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1.1. Lo scopo dell’indagine

CLINIA: Come d’accordo, Ospite, siamo giustamente venuti tutti, noi tre, io tu e il qui presente Megillo, per esaminare la questione del sapere (fron»sewj), cioè in che modo bisogna considerare con il ragionamento (lÒgJ) ciò che, una volta compreso (dianohqÍ), noi diciamo ponga la natura umana (t¾n ¢nqrwp…nhn ›xin) nella migliore condizione possibile, rispetto al sapere (prÕj frÒnhsin), per quanto almeno all’uomo è possibile possederne (973 A 1-5).

Il dialogo si apre con Clinia che presenta gli intervenuti alla discussione – se stesso, l’Ateniese e Megillo – e la ragione del loro incontro, ricordando come questo sia frutto di un precedente accordo al quale tutti e tre hanno effettivamente deciso di prestare fede93. L’indagine si propone così di esaminare, attraverso il ragionamento (lÒgJ), quale sia la condizione che meglio predispone l’uomo, nei limiti delle sue capacità, all’acquisizione del sapere94.

93 Il riferimento iniziale dell’Epinomide ad un’Ðmolog…a ha portato alcuni critici (Tarán, Academica…, p. 205; Novotný, Platonis…, p. 47) a vedere una somiglianza tra questo incipit e quelli del Sofista e del Timeo, dialoghi in cui si richiama una precedente discussione. Il Sofista, com’è noto, si apre con il matematico Teodoro che fa riferimento all’appuntamento, stabilito il giorno precedente, in base al quale gli intervenuti si proponevano di ritrovarsi per proseguire la discussione lasciata in sospeso (261 A 1-4). L’inizio del Sofista è un unicum all’interno del corpus, infatti «non capita mai che, dopo aver fissato un appuntamento per il giorno seguente», si presti davvero fede all’accordo: ma, in questo caso, l’invito di Socrate a chiusura del Teeteto viene accolto e il Sofista comincia proprio ricordando tale invito (M. Migliori, Il Sofista di Platone: valore e limiti dell’ontologia, Morcelliana, Brescia 2006, p. 23). La ragione per cui l’inizio dell’Epinomide sembra ricordare quello del Sofista è eminentemente terminologica, in quanto in entrambi gli incipit delle opere si fa riferimento ad una Ðmolog…a, ad un accordo, ma, se nel Sofista tale promessa di ritrovarsi è stata rispettata in modo chiaro ed incontrovertibile, non possiamo certo dire che avvenga altrettanto nell’Epinomide (cfr. Status Quæstionis, 4.2. Il tempo del dialo- go, pp. 35-38). L’inizio dell’Epinomide presenta, invece, un’affinità molto più marcata con l’apertura del Timeo, dove Socrate esordisce così: « Uno, due, tre: e dov’è, caro Timeo, il quarto di quelli che ieri convitai e che oggi mi convitano?» (17 A 1-3): anche in questo caso Socrate fa riferimento ad un incontro del giorno precedente con le medesime persone presenti. Sebbene parte della critica abbia visto nella Repubblica il riferimento all’incontro del giorno precedente, esso è in realtà solo un artificio letterario: infatti, non è possibile istituire una stretta con- sequenzialità di lettura tra queste due opere perché la sintesi proposta nelle battute successive del Timeo non è un reale sunto dei temi principali della Repubblica (cfr. M. Migliori, L’unità del pensiero politico di Platone, «Rivi- sta di filosofia neo-scolastica», 95 (2003), pp. 337-388, p. 356). Alla luce di queste osservazioni, sembra che l’Epinomide riproponga uno schema simile a quello del Timeo: infatti, anche l’Epinomide inizia con il conteggio degli intervenuti e con il richiamo ad un accordo pregresso, però l’accordo cui si fa riferimento non trova un rea- le riscontro testuale. In questa prospettiva l’Epinomide non sarebbe «una continuazione delle Leggi, ma un dia- logo autonomo che esamina una questione rimasta in sospeso alla fine delle Leggi» (Brisson, ‘Epinomis’..., p. 19).

94 Ci troviamo in disaccordo con quella parte della critica che, ritiene che l’Epinomide si occupi di esaminare la questione della saggezza (cfr. Des Places, ‘Epinomis’…, p. 94; Tarán, Academica…, p. 203 Novotný, Platonis…, p. 9; Specchia, ‘Epinomis’…, p. 70; Harward, The ‘Epinomis’…, p. 21; Brisson, ‘Epinomis’…, p. 18, n. 25) e pensiamo che, in questo contesto, non sia corretto tradurre phronesis con ‘saggezza’. Siamo dell’avviso che il termine in questione vada piuttosto inteso come ‘sapere’ perché, in queste prime battute, si sta semplicemente cercando di delineare sommariamente l’oggetto d’indagine. Come avremo modo di mostrare nel corso dell’analisi, i vocaboli inizieranno a farsi sempre più precisi, a partire dalla seconda parte dell’opera, dove approfondiscono le questioni poste nelle prima parte.

Tuttavia, se si ricercano le condizioni di possibilità del sapere, si deve necessariamente conoscere in che cosa questo sapere consista; in caso contrario, anche trovando ciò che predispone ad esso, non si sarebbe in grado di riconoscerlo come tale. Per tale ragione Clinia puntualizza:

Infatti, per quanto concerne tutte le altre cose, come diciamo, abbiamo già discusso quanto riguarda l’istituzione delle leggi (¤panta diex»lqomen Ósa Ãn perˆ

nÒmwn qšsin); ma ciò che più conta trovare e dire, ovvero attraverso quale sapere

l’uomo mortale può essere sapiente (t… pote maqën qnhtÕj ¥nqrwpoj sofÕj ¨n e‡h), questo non l’abbiamo né detto né trovato, ora proviamo a non ometterlo; infatti, resterebbe per così dire incompiuto tutto ciò grazie a cui tutti ci siamo impegnati per fare chiarezza dall’inizio alla fine (973 A 5 – B 6).

Il Cretese afferma in modo chiaro che la questione normativa, che li ha precedentemente occupati, può considerarsi conclusa e precisa che l’indagine da svolgere verterà ora su quel sapere (maqèn) capace di rendere un uomo sapiente (sofÒj)95. La ricerca che si sta per affrontare è poi definita come qualcosa di necessario e irrinunciabile: se non si portasse a termine, anche la precedente analisi sulle leggi rimarrebbe in qualche modo incompleta.

In questo modo Clinia ha posto le basi per la successiva discussione stabilendo un asse portante, ovvero cercare di stabilire una conoscenza capace di rendere l’uomo sapiente, e uno secondario, cioè comprendere quale sia la condizione che meglio predispone l’uomo a questa acquisizione.

1.2. Le difficoltà insite nella ricerca

Dopo questa breve introduzione, è l’Ateniese a prendere la parola e a cercare di rispondere alla questione principale sollevata da Clinia:

ATENIESE: Dici bene, caro Clinia, credo che tu dovrai ascoltare un ragionamento

strano e per un altro verso non strano. Molti che si sono trovati a fare esperienza di vita riferiscono lo stesso discorso, che il genere umano non sarà né beato né felice (æj oÙk

œstai mak£rion tÕ tîn ¢nqrèpwn gšnoj oÙd' eÜdaimon)96

. Seguimi e considera se ti sembra che anch’io con loro tratti in modo conveniente tale argomento (973 B 7 – C 4).

L’Ospite risponde così alla sollecitazione di Clinia sposando la sua proposta d’indagine, e al tempo stesso, proponendosi di svolgere in prima persona l’argomentazione.

95 In questa prospettiva il testo, da un lato, segnala il legame tra l’Epinomide e una precedente trattazione a carattere normativo, ed è ragionevole pensare che si tratti delle Leggi, dall’altro, rimarca l’indispensabile presenza della trattazione dell’Epinomide senza la quale anche quanto è stato precedentemente sostenuto rimarrebbe incompiuto. La lunga esposizione delle Leggi sembra sia così bisognosa di un ulteriore approfondimento, non tanto per quanto riguarda le questioni di carattere normativo, quanto piuttosto rispetto al tema del sapere, che deve in qualche modo fungere da fondamento anche al discorso politico.

96

Per un puntuale approfondimento sul significato di m£kar e le sue declinazioni in Platone si veda L. Napolitano Valditara, ‘Makariotes’: riflessioni in margine alla beatitudine divina, «Humanitas», 60 (2005), pp. 808-843.

Egli, inoltre, ci informa che il discorso che segue presenterà alcuni elementi noti al suo uditorio ed altri che potrebbero suonare strani alle loro orecchie97.

Egli poi, contrariamente a quanto ha appena affermato, invece di iniziare l’esame del tema in questione, apre quello che solo apparentemente sembra un «excursus inutile e completamente staccato dalla linea del tema poco prima avviato da Clinia»98. Infatti, rifacendosi alla comune convinzione che non sia possibile per l’uomo essere felice e beato, riprende il topos letterario dell’infelice condizione umana e se ne serve per creare un paragone:

Affermo che non è possibile per gli uomini, ad eccezione di pochi, diventare beati e felici (oÜ fhmi eἶnai dunatÕn ¢nqrèpoij makar…oij te kaˆ eÙda…mosin genšsqai

pl¾n Ñl…gwn) – questo, almeno, finché viviamo; ma c’è la bella speranza che finiremo

per ottenere tutto ciò in vista di cui si desidera vivere nel modo migliore possibile in questa vita, in base alle proprie possibilità e morire in modo uguale – con questo non dico nulla di intelligente, ma ciò che tutti i Greci e i barbari per qualche verso riconoscono, ossia come dall’inizio l’esistenza sia difficile per ogni vivente99 (973 C 4 – D 3).

L’Ateniese con queste poche righe smorza la prima perentoria affermazione, secondo cui gli uomini, a detta di molti, sarebbero irrimediabilmente condannati all’infelicità durante questa vita100. Egli, infatti, precisa che l’essere felici e beati in questa vita è una condizione non impossibile, ma semplicemente riferibile ad un numero molto limitato di individui101.

97 La critica, ad eccezione di Novotný e Tarán, non si è particolarmente soffermata a spiegare le ragioni di questa opposizione tra ‘strano’ e ‘non strano’. Novotný ritiene che il discorso sarà ‘strano’ sia perché l’uomo non può essere felice e beato, sia per come l’Ateniese introduce la questione della felicità (Platonis…, p. 51). Tarán, al contrario, pensa il discorso sia definito come ‘strano’ perché l’Ateniese cercherà di mostrare in che modo la felicità sia possibile (Academica…, p. 208). A nostro avviso, invece, il discorso dell’Ateniese ‘non sarà strano’ perché, come dirà, sono in molti a pensare non solo che l’uomo non possa essere né felice né beato (973 B 7 – D 2), ma anche che la ricerca della sapienza sia difficoltosa (974 A 8 – C 2); al contrario, esso sarà considerato ‘strano’ perché, non solo alcuni individui possono essere felici e beati, ma questi stessi saranno coloro che sono veramente sapienti: i tre elementi sono tra loro strettamente connessi e si implicano a vicenda, come l’Ateniese mostrerà solo al termine del dialogo (992 A 6 – D 3).

98

Specchia, ‘Epinomis’…, p. 71.

99 L’infelice condizione umana è un topos letterario presente in diversi autori greci. Per i possibili e molteplici riferimenti letterari, si veda Tarán, Academica…, p. 210, nota 724; Novotný, Platonis…, pp. 54-55; Specchia, ‘Epinomis’…, p. 72, e Des Places, ‘Epinomis’…, p. 133.

100

Non troviamo condivisibile l’interpretazione di Specchia, il quale sembra non cogliere a pieno lo snodo problematico del discorso. Egli, infatti, vede in questo passo un’incongruenza rispetto a quanto detto poche righe sopra, dal momento che, a suo avviso, qui Platone sosterrebbe che «l’infelicità dell’uomo consiste proprio nella difficoltà in cui questo si dibatte per conseguire inutilmente la felicità che è tutta nella contemplazione del divino» (‘Epinomis’…, p. 71). Il testo, però, non ci consente di fare una simile affermazione, dal momento che il fine dell’argomentazione è tutt’altro: infatti, l’Ateniese vuole mostrare come, nel corso della vita umana, la ricerca del vero sapere sia ardua così come lo sono la felicità e la beatitudine. Tarán, invece, pensa che la relazione tra saggezza e felicità non sia «interamente chiara» e ritiene che «per Platone essere nello stesso tempo felice e buono (Leggi, V, 742 e 5)» fosse «una vera necessità» (Academica…, p. 207). Quest’ultima affermazione, in sé condivisibile, non viene però sviluppata nel testo in esame, nel quale ci si limita a segnalare la difficoltà nel conseguimento della felicità.

101 Si noti come un’analoga affermazione fosse stata fatta in apertura da Clinia (973 B 4). Turolla precisa giustamente come «questo motivo dell’infelicità generale dell’uomo cui sfugge soltanto un esiguo numero d’individui […] serpeggia per tutto il dialogo (973 C; 977 D 4; 978 B 2; 992 C 12)» (I dialoghi…, p. 711, nota 1).

Nella vita dell’aldilà, invece, l’uomo può aspirare a tale condizione di felicità e beatitudine come premio per una vita vissuta in modo retto e degno102

. In questa prospettiva si capisce meglio perché la “bella speranza” (kal¾ d' ™lpˆj) lasciata all’uomo risiede nel fatto che, proprio nella vita dopo la morte, vi sia una forma di giustizia compensativa103.

Il discorso fatto dall’Ospite si trova ad essere, così, condivisibile e noto sia ai Greci sia ai barbari: entrambi lo sottoscriverebbero, dato che, all’evidenza dei fatti, sembra davvero che la vita umana sia un incessante susseguirsi di momenti di infelicità, in cui anche lo spazio di quiete tra un affanno e l’altro è lungo quanto un respiro.

A giustificazione della propria affermazione, l’Ateniese elenca il susseguirsi dei momenti di infelicità insiti in una comune vita umana:

All’inizio siamo nello stato di feti, poi nasciamo e dobbiamo essere allevati ed educati, e tutto questo avviene attraverso molte sofferenze. Ma sulla base di un calcolo non di una vita penosa, ma rispetto a quella che tutti considerano un’esistenza misurata (mštrion), resterebbe un breve periodo, che sembra lasciare all’uomo il tempo di un respiro, press’a poco nel mezzo della vita umana. Veloce giunge la vecchiaia, la quale, a chiunque rifaccia il calcolo della vita vissuta, toglie la voglia di vivere di nuovo, a meno che uno non sia colto da demenza (Óstij m¾ tugc£nei paidikÁj dÒxhj mestÕj

ên) (973 D 3 – 974 A 7).

Viene qui portato l’esempio di una vita normale, senza eccessi di sventure o di fortune, in cui, già dal primo istante, l’uomo è infelice: la nascita stessa è il nostro primo momento di infelicità104. A queste seguono poi la successiva fase di crescita ed educazione e ci si accorge immediatamente che lo spazio di quiete e serenità è davvero esiguo, tanto che, appena varcato l’apice della vita, non resta poi che il progressivo ed irrefrenabile declino verso la vecchiaia, la quale giunge così rapidamente da annullare ogni voglia di esistere.

L’Ateniese cerca di spiegare al suo uditorio la ragione per cui l’argomentazione sulle miserie della vita umana serve a chiarire la questione del sapere:

102

Tarán propone come interpretazione del passo che «le cose di cui uno spera di essere riempito dopo la morte sono quelle in vista delle quali uno combatte per vivere e morire nobilmente, e queste cose non sono i beni materiali ma le virtù» (Academica…, p. 209). Sebbene la lettura di Tarán sia assolutamente plausibile e facilmente comprensibile in un’ottica platonica, è anche vero che il testo non ci consente di fare un’ipotesi così approfondita. Possiamo semplicemente ipotizzare che la bella speranza e i premi post mortem vadano letti in linea con i miti dell’aldilà proposti da Platone in altri dialoghi (Fedone, 67 B-C; Gorgia, 523 A – 525 A; Repubblica, X, 614 A – 621 D), ma dobbiamo essere anche consapevoli che, come giustamente ci ricorda l’Ateniese, il topos presentato è comune a Greci e barbari e, conseguentemente, non è forse possibile ritrovare in queste righe un esplicito riferimento alla connessione platonica tra felicità e virtù.

103 La stessa espressione ricorre in due passi del Fedone (70 A 6; 114 C 6), nei quali, come in questo caso, la “bella speranza” risiede nel fatto che, dopo la morte, vi sia una vita nell’aldilà in cui i giusti e i malvagi riceveranno onori e punizioni commisurate allo stile di vita tenuto durante la loro esistenza terrena.

104

Tarán (Academica…, p. 211) sostiene che non vi sia traccia nel corpus platonico del tema dell’infelicità legata alla nascita, tutt’al più ravvisa alcuni riferimenti alla difficoltà insita nell’educazione (Leggi, VII, 788 C sgg., e Repubblica, V, 450 C 2-4).

Ma quale prova posso offrire di questo? Che ciò che stiamo ricercando ora con il ragionamento è della stessa natura. Noi cerchiamo il modo per diventare sapienti, come se ciascuno di noi avesse questa possibilità, solo che questa si ritira e fugge quando ci si avvicina a una qualche forma di sapere (tina frÒnhsin) o ad una delle cosiddette tecniche (tecnîn) o conoscenze (fron»sewn) o ad una delle altre che consideriamo scienze (™pisthmîn) ma nessuna di queste è degna di essere denominata sapienza relativa alle cose umane (sof…aj t¢nqrèpina) (974 A 7 – B 6).

Per giustificare l’argomentazione condotta fino a questo punto, l’Ospite propone un’analogia basata sull’analisi fenomenologica: la stessa difficoltà che l’uomo trova nell’essere felice e beato, la incontra anche nella ricerca del sapere. La felicità, e conseguentemente il sapere che rende sapienti, sono quindi «difficili da ottenere e riservati a pochi e i più sembra non siano in grado di accedervi»105.

La prima difficoltà nell’individuazione del sapere ricercato risiede quindi nel fatto che questo, erroneamente, viene associato ad una serie di conoscenze che non hanno molto a che vedere con esso. Se infatti vi è uno e un solo sapere a cui è possibile attribuire correttamente il nome di sapienza, è altrettanto vero che ve ne sono altri a cui è possibile riferirsi con il medesimo nome, senza che però i loro possessori possano essere dichiarati realmente sapienti106. Inoltre, proprio perché altri saperi concorrono indebitamente a questo titolo, il vero sapere sembra di non facile individuazione, e tale difficoltà nella ricerca appare chiaramente se si considera che:

l’anima (tÁj d@ yucÁj), pur avendo una fiduciosa certezza e capacità profetica (manteuomšnhj), che è in qualche modo nella sua natura possedere, non ha nessuna capacità di scoprire che cosa sia, né i tempi né i modi della sua acquisizione (974 B 6 – C 2).

L’anima compare qui per la prima volta nel dialogo e viene direttamente collegata con la ricerca della sapienza: «l’anima sente la sua propensione alla sapienza ma non è capace di rendere ragione di questa»107. Stando al testo, potremmo dire che esiste un livello zero della sapienza, comune a tutti gli esseri umani, in quanto dotati d’anima, e del quale tutti hanno consapevolezza: ma si tratta solo del punto di partenza. Infatti, questo livello zero è in qualche modo la precondizione per l’acquisizione della vera sapienza, la quale, invece, è posseduta

105 Tarán, Academica…, p. 203.

106 L’elenco delle diverse forme di sapere che l’Ospite ricorda in queste righe sembra richiamare quello proposto nel VII libro della Repubblica, dove Socrate, insieme a Glaucone, sta cercando di individuare quella disciplina che rimarrebbe comunque, anche se venissero eliminati gli altri saperi quali la musica, la ginnastica e le arti (522 B 6-7). Glaucone sembra non seguire il ragionamento di Socrate, il quale vuole condurre il suo interlocutore ad affermare il primato della scienza del numero sugli altri saperi (522 C 6-7), e, per farlo, lo guida indicando come caratteristica di questa scienza il suo essere «comune e utile a tutte le tecniche (tšcnai) e speculazioni (diano…ai) e scienze (™pistÁmai)» (522 C 1-2). Sembra che anche nell’Epinomide, come nella Repubblica, si stia preparando il terreno per una discussione analoga in quanto, come vedremo, anche qui si giungerà a stabilire che la conoscenza del numero è quella forma di sapere necessaria a tutte le altre forme di conoscenza (976 E 1). 107 Novotný, Platonis…, p. 58.

realmente solo da pochi individui e necessita di un concreto impegno per scoprire che cosa sia, quando e come acquisirla.

La conferma della difficoltà, anche per la stessa anima, di ricercare la vera sapienza, viene ribadita dall’Ateniese:

Forse non incontriamo questa difficoltà proprio nella ricerca intorno alla sapienza (sof…an), difficoltà che è più grande in ciascuno della speranza, almeno in quanti tra noi sono capaci di ricercare in modo assennato se stessi e gli altri, attraverso ragionamenti di tutti i tipi e fatti in tutti i modi? È diversamente o ci troviamo d’accordo su ciò? (974 C 2-7).

È oramai evidente, da questa lunga premessa dell’Ateniese, che la sapienza sia cosa tutt’altro che semplice, tanto che la possibilità di avere successo in questa indagine è legata anche alla capacità di saper mettere in discussione sé e gli altri108. Infatti, coloro che sono in grado di mettersi e mettere in discussione hanno la consapevolezza che questa ricerca è a tal punto complessa che la difficoltà è maggiore della speranza di successo.

Tuttavia, nonostante l’evidente complessità dell’argomento sottolineata dall’Ateniese, è Clinia a prendere la parola e a mostrarsi fiducioso nei confronti dell’indagine che si sta per intraprendere:

CLINIA: Saremo d’accordo nello sperare, o Ospite, che con te e con il tempo, riusciremo a farci un’opinione, il più vera possibile su queste cose (dox£sai perˆ

aÙtîn e„j aâqij tÕ ¢lhqšstaton) (974 C 8 – D 2).

Il Cretese sembra essere piuttosto cauto sull’esito finale della discussione e si limita a sperare che, grazie all’aiuto dell’Ospite e con un po’ di pazienza, si possa essere in grado di giungere, a quello che, riprendendo un’espressione del Fedone, potremmo definire come il «ragionamento meno confutabile»109.

Con questo breve scambio di battute fra l’Ateniese e Clinia si chiude la sezione introduttiva del dialogo in cui è stato posto il tema d’indagine, si sono sottolineate le difficoltà insite in questa ricerca e l’Ateniese si è fatto carico di condurre la discussione.