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4. L’Epinomide ed altri dialoghi platonici: contenuti e rimandi

4.1. Il divino e il limite umano

All’interno dell’Epinomide trova largo spazio il tema del divino, il quale viene delineato attraverso le molteplici sfaccettature presenti all’interno dell’immaginario platonico. Tuttavia, accanto a questa attenzione per il divino, vi sono diversi riferimenti al limite con il quale il genere umano deve sempre confrontarsi. Questa polarità tra divino e umano, che sembra destinata a creare un divario incolmabile, trova, a nostro avviso, nella dimensione della cura il suo punto d’incontro. Infatti, se è vero che gli uomini devono ricordare la superiorità degli dèi, mostrarsi rispettosi nei loro confronti e tributare loro i dovuti onori, è altrettanto vero che, di converso gli dèi si interessano delle vicende del genere umano e ne hanno cura. Alla luce di questa dimensione di reciproco rispetto tra uomini e dèi, si comprende bene come mai l’Epinomide veda nell’elemento della religiosità una dimensione chiave per l’uomo.

4.1.1. Il divino

Possiamo dire che sono essenzialmente tre gli aspetti del divino che vengono messi a tema all’interno della discussione dell’Epinomide e sono sviluppati in linea con il pensiero platonico: il dio, gli dèi e l’anima.

4.1.1.1. IL DIO

All’interno dell’Epinomide troviamo due declinazioni del concetto di dio tra di loro diverse ma correlate: in un primo senso, si chiama dio il cielo, in un secondo senso, si dà il nome di dio ad un essere dalle caratteristiche demiurgiche.

Nel primo caso, quello del dio-cielo, esso compare nella prima parte dell’opera, quando l’Ateniese richiama i suoi interlocutori sull’importanza del numero: il dio-cielo ha donato agli uomini il numero, e continua a donarlo a tutti coloro i quali si pongono ad osservare i moti della volta celeste (976 E 3– B 8). Nella seconda parte del testo, questo dio- cielo si fa maestro dell’uomo affinché quest’ultimo possa apprendere quanto il dio gli insegna. Il dio-cielo che viene presentato nell’Epinomide è l’universo completo di tutti gli astri e dei loro movimenti, da cui l’uomo può iniziare a comprendere il numero.

È però sicuramente il secondo senso di dio, quello di dio-demiurgo, ad essere preponderante all’interno dell’opera. Un primo accenno a questa figura si ha quando l’Ateniese afferma che vi è un dio che, dopo aver dato all’uomo la possibilità di conoscere l’uno e il due attraverso l’alternanza del giorno e della notte, ha consentito agli uomini di apprendere gli altri numeri e le loro relazioni attraverso le fasi lunari (978 D 6 – E 3). Un secondo riferimento ad esso si ha quando, dopo aver delineato le caratteristiche dell’anima e

la sua superiorità rispetto al corpo, si afferma la presenza di un benefico principio del principio stesso. Dal momento che il principio della generazione è l’anima, è evidente che vi è una realtà superiore ad essa, principio a sua volta di questo stesso principio. È quindi verosimile credere che vi sia un essere buono, il quale si è fatto carico di generare quel principio di generazione che è l’anima (981 A 1-3). Tale interpretazione sembra trovare la sua chiara conferma poco oltre, quando l’Ateniese ritiene che gli astri siano dei viventi dotati di un’anima che li fa muovere (982 D 3- E 6) e precisa che quest’anima è stata legata al corpo da un dio. Questo dio ha così costituito gli astri come viventi, cioè come unione di un’anima con un corpo e, dopo aver compiuto questa operazione, ha fatto sì che essi si muovessero nel modo che egli riteneva migliore. Questa seconda nozione di dio presente nell’Epinomide vede in esso un essere superiore e buono, un padre (987 C 4), che ha dato forma e un iniziale movimento ai corpi celesti i quali poi, in virtù dell’anima che appunto possiedono, sono in grado di perpetuare questo input iniziale.

Pur essendo presenti queste due visioni del dio all’interno dell’Epinomide, esse non solo non sono tra di loro incongruenti, ma, anzi, anche in altri luoghi del corpus platonico è visibile questa duplicità. Nel Timeo, ad esempio, la figura del Demiurgo è tematizzata a fondo ed occupa un ruolo centrale, ma, accanto ad essa, trova posto anche la descrizione del cosmo il quale viene anch’esso definito come dio. È quindi interessante notare che, sebbene Platone non abbia alcun dubbio sul fatto che il Demiurgo sia un dio, egli ascrive anche al cielo il medesimo statuto quando narra della sua generazione: il Demiurgo è definito come «il dio che sempre è» mentre il cielo come «il dio che doveva essere un giorno»388. La temporalità diviene allora il discrimine fondamentale tra il dio-demiurgo ed il dio-cielo: il primo è anteriore, superiore e generatore del secondo, il quale può aspirare ad essere definito anch’esso come dio solo nel momento in cui prende vita ed il primo si fa da parte, lasciando che il cielo muova autonomamente.

Anche nel mito del Politico troviamo un dio demiurgo che porta il cosmo al massimo ordine possibile e, dopo aver impresso il movimento iniziale, si fa da parte lasciando che il cosmo si muova da sé. Quest’ultimo riesce per un certo periodo a mantenere il moto impresso dal suo artefice, ma poi, data la sua natura materiale, si rivolge in modo contrario e potrebbe distruggersi; tuttavia dal momento che il dio non vuole che ciò avvenga, egli ne riassesta il

388 «Tutto questo ragionamento il Dio che sempre è fece attorno al dio che ad un certo momento doveva essere, e produsse un corpo liscio e omogeneo, da tutte le parti equidistante dal centro, perfetto e intero, e costituito di corpi perfetti» (Timeo, 34 A 8 – B 4). In seguito a questa precisazione, nel Timeo troviamo altri luoghi in cui fa riferimento al cosmo chiamandolo dio: 34 B 8, 47 C 3; 68 E 3-4; 92 C 7.

corso389. In entrambe queste circostanze la divinità non solo si occupa della generazione dell’universo, ma imprime ai corpi celesti il movimento: tuttavia, dopo aver compiuto queste azioni, egli non interviene più direttamente e il cosmo stesso è lasciato libero di autoregolarsi, per quanto è a lui possibile, dato che è composto dall’elemento materiale e da quello immateriale, l’anima.

Le opere di Platone non fanno quindi che confermare il fatto che egli ritenesse che da

un certo punto di vista vi è un dio demiurgo generatore del cosmo, ma, da un altro punto di vista, il cosmo generato è un dio. Questa duplice visione prospettica, lungi dal creare una

contraddizione insanabile, è invece perfettamente comprensibile se si pensa che il cosmo è visto come un dio perché, una volta che il dio-demiurgo l’ha ordinato, esso è lasciato a se stesso e il primo si riserva di intervenire solo eccezionalmente. Il dio-demiurgo è il dio per eccellenza e ciò che egli genera direttamente non può che essere a lui massimamente congenere, quindi anch’esso divino.

Gli uomini si trovano così sempre di fronte al dio-cielo e mai direttamente al dio- demiurgo, del quale possono semplicemente limitarsi a contemplare l’opera compiuta, il cosmo. In senso stretto, quindi, il dio per eccellenza è il demiurgo, il quale plasma i viventi celesti e ordina i loro movimenti: tuttavia, esso rimane come un deus ex machina, un ordinatore del cosmo di cui noi uomini non abbiamo esperienza diretta. Noi mortali possiamo esperire l’opera di questo dio, il cosmo, il quale diviene per noi dio a tutti gli effetti e, attraverso l’osservazione dei suoi moti, i quali sono la massima manifestazione possibile dell’ordine, siamo in grado di intuire la presenza di un dio-demiurgo ordinatore dello stesso. 4.1.1.2. GLI DÈI

Oltre a questa duplice articolazione della figura del dio, all’interno dell’Epinomide trova spazio anche la descrizione di altri esseri dotati di una natura divina: gli dèi astrali e quelli della tradizione olimpica classica.

a) Astri

Gli dèi per eccellenza dell’Epinomide sono senza dubbio gli astri, intendendo con questo termine sia la sfera delle stelle fisse, sia i sette pianeti. L’obiettivo principale che in questo scritto ci si prefigge riguardo agli dèi resta quello di cercare di offrirne una rappresentazione quanto più simile al vero, dal momento che gli antenati ce ne hanno consegnato un’immagine inadeguata. La nuova teogonia proposta nell’Epinomide ci mostra

cinque specie di esseri viventi, tra cui vi sono anche gli astri, ovvero i sette pianeti e la sfera delle stelle fisse: essi sono tra loro affini e vengono considerate divinità a pieno titolo. Essi si collocano al vertice di queste specie perché sono immortali e l’anima che possiedono è dotata di un intelletto, che consente loro di avere un movimento regolare e ordinato da un tempo immemore.

Anche in questo caso, come nel precedente, le tesi presentate nell’Epinomide sono tutt’altro che innovative. Infatti, la divinità degli astri è un tema che ritroviamo all’interno di altri scritti platonici, quali il Timeo e le Leggi. Nel primo di questi due scritti, il Timeo, la divinità degli astri non è nemmeno sottoposta a discussione, ma viene presa come dato di fatto: dal momento che essi sono generati direttamente dal Demiurgo e poiché quest’ultimo è divino, essi non possono che partecipare della medesima natura. Inoltre, proprio in virtù di questa loro condizione, il Demiurgo affida loro il prezioso compito di aiutarlo a completare il cosmo plasmando le tre specie di esseri viventi che ancora restano da generare390. Anche all’interno delle Leggi trova il suo spazio la trattazione della divinità degli astri, che, a differenza del Timeo, viene argomentata nello stesso modo in cui sarà presentata nell’Epinomide, ovvero a partire dalla regolarità del loro movimento391.

«La divinizzazione del cielo dipende in realtà dall’assunzione da parte dell’autore dello scritto di un “programma filosofico” che era stato delineato da Platone nel Timeo»392, e che va via via completandosi nelle Leggi e nell’Epinomide, delineando uno scenario profondamente coerente. Per Platone, infatti, era indubbio che gli astri fossero tra le massime espressioni del divino, sia in virtù della loro collocazione, sia grazie alla loro capacità di muovere sempre nello stesso modo da tempi antichissimi.

b) Dèi olimpici

Se è chiaro che la principale attenzione, per quanto riguarda il tema degli dèi, sia riservata alla divinità degli astri, tuttavia non manca un breve cenno anche alle tradizionali divinità olimpiche, che vengono ricordate per due ragioni. La prima riguarda la nomenclatura dei pianeti; infatti, essendo le scoperte astronomiche frutto di popoli barbari, i nomi degli astri devono essere ridefiniti nel mondo greco. Per sopperire a tale mancanza, i Greci scelgono di utilizzare i nomi degli dèi olimpici per designare i singoli pianeti. Il secondo riferimento alle divinità greche classiche si trova in un breve inciso in cui l’Ateniese, dopo aver mostrato quali sono i cinque tipi di viventi e quale posizione ciascuno di essi occupa nel cosmo, dedica un

390

Timeo, 39 E – 41 D. 391 Leggi, X, 897 C-E.

breve accenno agli dèi olimpici. L’intento di questo inciso è quello di non screditare le credenze in tali dèi, ma semplicemente di ridimensionare il loro ruolo, relegandone il culto all’ambito personale di ciascuno: quello che conta è che la loro introduzione non modifichi l’assetto del cosmo che si è delineato. Questo secondo modo di riferirsi agli dèi olimpici si ritrova anche all’interno del Timeo, quando, nella descrizione del cosmo, non si offre una collocazione spaziale precisa per le divinità olimpiche, ma ci si limita a seguire la tradizione su di esse senza saggiarne la validità (40 E – 41 A).

Lo scenario che l’Epinomide propone è quindi giocato sulla tensione fra tradizione ed innovazione rispetto agli dèi; tuttavia, resta sempre sullo sfondo la consapevolezza del limite proprio del genere umano, che non è mai capace di conoscere pienamente il divino. Per tale ragione, le divinità del pantheon olimpico non vengono rifiutate, ma semplicemente poste accanto alla nuova teogonia.

4.1.1.3. L’ANIMA

Il quadro del divino descritto nell’Epinomide tiene conto anche di un’altra realtà, diversa rispetto alle precedenti, ma anch’essa descritta come divina: l’anima. Per quanto concerne questo aspetto del divino, all’interno di quest’opera non troviamo nulla di nuovo rispetto a quanto Platone sostiene in altri testi. Nell’Epinomide, infatti, riprendendo quanto era stato detto nel X libro delle Leggi, si pone attenzione alla priorità ontologica dell’anima sul corpo e al ruolo di guida del corpo che essa svolge. L’intento dell’Epinomide è principalmente quello di approfondire la questione dell’anima degli astri: questi non sono solo dei viventi, quindi un’unione di un’anima con un corpo, ma l’anima che possiedono è dotata di intelletto, il quale consente loro di muovere in modo regolare. L’anima, che viene inoltre definita come il principio della generazione, è però a sua volta subordinata, come visto, al principio del principio, il dio-demiurgo; ciò fa sì che si crei una gerarchia, in quanto l’anima degli astri è dotata di una maggior perfezione rispetto quella dei viventi terrestri. Tale superiorità è sancita dalla presenza di un intelletto nell’anima degli astri, che consente loro di muovere in modo ordinato, cosa che, invece, non sembra essere possibile per i viventi terresti, fatta forse eccezione per l’uomo.

4.1.2. Il limite umano e la cura

Accanto a questa approfondita trattazione del divino e delle sue caratteristiche, c’è un costante riferimento all’umano, teso a sottolineare il divario ontologico esistente tra uomo e dio. All’interno di questa riflessione due sono gli aspetti su cui si pone maggiormente l’attenzione: il primo è la mortalità del genere umano e, quindi, la sua strutturale limitatezza;

il secondo è l’impossibilità che questi ha di essere felice e beato. Tuttavia, questo scenario trova poi all’interno dell’Epinomide la possibilità di un riscatto: infatti la condizione umana, che sembra totalmente incompatibile con quella divina, ha modo di avvicinarsi ad essa. Da un lato, si ricorda che, nonostante la condizione mortale, l’uomo non deve mai smettere di occuparsi delle cose divine (988 B); dall’altro, si precisa che vi è un ristretto gruppo di individui eccezionalmente dotati per natura, in grado di giungere a questa condizione di felicità e beatitudine anche durante la vita terrena. Proprio questi ultimi individui dovranno farsi carico della restante moltitudine degli uomini, guidandoli e indirizzandoli verso la vera religiosità. Così facendo, essi cercheranno di creare le condizioni affinché anche la moltitudine degli uomini, che da sola non sarebbe in grado di farlo, possa giungere ad essere, se non beata, per lo meno felice.

Inoltre, il divario fra il divino e l’umano può essere ridotto anche grazie alla già citata reciproca cura che uomini e dèi si riservano. Infatti, il ritratto degli dèi che viene offerto nell’Epinomide richiama esplicitamente quello del X libro delle Leggi (905 D 1-3) e di altri scritti platonici, in cui gli dèi mostrano di interessarsi delle vicende umane e di aver cura degli uomini393. Dall’altra parte, l’uomo deve ricordare di essere un possesso nelle mani del dio e cooperare con lui, occupandosi delle cose divine nonostante la sua natura mortale, essere devoto agli dèi, cercando di onorarli nel modo in cui si conviene loro.

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Il divino viene così presentato all’interno dell’Epinomide nella molteplicità di aspetti che lo contraddistinguono e che, spesso, sono ulteriormente articolati al loro interno. In questo scenario anche l’uomo trova la sua dimensione, a patto che, da un lato, egli resti sempre consapevole della superiorità del divino stesso; dall’altro, che ricordi che il divino, in tutte le sue forme, è sempre benevolo nei suoi confronti e, perciò, egli deve rispettarlo. Quello che rimane un fatto incontrovertibile è che nel modo in cui queste tematiche vengono affrontate all’interno dell’Epinomide rimangono ben visibili le linee del pensiero platonico.