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Violenza: l’ombra della sfera privata

3.3 La violenza domestica o “di prossimità”

La violenza domestica attiene a un tipo di violenza contro le donne che

«nasce da situazioni di conflitto continuo e sovraccarico di emozioni,[…]. La violenza è recidiva; quando, dentro alla relazione, si è instaurata una pratica di controllo violento, vi sono poche probabilità che esso scompari» (Corradi 2011, p. 11).

Essa ha come fine quello di provocare un danno all’altro soggetto della relazione, ma può verificarsi anche indipendentemente dal sesso dell’individuo o dell’esistenza o meno di un legame coniugale52. Fino al 1975, anno che segna l’approvazione in Italia del nuovo diritto di famiglia, ha persistito l’autorità maritale, la quale si risolveva in una vera e propria potestà coattiva sulla moglie, che spesso sfociava in manifestazioni coercitive e punitive. Il 1981 è, invece, l’anno in cui con la legge n. 422 in Italia si assiste all’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore. Il primo consentiva all’uomo uno sconto di pena qualora avesse ucciso la moglie per tradimento da lei ricevuto. Il secondo, invece, comportava l’estinzione del reato di stupro all’uomo che in seguito avesse sposato la vittima. Al fine di rendere comprensibile il fenomeno sociale della violenza di prossimità, Corradi propone un modello teorico che illustra come all’interno di una relazione, nella maggior parte dei casi, lo stereotipo principale vede: l’uomo aggressore e la donna vittima. Questo modello si dipana su tre livelli: un livello micro sociale che delinea una condizione di oppressione all’interno di una dinamica relazionale, un livello mesosociale che studia i ruoli degli attori coinvolti (vittima, carnefice e spettatore) e un livello macrosociale che pone sotto analisi alcuni tratti della società/comunità di appartenenza (Corradi 2011, p. 4). Nella dinamica violenta, quindi, i due attori assumono un ruolo che sarà testimoniato dal grande occhio dello spettatore (Bartholini 2013). Le donne spesso corrono i più grandi pericoli nel luogo in cui dovrebbero essere più al sicuro, in altre parole proprio all’interno della loro famiglia. La violenza esercitata entro le mura domestiche, spesso nega la possibilità della donna di esprimere il proprio pensiero, ella non ha diritto di parola o di decisione: i loro diritti umani sono calpestati e le loro vite minacciate. In passato, la violenza

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La violenza familiare viene «spesso negata o banalizzata o ancora ridotta a un semplice rapporto di dominazione; questo significa negare la violenza e la gravità delle ripercussioni psicologiche. In alcuni casi le aggressioni sono molto sottili e s’interpretano erroneamente come rapporti conflittuali o passionali» (Hirigoyen 2000, p. 7).

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domestica era generalmente considerata un fenomeno da relegare nelle mura di casa e la donna tendeva a nascondere e a non parlare di quello che subiva con nessuno53.

Le ricerche, nonché i dati raccolti dai Centri Antiviolenza e dalle Case per le donne maltrattate, documentano l’aumento di violenza familiare ai danni di donne. Spesso, è costituita da un continuum di atti violenti, dove il marito o il convivente esercita un potere fisico estremo che provoca lesioni intense tanto da arrivare a commettere il reato di omicidio. È una violenza tacita che appartiene all’intimità della vita di molte donne. Le violenze in casa da parte del marito aggressivo sono sempre esistite, ma oggi esse emergono di più perché molte donne non sono più disposte ad accettare soprusi silenziosamente; nella nostra società, infatti, è lentamente cambiata la percezione delle donne e soprattutto la loro condizione. Oggi, la violenza non ha come fine esplicito ottenere potere bensì, come afferma Bartholini (2013) è una “lotta per apparire al mondo”. Solo i più recenti dati statistici (Istat 2015) hanno ridefinito il fenomeno in termini molto più ampi, dimostrando come esso riguardi tutti i ceti sociali e tutte le culture: la violenza è un fenomeno poliedrico e trasversale. Tuttavia, il fenomeno della violenza pone seri problemi a livello sociale, familiare e psicologico prendendo in considerazione le conseguenze.

Le cause della violenza domestica sono state indagate da teorie differenti tra loro: secondo la prospettiva clinica, l’uomo possiede pulsioni aggressive più delle donne che facilmente lo rendono violento, “lei se l’è cercata”; secondo la socializzazione di uomini e donne in ruoli sessuali, l’educazione delle donne è stata improntata alla “passività e alla subordinazione al dominio maschile”; secondo la teoria della vulnerabilità acquisita, sono alcune caratteristiche psicologiche a essere associate alla violenza coniugale, l’immagine trasmessa alle donne è di “una persona debole”; secondo la prospettiva femminista la violenza maschile è un meccanismo di controllo sociale che mira a mantenere la donna in posizione di subalternità “fino al momento in cui il costo

53 Questo tipo di comportamento teneva nascosto in qualche modo l’esistenza del fenomeno o

erroneamente faceva pensare che gli uomini violenti appartenessero ai ceti più bassi. Solo i più recenti dati statistici hanno ridefinito il fenomeno in termini molto più ampi, dimostrando come esso riguardi tutti i ceti sociali e tutte le culture. Le vittime di violenza domestica sono, infatti, donne di estrazione sociale, economica e culturale diversa: sono italiane, immigrate, coniugate ma anche conviventi o separate. Molte hanno un’occupazione, altre hanno un lavoro precario o sono casalinghe ma nonostante le differenze tra di loro, tutte hanno in comune il fatto di essere assoggettate alla violenza del marito, compagno o padre (Gainotti 2008, pp. 14-52). Tuttavia, questa realtà continua spesso a essere rimossa dalla rappresentazione collettiva, perché la violenza domestica «è coperta da un’omertà secolare e sembra rimanere ancora relegata a una questione privata» (Gainotti 2008, p. 85) che non le fa acquisire lo spessore di fatto sociale.

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delle azioni diventa più elevato della ricompensa”; secondo la corrente sociologica invece la violenza coniugale è correlata allo stress socio-economico, la “donna supera il compagno per posizione sociale ed economica”; secondo la teoria del genere- patriarcato, fin dai tempi più remoti le “società sono dominate dagli uomini”; e infine, emerge la teoria del genere-potere secondo la quale una “irregolare distribuzione di potere tra i generi scateni violenza al fine di mantenere il potere” (Corradi 2009, p. 43).

Le ragioni della violenza, purtroppo, sono complesse e possono riguardare l’ambito psicologico, sociale e culturale; esse potrebbero derivare da esperienze precedenti degli abusanti che possono avere alle spalle esperienze di famiglie disfunzionali e possono essere stati loro stessi vittime di violenza subita o assistita. I comportamenti che caratterizzano la violenza nello scenario relazionale si ripetono ciclicamente, e questa caratteristica è stata analizzata tramite lo schema elaborato da Walker (1983) la spirale della violenza. All’interno di questo modello si possono distinguere tre fasi: la fase di accrescimento della tensione, la fase della violenza e la fase del pentimento. Rispettivamente, nella prima fase, il partner maltrattante appare con atteggiamento scorbutico, di cattivo umore, grida, minaccia la vittima; la donna, invece, cerca di placare l’ira dell’uomo, mostra un comportamento passivo ma allo stesso tempo avverte anche il pericolo. Nella seconda fase, il partner solitamente esercita la violenza vera e propria, inizia a spingere, malmenare, strangolare, imprigionare, abusare, e la donna in questa fase tenterà di proteggere se stessa cercando di calmare l’uomo, anche arrivando a denunciarlo. Infine, nella terza fase, che è la fase del pentimento, l’uomo che ha maltrattato solitamente inizia a implorare il perdono e seguono periodi di “luna di miele”: scuse, promesse, regali, fiori, dichiara amore e devozione che la donna, spesso, accetta nella speranza di un cambiamento.

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Figura 1 - Le tre fasi del ciclo della violenza di Lenore Walker 1983

Fonte: Immagine presa dal web. È evidente che la violenza s’insidia nella coppia in modo progressivo, anche se la sua presenza, tuttavia, è spesso percepita dalla donna solo in un secondo momento54.

54 All’inizio la donna tende a sperare che le minacce, aggressioni e le violenze costituiscano un fatto

isolato; l’aggressore potrebbe promettere di cambiare e la donna allo stesso tempo potrebbe avvertire un senso di responsabilità nei suoi confronti. In questa fase iniziale, la donna solitamente non procede con la denuncia dell’uomo maltrattante, ma quando la violenza si aggrava e la sua frequenza aumenta col tempo, ella inizia a perdere fiducia in se stessa e pensa che la situazione non possa più cambiare (Vodarich 2008, p. 15). Per meglio comprendere lo sviluppo ciclico della violenza domestica si potrebbe analizzare la relazione dal momento in cui avviene la formazione di un legame. Di solito, quando due soggetti decidono di instaurare una relazione investono su questa le proprie energie per renderla stabile. All’interno di questa relazione potrebbero nascere dei litigi e con il tempo questi potrebbero diventare più frequenti e sfociare in un clima di aggressività che dà origine ai maltrattamenti. Questi ultimi potrebbero essere recepiti dalla donna che li subisce come ammissibili e giustificabili e la donna in un certo senso potrebbe anche colpevolizzarsi, non riuscendo in tal modo a percepirsi come vittima. Nelle fasi successive si potrebbe passare dalla violenza psicologica a quella fisica e sessuale accompagnata da percosse; una violenza con la quale la donna inizialmente potrebbe cercare di convivere, sentendosi sola e non sapendo a chi rivolgersi. Dopo gli abusi seguono solitamente i cosiddetti periodi di luna di miele: scuse, promesse, regali che la donna accetta nella speranza di un cambiamento. Si tratta di periodi brevi perché ben presto la violenza ritorna, e solo se la donna riesce davvero a prendere coscienza della sua situazione è possibile che decida di porre fine alla relazione; una decisione questa che, tuttavia, non implica sistematicamente la fine della violenza, perché spesso l’uomo può non accettarla e continuare a molestare e a perseguitare la sua ex compagna.

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«l’atto violento è breve […]; la catena interazionale si può concludere con l’uccisione della donna, volontaria ma non sempre intenzionale o premeditata» (Corradi 2011, p. 5).

La violenza domestica o di “prossimità”, come abbiamo più volte ripetuto, è individuabile all’interno di legami interpersonali caratterizzati, secondo Bartholini, da un continuum temporale e da una prossimità fisica. Riassumendo, quanto detto in queste pagine, possiamo rintracciare i caratteri peculiari della violenza di prossimità: si ha una durée temporale, uno stato di oppressione relazionale, asimmetria di potere, una manipolabilità del corpo e infine, una reciproca referenza (Bartholini 2013, p.12). Appare indiscutibile che la violenza domestica abbia come soggetti principali le donne e le loro reazioni sono una parte fondamentale della lotta contro di essa. Ci sono donne in grado di trasformare il dolore in forza e questo permette loro di reagire, di uscire dalla violenza, e di denunciarla diventando anche un modello per altre donne. Allo stesso tempo, però, esistono donne che lasciano libero il loro uomo di insultarle e picchiarle, tollerando e alcune giustificando le azioni, considerando la sua violenza come una debolezza, e convincendosi che per superare questa sua “fragilità” possa bastare lasciargli tempo (De Gregorio, 2008). La performance violenta attuata all’interno di dinamiche oppressive permette la messa in scena di atti (o rituali) drammaturgici (per il riconoscimento del ruolo impersonato) con la successiva accettazione di specifici ruoli assunti all’interno di un frame dinamico (Bartholini 2013). Wieviorka (2005) individua cinque figure di soggetto agente, che Corradi riporta nel suo libro Sociologia della violenza (2009):

«il soggetto alla deriva, per il quale la violenza è espressione di una perdita di senso, l’iper-soggetto che usa la violenza come arma per caricare di significato la propria vita, il non-soggetto che svolge un ruolo […]senza avere piena coscienza di quello che fa, l’anti-soggetto che tormenta la vittima con crudeltà tanto che l’atto si spiega con riferimento a una personalità disturbata e il soggetto in sopravvivenza che usa la violenza per rispondere a una minaccia» (Corradi 2009, pp.68-69).

In una condizione d’oppressione, alcune donne, quindi, si trovano in uno stato di sequestro emotivo e per amore del compagno giustificano la violenza subita, fornendo prova della loro capacità di sopportare e di stare nell’attesa di un cambiamento tra il desiderio di essere amata e la realtà della relazione. La quotidianità dimostra come in certi casi i ruoli addirittura s’invertono e accade che gli uomini violenti siano compatiti

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come se fossero loro le vittime e i bisognosi d’aiuto, mentre le donne al contrario sono trasformate in colpevoli, responsabili di aver provocato una loro reazione.

3.4 Il femminicidio

Spesso, la parola fine al ciclo della violenza non è posta dalla donna bensì dalla sua morte che ne rappresenta l'ultimo atto. Quest’atto è stato battezzato a livello internazionale con il nome di femicidio o femmicidio, mentre nel linguaggio mediatico e in quello quotidiano si chiama, femmicidio o femminicidio55. Questo crimine barbaro non è dettato da follia o raptus momentaneo, ma è una forma di misoginia che si alimenta dall'odio profondo che un uomo prova nei confronti della donna, sia essa moglie, madre, compagna, prostituta o immigrata non fa differenza. La triste verità è che il femmicidio/femminicidio è un fenomeno di grande entità ma è spesso trattato dai media con molta leggerezza, anche se in alcuni casi le trasmissioni televisive aiutano a divulgare informazioni, come ad esempio la testimonianza di donne che in passato sono state vittime di maltrattamenti e che sono riuscite a riconquistare la propria autonomia. Queste donne, oltre a raccontare la loro storia, propagano un messaggio fondamentale ossia la necessità di denunciare e di non pensare mai “è solo uno schiaffo o è solo un livido” perché anche questi atti, seppure in forma minore, costituiscono forme di violenza e non devono essere assolutamente sottovalutati. Ogni forma di maltrattamento, anche quello che a prima vista può sembrare lieve, deve essere interpretato come un campanello di allarme, che possibilmente potrebbe essere l’inizio di tante altre violenze56.

55 La sistematizzazione degli studi sul femmicidio/femminicidio in Italia si deve all’opera di Barbara

Spinelli, cui si rimanda per una rassegna della letteratura in materia. Il termine femmicidio/femminicidio: «è adottato con un significato politico, per indicare le violenze di stampo misogino o sessista degli uomini e delle istituzioni maschili sulle donne» (Spinelli 2008, p.61).

56 Anche se spesso si viene a conoscenza di casi di donne che hanno denunciato, ma che purtroppo hanno

perso lo stesso la vita, non si deve perdere mai la fiducia e nemmeno prendere in considerazione l’idea di non denunciare o di risolvere tutto da sole, perché cosi facendo la violenza domestica rimarrebbe un fenomeno nascosto e si andrebbe a proteggere il proprio carnefice che invece andrebbe assolutamente e severamente punito. La diffusione di queste testimonianze tramite i mezzi di comunicazione è di certo utile; essa permette di far conoscere il fenomeno a chi lo sottovaluta o pensa che non è poi così diffuso. Inoltre, nell’udire la testimonianza di una donna che si è trovata nella stessa situazione, altre vittime potrebbero essere incoraggiate e trovare lo stimolo per poi procedere con la segnalazione chiedendo aiuto per venirne fuori. Sappiamo come è principalmente il fattore cultura dell’intera società che dovrebbe innanzitutto cambiare.

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La prima a imporre pubblicamente l’utilizzo del concetto femmicidio/femminicidio fu Diana Russell (1992) che lo definì come:

«l’assassinio di una donna da parte di un uomo per motivi d’odio, disprezzo, passionali o per un senso di possesso sulla donna».

Il femmicidio/femminicidio non è un atto occasionale, in realtà, la sua caratteristica predominante è quella della continuità e della persistenza, e le istituzioni e lo Stato spesso per la loro negligenza si mostrano complici della violenza maschile. Nella nostra società il fenomeno del femmicidio/femminicidio è stato a lungo considerato come una realtà distante; oggi è chiaro che esso è invece una realtà che appartiene a tutti i Paesi del mondo, in quanto “si tratta di morti annunciate da tempo perché l’evento finale accade dopo una lunga relazione violenta” (Corradi 2011, p. 9). A oggi, tutti i Paesi dell’America centrale possiedono dati e indagini sul femmicidio/femminicidio e grazie a questi documenti sta avvenendo a livello legislativo un riconoscimento. In Europa invece, la ricerca sul fenomeno del femmicidio/femminicidio è in uno stadio iniziale; infatti, l’assenza di una raccolta sistematica di dati effettuata con criteri comuni rappresenta un ostacolo alla comprensione del fenomeno e allo sviluppo di efficaci misure di prevenzione. Corradi (2014) sottolinea che in Italia, mentre il livello di attenzione da parte della ricerca scientifica è ridotto, al contrario ampio spazio è riconosciuto dalle testate giornalistiche. Infatti, l’operato del movimento delle donne, al fine di cercare di ricostruire l’entità del fenomeno, si è avvalso solo dei fatti di cronaca riportati dalle testate giornalistiche e quindi di dati parziali a causa di pochi lavori scientifici (Piacenti 2008, Iezzi 2010). I dati italiani (ISTAT 2006) rivelano le caratteristiche del profilo della vittima e dell’aggressore, rispettivamente il primo è:

«cittadina italiana, giovane adulta o adulta, madre di figli ancora minorenni con lei conviventi, occupata, con livello d’istruzione medio - alto» (Corradi 2014, p. 163). Il secondo:

«cittadino italiano, adulto ma più giovane della vittima, senza precedenti penali, occupato in professioni di minore status della vittima, oppure disoccupato» (Corradi 2014, p. 163).

Avere a disposizione dati statistici e delle ricerche approfondite sul femmicidio/femminicidio, ad esempio, permetterebbe di capire meglio il tipo di legame che unisce l’uomo alla donna e le motivazioni che hanno spinto alla violenza. Un

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maggiore interesse collettivo e istituzionale rispetto al fenomeno, potrebbe essere da stimolo per le donne che sono vittime di maltrattamenti per rivolgersi con più fiducia alle istituzioni, denunciando ogni forma di abuso e riducendo allo stesso tempo i casi. Tutto questo potrebbe avvenire se lo Stato garantisse una vera punibilità del reato commesso, ma, purtroppo, sono ormai manifesti i molti casi di violenza che poi sfociano nelle morte di una donna, per mano di mariti, fidanzati e parenti, che, anche quando erano stati denunciati, hanno incontrato la noncuranza e l’incapacità di tutelare da parte delle autorità preposte a farlo, cosa che ha consentito che l’omicidio si realizzasse lo stesso. La giustizia si attiva spesso solo alla fine, quando l’evento della morte si è già verificato e la morte della donna spesso si riduce a un semplice fatto di cronaca. I dati dell’Intimate partner femicide, infatti, rivelano due tipi di relazioni vittima-aggressore:

«nel primo tipo, troviamo coppie di lunga data. L’IPF accade dopo una serie d’atti di violenza domestica, durante la quale le vittime non hanno avuto la capacità di portare denuncia alla polizia […]; nel secondo tipo, troviamo le coppie recentemente divorziate o separate» (Corradi 2014, p. 164).

La violenza maschile contro le donne, dunque, rappresenta un problema strutturale della società, che si basa sull’inuguale distribuzione di potere nelle relazioni tra uomo e donna e che per essere risolto non necessita solo di misure repressive bensì di un intervento di sensibilizzazione in tutta la società, di formazione degli attori sociali che si occupano dell’assistenza /supporto di chi subisce violenza per motivi di genere. La violenza e le discriminazioni di genere sono un problema culturale e sociale che affligge da secoli la nostra società e che può essere risolto attraverso una strategia globale57, affinché tutte le persone vittime di violenze siano riconosciute in quanto persone, in considerazione dei diritti fondamentali. Trovare delle soluzioni per contrastare la violenza è un compito difficile perché non emerge facilmente. Infatti, è nascosta e tutelata da un'apparente normale quotidianità che impone il silenzio alle stesse vittime le

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Il 25 novembre, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne, il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella ha ribadito che bisogna agire per estirpare la violenza dalla società, esprimendosi in questi termini: «Contrastare la violenza sulle donne è un compito essenziale di ogni società che si proponga la piena tutela dei diritti fondamentali della persona. L'educazione al rispetto reciproco, nei rapporti personali e nelle relazioni sociali, è alla base del nostro vivere civile. La violenza sulle donne è un fenomeno sociale ingiustificabile che attecchisce ancora in troppe realtà, private e collettive e nessun pretesto può giustificarla. Si tratta di comportamenti che vanno combattuti fermamente. La scuola e le altre attività in cui si esplica la crescita della persona devono essere in prima fila contro ogni forma di violenza, pregiudizio e discriminazione».

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quali, il più delle volte, non riescono a percepire come aggressivi o violenti atteggiamenti o azioni agiti nei loro confronti da chi è al loro fianco e condivide la stessa realtà.

In conclusione, si può affermare che per rendere il femmicidio/femminicidio, un