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3. LA SCIENZA DEL NUMERO

3.6. La difficoltà di essere buoni

L’esposizione sull’importanza del numero per l’uomo, la sua relazione con i principali moti celesti e l’alternanza stagionale da essi derivante appare ormai conclusa, tanto che l’Ateniese sceglie di richiamare l’attenzione dei suoi interlocutori su un discorso fatto in precedenza:

Ora, nella nostra ricerca sulle leggi (zhtoàsin perˆ nÒmwn) ci è parso facile per l’uomo conoscere il meglio in ogni altro campo, e che chiunque è capace di conoscere e fare ciò che dicevamo, se conoscesse ciò che sembra possa giovare e quello che non può giovare. Ci è parso, dunque, e ci sembra ancora, che tutte le altre ricerche (™pithdeÚmata) non fossero molto difficili, ma che fosse molto arduo conoscere in che modo diventare uomini buoni (crhstoÝj ¢nqrèpouj). Il possesso di tutte le altre cose buone (crhst£), come si è detto, è possibile e non è difficili da avere (dunatÕn kaˆ oÙ

calepÒn): ossia quale sostanza si debba o no possedere, che cosa un corpo debba

avere o non avere (979 B 3 – C 5).

In un precedente discorso, parlando delle leggi, i tre interlocutori si erano trovati d’accordo nel sottolineare l’importanza di conoscere il meglio in ogni circostanza: ma, se è vero che in alcuni ambiti questo era apparso assai semplice, in altri casi lo era di meno: la vera difficoltà, infatti, non è tanto quella legata al possesso e alla gestione dei beni materiali, quanto quella di essere in grado di «rendere un uomo virtuoso»195.

Ed è infatti proprio in questa direzione che prosegue l’argomentazione: Per quanto concerne l’anima, si trovano ad essere tutti concordi nel ritenere che essa deve essere buona (¢gaq»n), ed anche in che modo debba essere buona (¢gaq»n) ossia giusta (dika…an), temperante (sèfrona), coraggiosa (¢ndre…an) e inoltre sapiente (sof»n), tutti lo dicono, ma quale sia questa sapienza (sof…an), come dicevamo poco fa, non c’è nessuno fra tutti che riesce a concordare con nessun altro (979 C 5 – D 2).

Come si era detto nella ricerca sulle leggi196, la vera difficoltà consiste nell’essere in grado di determinare come rendere un uomo buono. Tuttavia, tutti sono concordi nell’affermare che l’anima dev’essere buona e che, perché sia tale, deve possedere giustizia, temperanza, coraggio e sapienza: quando però si tratta di definire in che modo vada declinata questa sapienza, non si è in grado di raggiungere una posizione univoca197.

195 Harward, The ‘Epinomis’…, p. 119. Nell’Epinomide non si è affrontato quest’argomento e, quindi, l’unico riferimento possibile può trovarsi nelle Leggi. Infatti, Specchia vede «un evidente riferimento alle Leggi I, 631 C sgg., dove sono enumerati i beni umani: salute, bellezza, forza, ricchezza» (‘Epinomis’…, p. 88). Anche Tarán vede una relazione in senso lato alle Leggi, senza però la possibilità di «rintracciare un luogo definito» (Academica…, p. 252), in cui il problema principale era quello di rendere un uomo buono: «questo perché solo l’essere pienamente buoni garantisce la felicità» (Academica…, p. 251).

196

Cfr. nota precedente.

197 È quindi interessante notare che nuovamente, come nel passo 977 B 9 – D 4, il discorso sulla virtù che viene proposto ha una connotazione eminentemente platonica e l’autore dell’Epinomide dà per scontato che il lettore conosca e comprenda l’importanza delle virtù qui elencate, della loro stretta e sottesa relazione con l’anima, come se questi fossero argomenti noti e in sé evidenti, tanto da non aver bisogno di ulteriori argomentazioni a supporto. Inoltre si vede come questa sapienza, oltre ad avere una forte valenza in ambito politico (976 C 7 – D 5), la debba avere anche in ambito etico.

L’Ateniese giunge così alla conclusione di questa sua analisi:

Ora, dunque, rispetto a tutti i tipi di sapienza (sof…aj) precedentemente considerati ne abbiamo scoperto un altro non da poco ai fini della nostra indagine, e cioè che sembra (doke‹n) essere sapiente colui che possiede quelle nozioni di cui abbiamo discusso; bisogna fare ora un discorso su questo per vedere se sia sapiente (sofÒj) e buono (¢gaqÒj) colui che possiede tali scienze (™pist»mwn) (979 D 2-6).

Vengono qui ricapitolati i punti cardine del discorso condotto fino a questo punto, dichiarando esplicitamente come i risultati fin qui conseguiti siano però bisognosi di un ulteriore approfondimento. Si era convenuto che la scienza del numero fosse quel sapere fondamentale in sé e per tutte le altre scienze, tuttavia, essa, sebbene sembra sia in grado di rendere l’uomo sapiente, non pare sufficiente. Alla luce di queste considerazione, l’Ateniese fa un’ulteriore precisazione osservando che è ora necessario valutare se, colui che possiede tali scienze sia non solo sapiente, ma anche buono198.

Con questa battuta possiamo dire che si conclude la prima sezione del dialogo, infatti, prima di procedere nell’approfondimento del discorso, vi è un breve scambio interlocutorio di battute tra Clinia e l’Ateniese.

*

Riprendendo brevemente le fila del discorso fatto dall’Ateniese fino a qui, possiamo affermare che, anche nel caso della conoscenza del numero, – così come in precedenza si era detto per i possessori delle tecniche (975 B 3; 975 D 1; 976 A 4; 976 B 5; 976 C 4) – coloro che la possiedono sembrano (doke‹n) sapienti, ma non vengono riconosciuti pienamente tali. Questo ci consente di asserire che la prima parte dell’analisi, quella dedicata all’esame di quelle tecniche che, in passato, hanno reso sapienti i loro possessori, sia stata funzionale per la ricerca del «fondamento – diremo noi – di tipo epistemologico ed ontologico»199 di queste conoscenze: la movenza è verso le radici del sapere umano, fino a giungere alla conoscenza del numero, che, tolta al genere umano, precluderebbe ogni altra possibilità di conoscenza (976 D 1-3). Ma l’iniziale proposito d’indagine non può considerarsi concluso. Infatti, dopo questa discesa verso il fondamento, ci si appresta a compiere un movimento contrario, ovvero si cercherà ora di determinare l’apice del sapere. Ecco che allora la scienza del numero può solo dare la parvenza di sapienza al suo possessore, se confrontata con il vero sapere che si sta

198 Tarán (Academica…, p. 254) e anche Harward (The ‘Epinomis’…, p. 119) ritengono che le scienze a cui si allude siano l’aritmetica e l’astronomia. Per quanto riguarda il riferimento all’aritmetica possiamo essere d’accordo, ma nel testo non compare mai, almeno fino a questo punto, il termine astronomia e quindi non siamo autorizzati a pensare che in questa sede l’autore stia accennando ad essa. Riteniamo piuttosto che qui l’autore stia alludendo a quelle che, al termine della trattazione, saranno le discipline che le nature migliori dovranno apprendere (989 D 6 – 992 A 3). Infatti, sembra poco plausibile pensare che, dopo aver esaminato singolarmente le scienze che in passato avevano dato la fama di sapiente al suo possessore ed averle ritenute inadeguate, esse si riconsiderino ora per vedere se sono in grado di rendere un uomo sapiente e buono.

ricercando e non è ancora stato trovato. E questo sapere è a tal punto superiore a tutti gli altri che non vi può essere nessun uomo in grado di insegnarlo ad un altro uomo: solo un essere divino, il dio-cielo, ontologicamente superiore all’uomo, è in grado di farsi maestro a quest’ultimo. Inoltre gli uomini, pur avendo tutti la possibilità di osservare i moti celesti, non saranno tutti in grado di coglierne in egual misura l’essenza profonda ma, solo alcuni di essi ne saranno capaci.