rientrano nel campo della prevenzione quel-le pratiche manutentive che solitamente non comportano di fatto alcun impatto sulla materia dell’edificio.

Poiché gran parte delle attività preventive sono strettamente legate all’uso quotidiano degli edifici, le relati-ve istruzioni dovranno essere riportate chiaramente nel manuale d’uso.

4Su questo argomento è stata fondamentale la ricerca di G.P. Treccani, del quale si vedano: «In principio era la cura», Tema, 3-4, 1996, pp. 133-138; «‘Risarcimento della lacuna’ o pratiche del rattoppo?», in G. Biscontin, G. Driussi (a cura di), Lacune in ar-chitettura. Aspetti teorici ed operativi, Venezia 1997, pp. 81-89 (Atti del Convegno di Bressanone); «Manutenzione come cura del costruito», in G. Biscontin, G. Driussi (a cura di), Ripensare alla manutenzione. Ricerche, progettazione, materiali, tecniche per la cura del costruito, Venezia 1999, pp. 101-110 (Atti del Convegno di Bressanone); «La prova del tempo tra errori ed omissioni», in G. Biscontin, G. Driussi (a cura di), La prova del tempo. Verifiche degli interventi per la conservazione del costruito, Venezia 2000, pp. 65-70 (Atti del Convegno di Bressanone).

5M.T. Binaghi Olivari, «Conservare prima di restaurare, anzi meglio», in Id. (a cura di), Come conservare un patrimonio. Gli oggetti antichi nelle chiese, Milano 2001, pp. 35-38.

6S. Della Torre, «‘Manutenzione’ o ‘conservazione’? La sfida del passaggio dall’equilibrio al divenire», in G. Biscontin, G.

Driussi (a cura di), Ripensare alla manutenzione, cit., pp. 71-80.

7Cfr., ad esempio, P. Bertoldo, «La valutazione della sicurezza equivalente nel progetto di conservazione», TeMa, 1, 2001, pp.

14-21.

Diverso, e più complesso, è il discorso che riguarda la protezione. Proteggere, infatti, significa in gene-rale conferire all’edificio e ai suoi componenti risorse aggiuntive, che si tratti di rinforzi strutturali, di strati superficiali o addirittura di interi elementi tecnologici di nuovo inserimento. È quindi ovvio che le pratiche di protezione devono essere vagliate con maggior cautela: in alcune di esse si cela il rischio, per salvare l’e-lemento, di sostituirlo preventivamente, in tal modo la pretesa «conservazione preventiva» diverrebbe un’i-naccettabile metodologia di progressiva falsificazione. Qui non si vuole negare che si possa pervenire alla necessità estrema di sostituire piccole parti: ciò che pure non darebbe come risultato lo stesso impatto di un restauro, perché contribuirebbe comunque a evitare un forte decadimento delle prestazioni. Non si tratta di impedire una trasformazione che possa anche provocare la perdita di materia, ma di evitare di sostituire ora ciò che ha ancora possibilità di durata. Una somma di minimi interventi è comunque differente da un restauro invasivo, perché consente una stratificazione nel tempo e un’acquisizione di storicità nella coscienza che ren-de profondamente distanti le due operazioni. Se l’edificio vive nel tempo, si trasforma, ma la trasformazio-ne, in quanto parziale e lenta modificaziotrasformazio-ne, è differente dalla demolizione e sostituzione. Il ragionamento non può però essere spinto al limite, pena l’incapacità a uscirne e a trovare strade virtuose.

Questo è il nodo teorico più discusso, ma forse ancora irrisolto, del rapporto tra manutenzione e tutela dell’edilizia storica. Qui, infatti, si incrociano i dispareri su come debba intendersi l’autenticità, ma si in-contra anche l’evidenza estetica delle opere protettive, quindi entrano in gioco le eterne questioni sul ruolo più o meno decisivo che assumono, nel restauro architettonico, le istanze di immagine. È appena il caso di ricordare che già da anni alcuni autori, non senza buone ragioni, hanno indicato il ritorno alla manutenzione come la strada per uscire dalle strettoie teoriche di un restauro architettonico troppo influenzato da teorie for-mulate con riferimento esclusivamente all’artisticità degli oggetti d’arte: è ben noto, infatti, come tale indi-cazione si sia risolta nella teorizzazione della liceità della sostituzione, del «falso localizzato», dell’esecu-zione differita, in nome della compiutezza dell’organismo architettonico8. Più che ironizzare sulla rinascita di Viollet-le-Duc, è interessante rilevare come queste proposte, le prime in cui oggi ci si imbatte documen-tandosi sul rapporto tra manutenzione e restauro, facciano riferimento a un concetto di autenticità ben noto9, che si fonda sull’attribuzione all’oggetto (all’opera: nel nostro caso all’edificio o alla città) di un’identità for-te e invarianfor-te, non disposta a evolvere, per la quale qualsiasi modifica equivarrebbe a una degenerazione.

Ma tale identità sarebbe così forte da consentire la sostituzione di qualche parte dell’oggetto, ove la sostitu-zione avvenisse nel rispetto delle regole, del «codice genetico» dell’oggetto stesso.

Queste posizioni difficilmente potrebbero fondare un passaggio dal restauro ex post alla conservazione ex ante: non si vede il motivo di prevenire il degrado, se le singole parti, nella materia che le costituisce, non sono portatrici di autenticità. Ma la questione non può essere liquidata così facilmente, perché fu proprio Giovanni Urbani, anche in collaborazione con Marcello Paribeni, a proporre ripetutamente, in numerosi in-terventi10, il rifacimento della «pelle» degli edifici come esigenza prioritaria, fornendo argomenti ai sosteni-tori della manutenzione come periodico rifacimento à l’identique. Considerato il ruolo riconosciuto a Urba-ni di promotore della «conservazione programmata» come strategia, è importante chiarire il suo punto di vi-sta, i condizionamenti del suo tempo, e quindi il senso e l’eventuale attualità delle sue discussioni sulla prio-rità della conservazione materiale rispetto alla permanenza dell’immagine11.

Ad esempio, nel 1983 Urbani giudicava il ripristino di uno strato d’intonaco su un paramento laterizio co-me «un alquanto transitorio disturbo estetico», co-mentre denunciava il rischio che l’alternativa invisibile del solidamento con resine si traducesse a lungo termine in «un più accentuato deterioramento del materiale con-solidato». Questo lo portava a mettere in dubbio la «teoria estetica del restauro» e a riconsiderare il problema del rudere, centrale nella filosofia brandiana. Di queste riflessioni è evidente la matrice, legata alla preoccupa-zione fondamentale dell’interapreoccupa-zione tra l’opera d’arte e un ambiente divenuto inquinato e aggressivo. Gli stu-di condotti insieme con Paribeni sono costantemente impostati, per così stu-dire, sulla stu-difensiva: l’ambiente ag-gredisce, la superficie dell’opera si altera. Il degrado viene dall’esterno, la «pelle» del monumento è il luogo dei processi, quindi della misura dello «stato di conservazione». Pensosi sui destini delle opere d’arte più che degli edifici storici in uso, Urbani e Paribeni sembrano raffigurare le architetture come superfici e non come si-stemi, spesso di indescrivibile complessità, soggetti a processi tutt’altro che riducibili agli effetti ambientali.

8Si allude in particolare a Paolo Marconi, del quale si veda ad esempio Arte e cultura della manutenzione dei monumenti, Ro-ma-Bari 1984.

9Rimando a V. Pracchi, «La logica degli occhi». Gli storici dell’arte, la tutela e il restauro dell’architettura tra positivismo e neoidealismo, Como 2001, p. 121.

10I principali scritti di Urbani sono raccolti in G. Urbani, Intorno al restauro, a cura di B. Zanardi, Milano 2000.

11A questo proposito si segnala la tesi di laurea di V. Minosi, Il restauro tra estetica e scienza. Giovanni Urbani, restauratore e storico dell’arte. Dalla definizione di «stato di conservazione» alla «conservazione programmata», Politecnico di Milano, Prima Facoltà di Architettura, a.a. 2001-2002, relatori S. Della Torre e V. Pracchi.

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Nell’ambito disciplinare del restauro, peraltro, le confutazioni sembrano aver riguardato soprattutto le strumentalizzazioni delle tesi urbaniane per sostenere la pratica del ripristino12: si pensi all’annosa e stuc-chevole questione delle «superfici di sacrificio». Ma in questo modo si finisce per non uscire dall’ambito di una discussione sull’immagine e si trascura il nocciolo del messaggio di Urbani. Perché, se anche possiamo ragionevolmente pensare che sia un po’ eccessiva la sua enfasi sull’efficacia protettiva degli intonaci, e se in generale il suo approccio all’architettura appare limitato dal presupposto che soltanto la presenza di un «mes-saggio artistico» ne giustifichi il mantenimento, il concetto che il restauro non si valuti sulla base della con-servazione nell’immediato, ma a lungo termine, è un’idea importante e feconda.

Non deve stupire che Urbani non esercitasse quella sensibilità archeologica per i materiali dell’architet-tura che oggi, avendo molto appreso anche dai «ripristinatori», contraddistingue l’approccio conservativo:

semplicemente questa componente era estranea alla sua formazione, e in generale i tempi non erano certo maturi. Oggi non pensiamo più che la conservazione di un paramento stonacato sia soltanto un tema di este-tica: è anche un tema di stratigrafia e di tecnologia, di storia della cultura materiale e di archeometria. Più che di estetica potremmo parlare di conoscenza, e forse meglio di etica della conoscenza. Su quest’etica si fonda un conservare che non può consumarsi nel tempo breve del confronto tra immagini, ma vive nel tem-po lungo della cura e dell’ascolto.

Collocandosi ben dentro il divenire e la coevoluzione, non potremo pensare la conservazione se non co-me strategia preventiva, affrontando il tema della protezione con laicità, senza limitarci in alcun modo alla sola istanza estetica. Se la centralità del progetto di conoscenza, e quindi dell’autenticità materiale di ciò che si conserva, comporta che non sia lecita a priori alcuna operazione sostitutiva, tanto meno se questa viene programmata senza presupporre adeguate valutazioni sul decorso dei processi, tuttavia il mantenimento in ef-ficienza di particolari strati protettivi può essere opportuno, e andrà, se è il caso, prescritto nel piano; o me-glio, nel piano si indicherà come prioritario il controllo dello «stato di efficienza» delle finiture alle quali è attribuita anche un’importante funzione protettiva.

Per l’individuazione delle azioni «preventive» è necessaria, quindi, oltre a una chiara distinzione con-cettuale tra misure preventive e operazioni protettive, anche una valutazione dell’efficacia protettiva: ciò si-gnifica guardare l’edificio nella sua complessità e tener conto delle interazioni tra i componenti, ma anche tra i componenti e l’utenza. Si tratta, in sostanza, di prevedere i modi di propagazione dei processi di degra-do, tenendo conto delle specifiche situazioni, che a volte danno risposte inattese in quanto influenzate da pre-cedenti vicende non conosciute. In questi casi l’archivio di informazioni che progressivamente si costituirà nel sistema informativo dovrebbe rivelarsi di qualche utilità. Manca infatti a tutt’oggi qualunque strumento che aiuti a comprendere caratteristiche, durata, efficacia di sistemi costruttivi o di riparazione in differenti si-tuazioni: l’utilità di avere riscontri rispetto all’efficacia di interventi pregressi va dunque sottolineata.

Nel campo dell’edilizia nuova le operazioni manutentive, oltre a essere prescritte senza le implicazioni conservative di cui abbiamo parlato, sono anche riferite a uno preciso scadenziario13, che in un’ottica di ma-nutenzione programmata dovrebbe basarsi su dati sperimentali e statistiche legate alla durabilità e all’affida-bilità dei componenti. Sappiamo bene che la determinazione di tali caratteristiche è possibile per un prodotto industriale in normali condizioni di esercizio, ma diviene più aleatoria per gli oggetti edilizi, sia per le loro modalità di realizzazione, sia per le loro incerte modalità d’uso, sia per la controversa valutazione di ciò che debba ritenersi «un danno» correlato alle diminuite risorse del sistema edilizio. Infatti, il concetto di vita utile non trova ragione di essere nella conservazione dell’edilizia storica. In una logica in cui la diversità e l’ano-malia vengono considerate come ricchezza non vi può essere la spasmodica attenzione al difetto, all’errore.

Per inciso si vuol qui sottolineare come l’impostazione del tema della manutenzione sia stato spesso lega-to a considerazioni ambientalistiche di risparmio e di gestione oculata delle risorse, tradottesi nei concetti di guasto, anomalia e simili, funzionali ad avallare l’unica pratica veramente consueta: la sostituzione alla fine (?) del ciclo di vita utile (dove l’utilizzo non casuale dei termini indica ambiti di appartenenza ben diversi).

Si noti del resto che l’idea espressa attraverso la proposizione «ciclo di vita utile» è basata sul concetto di costante sostituzione di ciò che decade all’interno di un meccanismo che deve continuare a funzionare.

Per definizione la macchina è priva di vita, ecco perché la sostituzione delle parti ci pone problemi relativi.

Dove ci sia, o dove si riconoscano, qualità e vita non è dato il concetto di inutilità, tanto che in medicina, per considerare il campo più ovvio, non si valuta il ciclo di vita utile degli organi quanto la necessità della sostituzione o dell’intervento, la cui mancata attuazione ingenererebbe conseguenze letali. D’altro canto è or-mai riconosciuto, anche se solo per beni monumentali, che la loro qualità, il riconoscimento

dell’importan-12G. Carbonara, Restauro e colore della città, •città• 1988.

13Si veda, ad esempio, R. Di Giulio, Manuale di manutenzione edilizia. Valutazione del degrado, programmazione e interven-ti di manutenzione, Rimini 1999.

za che rivestono, è intessuta anche di considerazioni che esulano da una logica efficientista. La soglia che stabilisce il tempo dell’intervento di riparazione o restauro viene così a essere determinata da un criterio di necessità volto a impedire principalmente condizioni di aumento del degrado.

Sono dunque inaffidabili le stime di durabilità per elementi antichi, o per sistemi in cui collaborano ele-menti antichi e moderni, spesso in forme mai prima sperimentate. Pertanto, la frequenza ottimale dei con-trolli sulle modalità d’uso, ma soprattutto delle operazioni manutentive a carattere preventivo o protettivo, non può, allo stato delle conoscenze14, essere rigorosamente predeterminata. In fase iniziale si prescriverà una tempistica basata su considerazioni di opportunità, legando controlli e interventi ai tempi delle altre ispe-zioni; successivamente la frequenza ottimale si conseguirà, by trials and errors, sulla base delle osservazio-ni, correggendo il calendario in funzione delle risultanze.

Per concludere, il programma di conservazione ha un’innegabile e forte parentela con quanto la posi-zione conservativa ha finora espresso. In particolare sembra sintetizzare il concetto chiave che sostituisce al-l’idea di una soluzione sicura e stabile (l’intervento di restauro) una più provvisoria ma costante pratica del-l’ascolto, che si traduce in minime cure assidue, rese possibili unicamente dalle più varie forme di cono-scenza. Bisogna ricordare, però, che «l’utopia, che guarda al futuro con un’etica terapeutica, dove i mali si eliminano tramite il controllo razionale degli effetti, ha bisogno di tanto futuro»15.

14Sull’applicabilità all’edilizia degli studi affidabilistici si rimanda a C. Molinari, Procedimenti e metodi della manutenzione edilizia. La manutenzione come requisito di progetto, Napoli 2002, pp. 111-115: la considerazione che si può fare in merito alla va-lutazione del «rischio» proposta da Molinari è che l’estrema difficoltà di uno studio di affidabilità su componenti antichi e comun-que di produzione artigianale potrebbe essere compensata in molti casi dalla gravità degli effetti, essendo in gioco la perdita di te-stimonianze uniche e irripetibili.

15U. Galimberti, «Basaglia sulla nave dei folli», la Repubblica, 8 marzo 2000, p. 47.

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Premessa

Sembra impensabile che un organismo architettonico evoluto e complesso, oggi, sia privo di consistenti im-pianti tecnologici. Si può immaginare un impianto, o meglio un «sistema impianto», formato da moltissimi componenti e sottosistemi, come una rete linfatica che si ramifica e trasporta fluidi e gas, informazioni e im-pulsi. Tutti i componenti devono lavorare in sinergia perfetta per raggiungere un obbiettivo comune, defini-to come «prestazione». Nel caso degli impianti, l’aspetdefini-to prestazionale è determinante e condiziona in modo decisivo le scelte. La normativa, ma anche le esigenze d’uso, impone prestazioni minime che l’impianto de-ve garantire. Pur in un contesto monumentale, l’aspetto delle prestazioni rimane dominante rispetto agli al-tri valori: se per un serramento che non garantisce i requisiti di perfetta tenuta si può optare per la conser-vazione accettando una qualità prestazionale inferiore, un impianto che non rispetti i requisiti per i quali è progettato viene solitamente dismesso e sostituito: spesso non viene neanche valutata l’ipotesi di un’integra-zione funzionale o dimensionale, e talvolta non è neppure possibile l’affiancamento di un impianto nuovo al vecchio, dismesso ma non rimosso.

I requisiti che gli impianti devono soddisfare sono in evoluzione rispetto alle modalità d’uso e alle esi-genze di comfort; anche per questo, benché da sempre gli edifici siano muniti di impianti1, quelli oggi in esercizio sono generalmente del tutto estranei al sistema tecnologico in generale. A ciò contribuisce un altro

I requisiti che gli impianti devono soddisfare sono in evoluzione rispetto alle modalità d’uso e alle esi-genze di comfort; anche per questo, benché da sempre gli edifici siano muniti di impianti1, quelli oggi in esercizio sono generalmente del tutto estranei al sistema tecnologico in generale. A ciò contribuisce un altro

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