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Il difficile rapporto Stato-Regioni

3. I discostamenti dalla disciplina legislativa nell’emergenza sanitaria da Covid-19

3.1. Il difficile rapporto Stato-Regioni

La rapida diffusione del virus Covid-19 e, quindi, la necessità di adottare azioni unitarie e tempestive, ha indotto il Governo a regolare differentemente la partecipazione delle Regioni rispetto alla disciplina originariamente prevista.

L’art. 25 del decreto legislativo n. 1 del 2018 prevede che per l’emanazione delle ordinanze di protezione civile vi debba essere l’acquisizione dell’intesa con le Regioni e le Province autonome territorialmente interessate. L’intervento delle Regioni in materia di protezione civile è stato legittimato e delimitato, inoltre, dalla legge istitutiva del servizio sanitario nazionale e in più occasioni dalla Corte costituzionale. In particolare, la Consulta ha evidenziato come “anche in situazioni di emergenza la Regione non è comunque estranea, giacchè, nell’ambito dell’organizzazione policentrica della protezione civile, occorre che essa stessa fornisca l’intesa per la deliberazione del Governo e, dunque, cooperi in collaborazione leale e solidaristica”,

Regioni, anche in melius. Il quadro normativo in caso di emergenza sanitaria, in merito al rapporto tra ordinamento statale e ordinamento regionale, sembra ben definito: “leale collaborazione tra ordinamenti ed azione regionale di natura attuativa ed esecutiva, nel rispetto di quanto formulato a livello statale”.

L’attuale emergenza sanitaria è stata tuttavia caratterizzata da un’insoddisfacente cooperazione istituzionale, che ha sollevato dubbi sia in ordine alla legittimità delle ordinanze dei Presidenti delle Regioni sia in merito al collegamento tra principio gerarchico e separazione delle competenze.

Se si guarda in concreto come si è dipanata la situazione emergenziale tra i mesi di febbraio e marzo, si osserva che nei primissimi momenti dell’emergenza sanitaria si è fatto concretamente ricorso alla normativa sub costituzionale di cui al decreto legislativo n. 1 del 2018 e alle disposizioni contenute nella legge n. 833 del 23 dicembre 1978 in tema di potere di ordinanza.

Di fatto, la dichiarazione dello stato di emergenza del 31 gennaio 2020 ha legittimato la possibilità di esercitare, da parte del Capo Dipartimento della protezione civile, un potere di ordinanza e, negli stessi giorni, in conseguenza del progressivo aggravarsi della situazione sanitaria, alcuni provvedimenti sono stati prodotti tanto dallo Stato quanto dalle Regioni, sulla base della normativa di cui alla legge n. 833 del 1978. Segnatamente, si fa riferimento alle ordinanze del Ministero della Salute, adottate d’intesa con le Regioni interessate, e alle ordinanze emanate da alcune Regioni sulla base dell’art. 32 della legge summenzionata.

Se nella fase iniziale dell’emergenza sanitaria il Governo italiano si è avvalso della disciplina prevista dal Testo Unico in materia di protezione civile, in un secondo momento, sulla base della considerazione che il contenimento e la gestione dell’epidemia dovessero essere perseguite analogamente per tutto il Paese, l’Esecutivo ha scelto di mantenere a livello centrale le misure necessarie per evitare il contagio, lasciando solo alcuni e circoscritti poteri alle Regioni. Si è assistito, infatti, all’adozione dei primi decreti-legge, i quali, oltre ad alterare fortemente il quadro degli strumenti in materia di provvedimenti sanitari, hanno aperto “baratri pericolosi in ordine al rapporto con gli atti di natura regionale e, in senso più ampio, in merito al rapporto tra ordinamento statale e ordinamento regionale”.

A partire dal 23 febbraio 2020, prima con il decreto-legge n. 6 del 2020 e poi successivamente con il decreto-legge n. 19 del 2020 e una serie di decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, il Governo italiano ha scelto, dunque, di intraprendere una strada in parte diversa dalla prima, per circoscrivere il potere regionale di adottare ordinanze nelle loro materie in merito alla situazione di crisi.

Dal punto di vista delle fonti, per l’attuazione delle misure di contenimento del virus, è stato così valorizzato l’impiego del decreto-legge e dello strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, d’altro canto, sul piano delle competenze, l’Esecutivo ha beneficiato delle competenze esclusive in materia di “ordinamento e organizzazione dello Stato e degli enti pubblici nazionali”, “ordine pubblico e sicurezza” ai sensi dell’art. 117, comma 2°, lett. g) e h) della Costituzione; e delle competenze nelle materie concorrenti “tutela della salute” e

“protezione civile” ai sensi dell’art. 117, comma 3° della Costituzione.

Si è assistito così a un duro scontro istituzionale tra il Governo centrale e i Presidenti delle Regioni, agevolato dalla formulazione ambigua del decreto-legge n. 6 del 23 febbraio 2020, rubricato “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, il quale, pur presupponendo e utilizzando in parte il T.U. in materia di protezione civile, lo ha modificato in profondo creando in particolare un apposito sistema di produzione normativa. L’art. 2 del suddetto decreto attribuisce alle “autorità competenti” il potere di adottare ulteriori misure rispetto a quelle specificamente indicate dall’art. 1. Il decreto distingue, così, le misure urgenti c.d. ordinarie, di cui all’art. 1, dalle misure ulteriori o straordinarie, di cui all’art. 2, nei casi diversi dall’ordinario. Si tratta di una previsione molto complessa e ambigua che, proprio per tale motivo, è stata oggetto di emendamento dalla legge di conversione dello stesso decreto. L’art. 3, comma 1° stabilisce che le misure di gestione e contenimento di cui agli artt. 1 e 2 sono adottate con uno o più D.P.C.M., su proposta del Ministro della salute, sentiti il Ministro dell’interno, il Ministro della difesa, il Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri Ministri competenti per materia, nonché i Presidenti delle Regioni competenti e delle Province autonome, nel caso in cui esse fossero estese a tutto il territorio nazionale. Come si può notare, rispetto al sistema delle intese, in applicazione del Codice della protezione civile, si è previsto un tipo di collaborazione molto più attenuata.

L’art. 3, comma 2° prevedeva poi che, nelle more dell’adozione dei predetti D.P.C.M., nei casi di estrema necessità e urgenza, le misure in esame potessero essere adottate con ordinanze del Ministro della salute, delle Regioni e dei Sindaci, emanate in base alle norme ivi richiamate. La genericità della disposizione ha facilitato il proliferare di provvedimenti emanati dai Presidenti delle Regioni sotto forma di ordinanze contingibili e urgenti che, talvolta, hanno disposto misure restrittive della libertà dei cittadini ancora più restringenti rispetto alle misure statali e, quindi, in contrasto con le stesse.

La scelta di costruire un impianto ad hoc proprio di una situazione di eccezione, ha inaugurato un metodo inedito e precario di usare le fonti del diritto e le decisioni amministrative, provocando una frattura nel rapporto di collaborazione instauratosi tra lo Stato e le Regioni per l’attuazione dei provvedimenti adottati dal Dipartimento della protezione civile e dal Ministero della Salute. Si nota, infatti, che il Codice della Protezione Civile è stato quasi fin da subito accantonato nelle decisioni legate alla situazione socio-economica assunte direttamente al Presidente del Consiglio dei Ministri, con progressiva esclusione di altri livelli di Governo, mediante l’adozione di decreti-legge, D.P.C.M. e ordinanze del Ministro della Salute. In questa inedita sequenza le ordinanze dei Presidenti delle Regioni e dei sindaci sono state concesse unicamente nell’ambito del limitato perimetro lasciato scoperto dai provvedimenti nazionali.

Con la legge di conversione del decreto-legge n. 6 del 2020 vengono apportate poche, ma significative, modifiche agli artt. 2 e 3 del suddetto decreto. Per quanto concerne l’art. 2 si precisano i riferimenti alle autorità competenti a provvedere, che in precedenza risultavano generici, specificando che essi devono essere letti nel quadro dei poteri attribuiti al Presidente del Consiglio dei Ministri, come disposto dal comma 1° dell’art. 3, e agli altri poteri previsti espressamente nel successivo comma 2°. Inoltre, all’art. 3 viene precisato che, nelle more dell’adozione dei D.P.C.M., le misure eventualmente adottate dai Presidenti delle Giunte

regionali e dai sindaci perdono efficacia se non comunicate al Ministro della salute entro ventiquattro ore dalla loro adozione. È in tale disposizione che si nota la poca coordinazione e la disorganicità dell’impianto normativo costruito a partire dal decreto-legge n. 6, dal momento che essa si presta a creare “cortocircuiti normativi” di cui i primi a subirne gli effetti sono proprio i cittadini, che potrebbero ignorare che un provvedimento regionale già pubblicato e in vigore debba ritenersi inefficace a causa di una previsione di legge di questo genere.

Al fine di porre rimedio alla situazione di incertezza e alla crescente diffusione dell’epidemia, il Governo italiano è intervenuto con il decreto-legge n. 19 del 25 marzo 2020. Esso abroga il precedente decreto-legge n. 6 del 2020 e introduce una definizione particolareggiata ed esaustiva di tutte le misure applicabili per fronteggiare l’emergenza. Tale decreto-legge, oltre ad avere il merito di predeterminare, in modo più dettagliato, la tipologia di restrizioni che possono essere arrecate alle libertà ed ai diritti fondamentali, pone in risalto la concreta intenzione di semplificare e rendere più chiari i rapporti tra Stato e Regioni.

In primo luogo, l’art. 1 del sopracitato decreto-legge prevede la durata di soli trenta giorni delle misure limitative delle libertà, le quali, a differenza del precedente decreto, vengono elencate tassativamente e sottoposte ai principi di proporzionalità e adeguatezza rispetto al rischio concretamente presente. L’art. 2, nel ribadire che le misure di cui all’art. 1 sono adottate con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, richiede che siano previamente sentiti i Presidenti delle Regioni, laddove sia interessata una determinata Regione, o il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, qualora l’intervento coinvolga l’intero territorio nazionale. Questa disposizione, pur individuando nelle Regioni un “legittimo soggetto promotore dei decreti del Presidente del Consiglio”, sottintende che la gestione della situazione emergenziale è in mano all’Esecutivo. Il secondo comma dell’art. 2 prevede che in casi di estrema necessità e urgenza, nelle more dell’adozione dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, di cui al comma 1°, il Ministro della Salute può adottare, con ordinanze di carattere contingibile e urgente, ai sensi dell’art. 32 della legge n. 833/1978, le misure previste dall’art. 1 del decreto in esame. Questo segna una notevole differenza rispetto al decreto-legge n. 6 del 2020, poiché di fronte alle numerose ordinanze regionali e comunali il Governo “è corso ai ripari chiudendo i rubinetti del potere di ordinanza di comuni e regioni”. Il successivo art. 3, comma 1°, invece, regola il rapporto tra le misure adottate con i decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri per fronteggiare l’emergenza Coronavirus e i provvedimenti degli enti territoriali posti in essere per tale finalità. L’articolo consente alle Regione l’imposizione di misure maggiormente restrittive nella sola ipotesi in cui sussistano specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, limitatamente al tempo necessario per intervenire attraverso lo strumento ordinario del D.P.C.M.

Il fine di tale articolo è quello di rafforzare il potere di coordinamento statale nella gestione dell’emergenza, con l’obiettivo di evitare che l’efficacia delle misure statali possa essere ridotta da iniziative concorrenti degli altri livelli territoriali.

Dunque, ne emerge un quadro alquanto articolato, nel quale devono trovare spazio tanto le istanze centrali, quanto le specifiche istanze locali. In tal senso, la forma prescelta dal Governo per coinvolgere le Regioni nel procedimento amministrativo, volto ad individuare le misure di

contenimento del contagio, non sembra convincere pienamente. E in effetti, la modalità prevista dal decreto-legge n. 19 “sembra potersi ricondurre alla forma del parere obbligatorio, che rischia di impedire l’effettività di un confronto tra i vari livelli di Governo coinvolti”.

La confusione venutasi a creare nei rapporti Stato-Regioni avrebbe dovuto indurre l’amministrazione centrale a valutare con più attenzione gli strumenti di raccordo, anche e soprattutto nell’ottica di una leale collaborazione. Nel caso di specie il principio di leale collaborazione ha trovato qualche spazio di applicazione ed è stato assicurato attraverso tale schema: i provvedimenti diretti a regolamentare la materia devono essere adottati sentiti i Presidenti di Regione coinvolti o il Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, o su loro proposta, senza intese formalizzate che risulterebbero inconciliabili con le tempistiche necessarie nelle situazioni emergenziali. Nella gestione dell’emergenza Coronavirus, tuttavia, le seguenti forme di coordinamento non sono state sufficienti. I provvedimenti del Governo avrebbero dovuto implicare una maggiore collaborazione con le autorità periferiche, in considerazione del fatto che le stesse dovrebbero conoscere più a fondo le peculiarità delle singole aree, dunque le relative esigenze. Nei rapporti tra poteri centrali e poteri locali non si può prescindere “dalla presenza e dal buon funzionamento di spazi e strumenti efficienti di collaborazione”, che nella situazione emergenziale Coronavirus non pare abbiano trovato compiuta espressione.

Accanto alle ordinanze statali di protezione civile, il decreto legislativo n. 1 del 2018 introduce, ai sensi dell’art. 25, comma 11°, le ordinanze regionali. Si tratta di provvedimenti che possono derogare alle leggi, anche se dal combinato-disposto fra l’art. 25, comma 11° e l’art. 24, comma 7° risultano subordinate alle direttive di protezione civile. Nella disposizione non vi sono riferimenti ai limiti rappresentati dai principi generali dell’ordinamento giuridico e dalle norme dell’Unione europea, né si precisa che le ordinanze regionali debbano indicare le principali norme cui intendono derogare ed essere specificamente motivate. Il motivo di tale lacunosità si può rintracciare “nel timore, da parte della norma primaria statale, di invadere la sfera di competenza regionale”, in una materia di competenza legislativa concorrente quale è la protezione civile. Il decreto legislativo n. 1 del 2018 specifica, infatti, che è nell’esercizio della propria potestà legislativa che le Regioni e le Province autonome possono definire provvedimenti analoghi alle ordinanze di protezione civile, mantenendo quale sfondo l’art. 117, comma 1° della Costituzione, per cui la potestà legislativa, statale e regionale, è esercitata nel rispetto della Costituzione, dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Oltre al Codice della Protezione Civile, anche la legge n. 833 del 1978 attribuisce alle Regioni rilevanti poteri nelle situazioni emergenziali interessanti la salute. L’art. 32 della suddetta legge statuisce che “in materia di igiene e sanità pubblica, di vigilanza sulle farmacie e di polizia veterinaria, sono emesse dal Presidente della giunta regionale e dal Sindaco ordinanze di carattere contingibile ed urgente, con efficacia estesa rispettivamente alla Regione o a parte del suo territorio comprendente più̀ comuni e al territorio comunale”.

Alla luce di quanto accaduto nella gestione dell’emergenza Coronavirus è possibile osservare che, sul piano pratico, il ridimensionamento dei poteri regionali di ordinanza non ha prodotto significativi risultati. Nel caso di specie, sono state adottate molte ordinanze regionali e queste si

sono sovrapposte agli ambiti che i decreti-legge riconoscono alla competenza dei decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Molti di questi interventi non sembrano essere riconducibili allo schema normativo predisposto: possibilità di emanare ordinanze regionali solamente nelle more dell’adozione dei D.P.C.M., ossia nel periodo che precede l’emanazione di tali decreti, e la loro efficacia è condizionata al fatto di essere recepiti da un successivo atto del Presidente del Consiglio, la cui emanazione segna anche il limite temporale della loro efficacia.

Ciò nonostante, non vuol dire che, una volta adottati i decreti governativi, non possa essere adottata alcuna ordinanza regionale, ma il potere di ordinanza in questione non deve incidere in settori già disciplinati dalle disposizioni normative emergenziali dello Stato, rimanendo libero di intervenire solo nei settori lasciati scoperti e di fronte a particolari esigenze locali.

Si ritiene che questa situazione di decentramento non troppo ordinato sia da ascrivere ai caratteri singolari dell’emergenza sanitaria: sia sul piano fattuale, poiché la pandemia costituisce un’emergenza di livello nazionale, ma dà anche luogo a situazioni differenziate territorialmente in termini di estensione del contagio; sia dal punto di vista delle competenze costituzionali coinvolte, dal momento che se è vero che le competenze esclusive statali sono evocabili a sostegno di “una attrazione di competenze amministrative al centro”, è altresì vero che, nella situazione emergenziale da Coronavirus, svariate sono le competenze regionali interessate.

Questo intreccio di competenze ha prodotto, nell’attuazione dei decreti-legge, una situazione piuttosto confusa sul piano della normativa e, sicuramente, non priva di aree di accavallamento tra le competenze statali e regionali.

Il decreto-legge n. 19 del 2020 ha introdotto ulteriori precisazioni per quanto concerne le ordinanze regionali. Nell’ipotesi in cui un’ordinanza regionale risulti non rispondente alle previsioni statali, per poter essere considerata legittima deve osservare i limiti imposti dalla decretazione d’urgenza dettata a livello statale: l’ordinanza regionale deve basarsi su un peggioramento sopraggiunto della situazione emergenziale; la sua efficacia temporale deve essere circoscritta nell’adozione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri; infine, deve prevedere misure tipizzate dal D.P.C.M. e unicamente in senso maggiormente restrittive di quelle adottate a livello nazionale. Qualora l’ordinanza regionale non rispetti le suddette condizioni, il Governo può annullare, sentito il Consiglio di Stato, d’ufficio o su denunzia, gli atti degli enti locali viziati da legittimità, con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri e su proposta del Ministro dell’interno. Inoltre, il Governo può impugnare dinanzi ai TAR le ordinanze regionali chiedendone, se del caso, la sospensione e l’annullamento nella parte in cui risulta contrastante con il D.P.C.M..

Con il sovrapporsi degli atti adottati dal Governo e dagli enti locali per fronteggiare la situazione emergenziale Coronavirus è sorto un ricco contenzioso. I decreti-legge e i molteplici decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri hanno lasciato aperto uno spazio che è stato sfruttato dai Presidenti di Regione ed anche dai Sindaci: in alcuni casi, per incontrovertibili esigenze locali; in altri, sulla base di invocate ragioni di contenimento, ulteriori rispetto a quanto prescritto dai D.P.C.M. Diverse ordinanze regionali e sindacali sono state oggetto di ricorsi giurisdizionali davanti al giudice amministrativo, perché accusate di essere incompatibili con quanto disposto dai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri e di oltrepassare i limiti di validità ad esse

posti. In questa situazione i Presidenti dei TAR e delle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato si sono trovati “nell’imbarazzante posizione di destinatari di richieste cautelari di alto impatto politico-sociale, da decidere in solitudine, senza le garanzie del contraddittorio, e con udienze camerali per forza di cose non ravvicinate nel tempo”.

La vicenda che ha coinvolto la Regione Marche ne è un esempio. Il 25 febbraio 2020, il Presidente di tale Regione ha firmato un’ordinanza con la quale si stabiliva, tra le altre cose, la chiusura degli istituti scolastici, adottando così una misura più restrittiva rispetto a quanto previsto a livello nazionale. Ciò ha portato la Presidenza del Consiglio dei Ministri a presentare un ricorso al TAR Marche, chiedendo che l’ordinanza in questione venisse annullata, previa sospensione dell’efficacia. In particolare, la Presidenza del Consiglio dei Ministri sosteneva che l’ordinanza fosse stata emessa in assenza del presupposto individuato dall’art. 1, comma 1° del decreto-legge n. 6 del 2020, ossia che nella zona risultasse positiva almeno una persona. Il 27 febbraio il TAR Marche con decreto motivato urgente ha accolto l’istanza cautelare e sospeso gli effetti del provvedimento impugnato, disponendo la riapertura delle scuole ed università. Nel motivare la concessione della sospensiva, il TAR svolge tre considerazioni: al momento dell’adozione dell’ordinanza non v’erano contagi confermati sul territorio marchigiano; non rilevano gli eventi sopravvenuti, ossia i contagi di lì a poco accertati; infine, le ulteriori misure di cui all’art. 2 non potrebbero intendersi invasive e restrittive in misura eguale a quelle previste dall’art. 1. Successivamente, il 4 marzo 2020, il TAR Marche ha accolto, in Camera di consiglio, la domanda cautelare e fissato per il 13 gennaio 2021 l’udienza di trattazione del merito.

Dalle decisioni monocratiche fino ad ora assunte, per lo più di rigetto, emerge che è stato ritenuto sussistente un “margine per integrazioni territoriali su scala regionale in rapporto alle assai diverse situazioni del contagio e delle sue prospettive da Regione a Regione”, e che molte prescrizioni regionali, più restrittive rispetto a quelle statali, sono state considerate ammissibili qualora vi sia l’esigenza di prevenire in ogni modo il rischio di contagio. All’opposto, però, “si censura un’attenuazione non giustificata o prematura delle prescrizioni statali, alla luce dei vincoli stabiliti dalla normativa emergenziale”.

Dalle decisioni monocratiche fino ad ora assunte, per lo più di rigetto, emerge che è stato ritenuto sussistente un “margine per integrazioni territoriali su scala regionale in rapporto alle assai diverse situazioni del contagio e delle sue prospettive da Regione a Regione”, e che molte prescrizioni regionali, più restrittive rispetto a quelle statali, sono state considerate ammissibili qualora vi sia l’esigenza di prevenire in ogni modo il rischio di contagio. All’opposto, però, “si censura un’attenuazione non giustificata o prematura delle prescrizioni statali, alla luce dei vincoli stabiliti dalla normativa emergenziale”.