• Non ci sono risultati.

Due culture lontane

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 40-44)

Tra le angustie piccolo-borghesi e la pratica della « missione » di insegnante, si viene così formando la mentalità e la cultura di Vallet-ta. Nel ricostruire la formazione di questo professore adolescente, verrebbe spontaneo ricercare eventuali rapporti con gli ambienti più rinomati della cultura torinese, eventuali addentellati con i circoli in-tellettuali di maggior rilievo, in quella dinamica fase di trasformazio-ne che caratterizzò il passaggio dall'Ottocento al Novecento.

formazione, si presenta con tratti molto definiti, quasi unilaterali, tanto da poter essere inquadrata su un unico binario, cioè quello del-la conquista rapida, quasi frenetica, di una solida cultura professio-nale fatta di bilanci, perizie amministrative, liquidazioni e fallimenti. Ma al di là di questi confini, si trova ben poco. Troviamo una sola, casuale e brevissima parentesi estetizzante: un fortuito incontro con la poesia di Leconte de Lisle, allora giudicato in Italia « colonna mi-liare nella via della storia interiore degli uomini». Ma Valletta non è una « anima bella » e non ha il culto della propria interiorità. Il subli-me dei poeti decadenti, i ripiegasubli-menti intimistici e gli sfumati crepu-scolari gli sono estranei. Guarda sempre e soltanto al futuro, al tem-po reale del lavoro e ai suoi frutti tem-possibili. E parimenti estraneo gli fu quel tanto di realismo sociale che si può trovare nella letteratura in voga a Torino in quei decenni, da Bersezio a De Amicis, da Arturo Graf a Giovanni Cena. Certamente, l'afflato umanitario e filantropi-co di questa letteratura aveva qualche affinità elettiva filantropi-con il mondo aspro e angusto di cui si era nutrita la giovinezza di Valletta; eppure trasmetteva un'immagine della «realtà» scoraggiante e falsificata, che non poteva non sembrargli caricaturale e malata di retorica.

Nel praticismo spinto della sua cultura, Valletta ebbe un sostan-ziale disinteresse, pur accompagnato da profonda devozione e ammi-razione, anche per la prestigiosa cultura economica che, a Torino, si andava formando e diffondendo per opera di maestri della statura di Luigi Einaudi e Pasquale Jannaccone. Tra le carte di Einaudi si tro-vano, certamente, alcuni biglietti da visita di Valletta, stampati in vi-stosi caratteri neogotici, che accompagnavano le sue rare pubblica-zioni; ma a parte questo, non riusciamo a trovare alcuna traccia di un vero interesse per il poderoso lavoro di ricerca e di riflessione svolto da Einaudi e dagli economisti della scuola torinese.

Valletta è un giovane ambizioso, con una straordinaria capacità di lavoro e un prepotente desiderio di affermazione. È ancora un ra-gazzo, ma si comporta già come un protagonista, secondo una scelta molto precisa, che si risolve in due imperativi: amministrare e inse-gnare ad amministrare. La molla che carica il suo attivismo, tuttavia, non è il desiderio di accumulazione, quanto il bisogno di acquisire un ruolo sociale riconosciuto. E un tema che affiora anche nei suoi scritti sull'insegnamento economico-commerciale:

« ...mutate le condizioni sociali, chiamata ormai ogni classe di individui a partecipare sotto le più svariate forme al lavoro produttivo, la formazione del cittadino-produttore era ed è il problema che interessa la collettività, an-ziché una sola particolare casta ».

E non tralascia di sottolineare che lo scopo di qualsiasi tipo di in-segnamento è quello di

« sviluppare nel giovane, col senso del gusto e del raziocinio, quello del-la responsabilità per del-la futura condizione di elemento e parte del civile con-sorzio al quale le alte conquiste democratiche lo vogliono chiamato ».

Le « conquiste democratiche » cui accenna Valletta non sono tanto nuove prerogative politiche, ma soprattutto una più ampia possibilità di conquistare ed esercitare una funzione sociale ricono-sciuta e specializzata. Nella società moderna dunque, secondo Val-letta, la scuola è chiamata a diffondere tecniche professionali e a in-fondere nel cittadino il senso della responsabilità, l'orgoglio del me-stiere, il dovere del servizio da rendere alla collettività: nella società moderna la democrazia del lavoro, tendenzialmente, è una sorta di aristocrazia di massa, nella quale la conquista e l'esercizio di una fun-zione professionale sostituisce e sovverte le gerarchie dell'antico regi-me creando nuovi rapporti di interdipendenza e di reciprocità fra gli uomini.

Valletta sceglie un ruolo: amministrare e insegnare ad ammini-strare. La sua cultura è tutta amministrativa e lo porta ben presto in contatto con le realtà più diverse: enti di beneficenza, scuole di com-mercio, aziende, banche, cooperative di produzione e di consumo, case cinematografiche, organizzazioni culturali, imprese italiane e straniere. Per Valletta l'amministrazione è un codice di procedure autonomo, obbiettivo, che può essere applicato a qualsiasi tipo di istituzione.

Eppure, nonostante il carattere unilaterale della sua cultura, Val-letta è tutt'altro che un freddo o un arido: la sua professione di am-ministratore, tutta orientata verso l'utilizzazione razionale delle risor-se, è animata da un forte spirito di missione. Non sono le grandi idee a stimolare la sua intelligenza; piuttosto i meccanismi della nuova realtà economica che si va affermando in quegli anni di primo decol-lo industriale e che crea nuovi compiti finanziari, amministrativi, tec-nici, produttivi. Sono questi i compiti che si offrono alla piccola e media borghesia come una possibile via di riscatto dalla tetraggine dei pubblici uffici e dalle funzioni di routine a cui era rimasta tradi-zionalmente legata.

Dalla Scuola Superiore di Commercio di Venezia giungerà pre-sto a Torino un manifepre-sto programmatico che riassume emblemati-camente queste aspettative e queste inedite, obbiettive esigenze della società civile:

« Tutti sentono ormai che una larga cultura specifica è diventata una ne-cessità per chi voglia dedicarsi alla mercatura e all'industria. Troppi feno-meni bisogna conoscere e dominare, di troppi possenti organismi bisogna saper maneggiare i delicati congegni, troppo aspra è diventata la concorren-za e d'altra parte troppe legittime ambizioni sociali e politiche sono permes-se all'uomo d'affari moderno perché possa espermes-sergli arma bastevole l'antico superficiale empirismo, anche aiutato da qualche geniale intuizione».

Sono finiti i tempi, prosegue il documento, in cui un Andrew Carnegie poteva vantarsi di essere diventato milionario senza essere andato oltre gli studi elementari. I casi come questo, se pur continue-ranno ancora a verificarsi, sacontinue-ranno sempre eccezioni.

« Per essi non è fatta la Scuola, a cui non si chiede di creare gli uomini straordinari, ma di elevare il livello degli uomini medi. Notiamo piuttosto una tendenza caratteristica dei nostri tempi, per ciò che concerne la forma-zione degli organismi commerciali e industriali. I grandi vanno sostituendosi ai piccoli; le aziende individuali, le società in nome collettivo, le accomandi-te semplici vanno cedendo il posto alle società per azioni e anche in questo c'è una tendenza a fondersi e concentrarsi. A fianco della burocrazia di stato ne sorge una nuova: la burocrazia delle banche, delle compagnie di assicura-zioni, di trasporti, di produzione, di consumo; e la mente direttiva esce il più delle volte per via di selezione dalla falange degli impiegati. Ne risulta manifesta la convenienza di educare quello che chiameremo lo stato mag-giore del commercio, destinato a far funzionare le varie imprese e dar loro i capi che le guidino a buon successo».

In realtà, solo una modesta frangia della piccola e media borghe-sia rispose alla sfida e colse l'occasione; ma Valletta fece parte di questa schiera di « uomini nuovi » che vollero e seppero contribuire, attraverso la loro cultura professionale, pur con quel tanto di angu-sto e unilaterale che la caratterizzò, allo sviluppo del capitalismo ita-liano.

E stato detto, e più volte ripetuto, che nell'epoca della rivoluzio-ne industriale italiana, non ci fu una vera e solida cultura industriale. Molti studi recenti hanno viceversa dimostrato che questa cultura, pur con tutti i suoi limiti, si formò e svolse la sua funzione. A Torino ci fu intanto una schiera di qualificati studiosi positivisti, ai quali si può ben far credito di aver tentato « d'intendere la dinamica sociale e di averne progettato il corso partendo dall'analisi dei fatti e da un ampliamento delle scienze». Non furono certo i sacerdoti magnilo-quenti e superficiali dello scientismo a offrire concreti strumenti ef-ficaci al nascente industrialismo, ma invece una costellazione di stu-diosi che diedero una impronta alle scuole di ingegneria e di chimica,

di idraulica e di fisica. Come esempio, la tradizione di Amedeo Avo-gadro e di Stanislao Cannizzaro continuò con alcuni allievi alla cui opera è grandemente debitrice l'industria metallurgica otto-novecen-tesca. Si può aggiungere un altro nome illustre: quello di Galileo Ferraris e quello di un suo allievo, Camillo Olivetti. Le esposizioni industriali torinesi, il Politecnico, gli istituti tecnici produssero e tra-smisero professionalità industriale ai quadri dello sviluppo. A queste istituzioni si dovrebbe aggiungere una miriade di anonimi sperimen-tatori geniali e curiosi che fecero la loro parte. Lo stesso Valletta lo ricordò, spesso. La cultura più specificamente aziendale e ammini-strativa si arricchì poi, nel 1906, con la fondazione della Regia Scuola Superiore di Commercio, nata e cresciuta in stretto e fecondo rap-porto con le rinomate scuole di Venezia, Bari e Genova.

A Torino, dunque, la cultura industriale c'è e vive anche una sta-gione molto fruttuosa, ma conduce un'esistenza discreta e lontana, come ha scritto Norberto Bobbio, dallo « strepito di letterati in cerca di fedi in cui credere, di grandi missioni in cui esaltarsi, di primati in cui consumare il proprio senso di impotenza». Eppure la cultura to-rinese rientra nel circolo della cultura nazionale soprattutto attraver-so la letteratura, le arti figurative e, qualche anno dopo l'inizio del se-colo, attraverso il cinema. Gli stessi dibattiti, più o meno fecondi, sul processo di industrializzazione, non avvengono a Torino. Bisogna spostarsi a Napoli, dove l'editore Pierro pubblica dal 1894 quella « Riforma Sociale » che si afferma immediatamente come « formida-bile officina di ingegneria modernizzatrice », prima dell'avvento della condirezione di Luigi Einaudi.

Valletta appartiene ad un livello della cultura industriale, quello delle tecniche amministrative, che meno di ogni altro si concede eva-sioni intellettuali.

In questo, e forse soprattutto in questo, Vittorio Valletta è un personaggio torinese: lavoratore serio e indefesso, anche capace di esuberanti entusiasmi vitali, ma scettico e schivo verso i circoli intel-lettuali, le conventicole dei retori e dei dotti, le accademie che spez-zano il pane di una scienza non immediatamente consumabile.

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 40-44)