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3. LA SCIENZA DEL NUMERO

3.5. Come abbiamo imparato a contare

Dopo aver mostrato il ruolo chiave del numero e come esso permei la vita umana, l’Ateniese si accinge ad esaminare in che modo l’uomo abbia appreso questo dono del cielo:

Andiamo a considerare questo preciso punto, ossia in che modo abbiamo imparato a contare (¢riqme‹n). Suvvia! Infatti, in che modo si è generato in noi l’uno e il due, noi che tra tutti gli esseri siamo i soli con queste capacità? La natura non ha concesso a molti altri viventi (zówn) di essere capaci di imparare dal padre (patrÒj) a contare (¢riqme‹n), mentre per prima cosa il dio stabilì per noi la capacità di comprendere ciò che ci viene mostrato, dopo che ce l’ha mostrato e continua a mostrarlo (978 B 7 – C 6).

Anche per quanto riguarda l’imparare a contare, come nel caso del dono del numero, l’uomo si trova in un condizione privilegiata rispetto agli altri viventi: è infatti il solo in grado di svolgere quest’attività183. Ma la capacità di contare deriva in primis dal dio – quello che in precedenza era stato chiamato ouranos (977 A 4; B 2), kosmos (977 B 2) e olimpos (977 B 2) e in questo passo ci si riferisce a lui chiamandolo pat»r (978 C 4)184: egli ci ha elargito la

182 Su questo tema si veda M.I. Santa Cruz, Facoltà dell’anima e persuasione, in Interiorità e anima, a cura di M. Migliori, L. Napolitano Valditara, A. Fermani, Vita & Pensiero, Milano 2004, pp. 255-274.

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Tarán rimarca il fatto che l’autore lascia intendere che vi possano essere altri viventi, oltre all’uomo, dotati della capacità di contare, infatti, «sicuramente le creature eteree e aeree devono conoscere il numero perché vengono definite come eÙmaqoàj (984 E – 985 A), e la stessa cosa può dirsi vera anche per i corpi celesti, questi esseri divini possiedono una perfetta conoscenza di tutto e per di più si muovono secondo il numero» ( Academica…, p. 245). Di opinione analoga a Tarán è Novotný, che intravede la possibilità che anche le altre tre specie animate intermedie possano avere questa stessa capacità (Platonis…., p. 99). Riteniamo plausibile la lettura proposta da Tarán e Novotný; siamo però convinti che in questa sede l’intenzione non sia tanto quella di proporre un ragionamento in verticale, quanto, piuttosto, in orizzontale: ovvero, non si vuole negare la presenza di esseri divini in grado di avere nozioni matematiche, si vuole invece sottolineare che l’uomo è il solo vivente terrestre a cui è stata data questa opportunità.

184 Novotný, (Platonis…, p. 99) nota giustamente come in precedenza ci si sia riferiti a questo dio chiamandolo

qeÒj o OÙranÒj, mentre è proprio nel Timeo che Platone si riferisce al Demiurgo chiamandolo “padre” (42 E 7);

anche Specchia propone una lettura analoga a quella fatta da Novotný (‘Epinomis’…, p. 86). Harward, al contrario, ritiene che il dio a cui qui si fa riferimento non sia OÙranÒj ma «il Creatore, l’autore sia del nostro essere sia di quello di Ouranos» (The ‘Epinomis’…, p. 118), interpretazione che, seguendo Tarán, riteniamo errata, dal momento che questo pat»r «dev’essere identico all’OÙranÒj di D 2, dato che questo qeÒj ci insegna il numero così come fa OÙranÒj , che è identificato con il cosmo a 977 B 2 e che aveva fatto dono all’uomo del numero» (Academica…, p. 246).

facoltà di capire e di apprendere quanto possiamo vedere e, proprio in questo modo, noi esseri umani siamo in grado di comprendere quanto il dio ci fa il dono di mostrarci.

Ed è infatti proprio a partire da questi fondamentali presupposti che l’Ateniese può proseguire chiedendosi:

cosa si potrebbe osservare (qe£saito) di più bello al di fuori del giorno (tÕ tÁj

¹mšraj gšnoj)? Poi si passa ad osservare la notte, che fa apparire tutto in modo

diverso. E dato che il cielo (oÙranÒj), nel suo movimento, non smette di far susseguire alle numerose notti numerosi giorni185, e non smette mai di insegnare agli uomini l’uno e il due, finché anche il più lento ad apprendere non abbia appreso in modo adeguato a contare (¢riqme‹n); infatti, il tre, il quattro e molti altri numeri (poll£), ciascuno di noi li potrà concepire osservando tali fenomeni (978 C 6 – D 5).

È quindi il cielo stesso a farsi maestro dell’uomo insegnandogli i primi rudimenti di aritmetica attraverso l’alternanza del giorno e della notte. Infatti, il loro susseguirsi fa sì che colui che osserva attentamente il cielo riesca a comprendere innanzitutto l’uno e il due e poi, proprio a partire da questa prima alternanza, comprenda che questo spettacolo si ripete quotidianamente. Inoltre, l’uomo accorto osserverà che all’interno del cielo vi sono altri movimenti celesti che gli consentono di apprendere anche i numeri successivi all’uno e al due186.

Questo passo sembra suggerirci che tutti, anche gli uomini meno dotati, possano venir istruiti dal dio su questi primi elementari rudimenti matematici. Questo aspetto del resto era stato sottolineato anche in precedenza (977 A 6 – B 1).

L’Ateniese prosegue poi la propria spiegazione affermando che:

Da questi <numeri> il dio ha costruito un’unità (ἕn) facendo la luna, la quale ora appare più grande (me…zwn), ora più piccola (™l£ttwn), e, facendo sempre apparire un altro giorno dopo aver compiuto il suo percorso in quindici giorni e quindici notti; ed è questa una rivoluzione (per…odoj), se si vuole fare dell’intero ciclo un’unità (kÚklon

›na Ólon), così che diciamo che il dio ha dato per natura la capacità di imparare anche

al più lento dei viventi (978 D 6 – E 5).

185 Tarán ritiene che qui sia «chiaramente implicito che la rivoluzione dell’ultimo cielo trasporta tutti i corpi celesti, dato che è proprio trasportando nel suo moto il sole che produce l’interminabile successione del giorno e della notte» (Academica…, p. 247). Ci sembra che la lettura di Tarán non tenga perché il testo dirà chiaramente che ogni astro muove da sé perché dotato di intelligenza (987 B 7 – C 1), mentre, in questo brano, ci si limita semplicemente a dare un spiegazione fenomenologica dell’apprendimento del numero da parte dell’uomo, basandosi sull’alternanza del giorno e della notte.

186 Nel Timeo troviamo un’affermazione analoga fatta dallo stesso Timeo: egli, elogiando il senso della vista, lo ritiene di fondamentale importanza perché «dei ragionamenti che ora vengono fatti intorno all’universo, nessuno sarebbe mai stato fatto, se noi non avessimo visto né gli astri, né il sole, né il cielo. Ora, invece, il giorno e la notte, in quanto sono visti, e i mesi, i cicli degli anni, gli equinozi e i solstizi hanno realizzato il numero e ci hanno fornito la nozione di tempo e la ricerca intorno alla natura dell’universo» (47 A 2-7). Anche nella Repubblica Socrate sottolinea l’importanza dell’osservazione del cielo per coloro che vogliono occuparsi di astronomia, ma, precisa che l’utilità di questa, come della geometria, risiede nel suo essere in grado di suscitare problemi, aggiungendo: «per il resto dovremo lasciar perdere gli astri del cielo, se davvero, applicandoci all’autentica astronomia, vorremmo strappare quella facoltà naturale della nostra anima, che è la ragione, dalla sua condizione di inattività, trasformandola in qualcosa di utile» (VII, 530 B 6 – C 1).

Il dio, dopo aver mostrato all’uomo l’alternanza del giorno e della notte, dandogli così la possibilità di imparare l’uno e il due, ha fatto in modo che egli imparasse anche il seguito della sequenza numerica. Per questa ragione ha riunito la molteplicità in un’unità attraverso la successione delle fasi lunari187: ciò consente di apprendere anche i numeri superiori al due vengano appresi grazie all’«osservazione delle differenti fasi della luna, da quella nuova fino a quando diventa piena»188. Ancora una volta, si sottolinea poi che questa successione numerica è facile da comprendere: questo perché il dio ha donato per natura a tutti gli uomini la capacità di apprendere queste semplici nozioni.

Con le osservazioni fatte fino a questo punto, l’Ateniese può quindi sostenere: Entro questi limiti e in questo modo, tutti i viventi che ne abbiano la capacità sono diventati capaci di numerare (¢riqmhtikÒn) contemplando ciò che in sé è uno (tÕ kaq'

›n aÙtÕ skopoàn); invece calcolare (log…zesqai) sempre i numeri in tutti i loro

rapporti (tÕ dὲ prÕj ¥llhla p£nta ¢riqmÒn) mi sembra sia fatto in vista di qualcosa di più grande (me…zonoj); e per questo, come abbiamo affermato, <il dio> generò la luna crescente e calante, facendo combinare i mesi per formare gli anni, e così, per una felice sorte (eÙda…moni tÚcV)189, si è cominciato a riconoscere tutti i numeri in rapporto agli altri (kaˆ p£nta ¢riqmÕn prÕj ¢riqmÕn ½rxato sunor©n) (978 E 5 – 979 A 6)190.

L’Ospite propone una sottile distinzione tra il contare (¢riqme‹n) e il calcolare (log…zesqai) precisando che tutti i viventi che si sono dedicati all’osservazione del cielo sono riusciti a conoscere i primi rudimenti aritmetici ricordati fino a questo punto. Il log…zesqai, è la capacità di cogliere le relazioni che intercorrono tra i numeri191: questa avrebbe un grado di

187 Specchia osserva che qui «la luna mostra l’avanzare dei giorni rispetto al sole il quale, invece, mostra l’alternarsi del giorno e della notte» (‘Epinomis’…, p. 87), inoltre precisa che la lunazione dura «29 giorni, 12 ore e 44 minuti; ma l’autore arrotonda senza far distinzione tra il mese sidereo e il mese lunare». Anche Harward nota che l’autore ha arrotondato il calcolo del mese lunare, in quanto «i due quarti della luna sono di circa sei ore più corti rispetto ai quindici giorni e alle quindici notti» (The ‘Epinomis’…, p. 118). Tarán ipotizza invece che in questo passo l’autore stia «criticando l’abitudine greca di dividere il mese in tre parti» (Academica…, p. 249), ma la lettura di Specchia e Harwad è più puntuale.

188 Tarán, Academica…, p. 248. Inoltre, l’autore ritiene che, «per imparare a contare fino a quindici è sufficiente osservare il giorno e la notte e le differenti fasi lunari, ciascuna in se stessa, ma per imparare a contare oltre il quindici dobbiamo stabilire relazioni tra i numeri» (Academica…, p. 250). La lettura di Tarán non ci convince. Infatti, non si capisce per quale ragione l’uomo, per poter contare oltre il quindici, abbia bisogno di stabilire relazioni tra numeri. Il senso di quest’espressione ci sembra diverso: qui l’autore può aver inteso che l’uomo ha appreso a conoscere l’uno e il due dalla semplice alternanza del giorno e della notte e che invece, grazie alle fasi lunari, abbia compreso che al due possono seguire altri numeri. Infine, dopo aver preso consapevolezza dell’esistenza di altri numeri, il dio ha fatto sì che i mesi lunari si susseguissero a formare gli anni, dando così la possibilità, a coloro che ne fossero in grado, di comprendere che i numeri possono essere posti i relazione tra loro, come si dirà nel passaggio immediatamente successivo (978 E 5 – 979 A 6).

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Quest’espressione non compare mai nei testi di Platone, ma Tarán ritiene che sia possibile assimilarla alla platonica qe…a tÚch (Academica…, p. 251).

190 Harward ritiene questo passo «uno dei più difficili nel dialogo» (The ‘Epinomis’…, p 119) ed anche Novotný ne parla come un «locus difficilissimus» (Platonis…, p. 104). Lo stesso Specchia vede in queste battute «uno dei passi più oscuri di tutto il dialogo», ritenendo che la difficoltà derivi «principalmente dal fatto che non si può con sicurezza stabilire il genere di p£nta di A1 e A4» (‘Epinomis’…, p. 87).

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Specchia riferendosi al verbo lo intende giustamente come “calcolare” e afferma che «tutta l’espressione, collegata alla precedente tÕ kaq' ἓn aÙtÕ skopoàn, implica un grado più elevato nello sviluppo della conoscenza dei numeri da parte dell’uomo: fin qui si è trattato di osservare i numeri come tali, ora invece si tratta

complessità maggiore e sarebbe successiva alla semplice facoltà di contare. Inoltre, la sua importanza è tale che da essere stata data in vista di «qualcosa di più grande»192. Affinché quindi, i viventi potessero sviluppare anche questa abilità, il dio fece in modo che i mesi fossero uniti a formare gli anni, mostrando in questo modo un’ulteriore relazione e complessità tra elementi.

Sulla base delle osservazioni fatte fino a questo punto, l’Ateniese può quindi concludere:

Per questo motivo la terra diviene per noi feconda e vi sono i frutti, ed è in grado di dare nutrimento (trof»n) a tutti i viventi (to‹j zóoij), a condizione che i venti e le piogge (Øetîn)193 non siano né eccessive (™xais…wn) né senza misura (¢mštrwn). Ma, se rispetto a queste cose qualcosa volgesse in male (flaàron), non bisogna ritenere responsabile la natura divina (qe…an) ma quella umana (¢nqrwp…nhn), che non amministra la propria vita in modo giusto (™n d…kV) (979 A 6 – B 3).

È proprio attraverso il susseguirsi dei mesi e degli anni che la terra è in grado di seguire il suo corso stagionale e di donare adeguato nutrimento ai viventi. Qualora però ci si trovasse in condizioni climatiche avverse, rispetto al loro naturale corso, non si dovrà ritenere responsabile il dio, ma si dovrà piuttosto incolpare l’uomo, dal momento che non è capace di vivere in modo conveniente. Si pone poi nuovamente l’attenzione sul fatto che il dio non possa essere causa di mali, ma solo di beni, come era stato affermato anche in precedenza (978 A 4-6), lasciando così all’uomo la responsabilità di entrare in sintonia con i ritmi della natura e del cosmo194.

di calcolare i numeri nel loro reciproco rapporto» (‘Epinomis’..., p. 88). La Cattanei ci aiuta a comprendere meglio la differenza tra arithmetike e logistike spiegando che «l’aritmetica studia i numeri in se stessi e le loro proprietà, mentre la logistike studia i numeri in rapporto reciproco e le proprietà dei loro rapporti. Chiaramente tra le due è basilare l’aritmetica» (Le matematiche…, p. 494). Inoltre, ricorda come la differenza che qui nell’Epinomide viene tracciata tra aritmetica e logistica è la stessa che compare anche «in diversi passi dei dialoghi di Platone» (‘Arithmos’…, p. 153).

192 Specchia ritiene che l’espressione sia «vaga» e ritiene che «questa “cosa più grande” per la quale la divinità organizzò i mesi nell’anno» sia l’astronomia (‘Epinomis’…, p. 88). Questa lettura viene condivisa anche da Tarán (Academica…, p. 250). A nostro avviso, invece, vista l’accortezza dell’autore nel segnalare il passaggio dalla molteplicità all’unità grazie all’osservazione della fasi lunari, la “cosa più grande” potrebbe essere la dialettica. Infatti, anche nel Timeo si dice che è a partire dall’osservazione del giorno e della notte e dalle alternanze stagionali che «ci siamo procurati il genere della filosofia» (46 B 1), filosofia che, per Platone, è sinonimo di dialettica.

193 Tarán nota come questo termine sia di uso omerico e in Platone sia un hapax (Academica…, p. 250).

194 Harward commenta il passo sostenendo che «l’uomo è dotato di intelligenza ed è da lui usata per selezionare l’ambiente. Se compie degli errori deve assumersene le conseguenze» (The ‘Epinomis’…, p. 119) e, similmente, Specchia precisa che «l’uomo, dotato di intelligenza, subirà le conseguenze degli errori che potrà commettere, non adeguando il proprio modo di vivere ai criteri di giustizia» (‘Epinomis’…, p. 88). Anche nella Repubblica, sebbene in un contesto differente, si sottolinea la bontà dell’operato divino, precisando che il dio, in quanto buono, produce solo effetti positivi (II, 379 B-C) e non ha colpa (qeÕj ¢na…tioj; X, 617 E 1) delle sventure umane.