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Idee per una vita

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 113-123)

II. In guerra, a Torino

5. Idee per una vita

L'idea di allargare l'area sociale degli utenti dell'auto era già ma-tura alla fine degli anni venti. Tuttavia, se nei primi tempi di Valletta alla Direzione Generale della Fiat, produzione, occupazione e vendi-te povendi-tevano ancora giustificare quesvendi-te aspettative, il precipitare della crisi economica mondiale e le diverse ondate della depressione co-strinsero l'azienda ad adottare misure drastiche: diminuzione del personale, riduzione dei salari, economie rigorose in tutti gli uffici. Anche la Fiat, che da anni si prefiggeva un programma di razionaliz-zazione organizzativa capace di consentire un crescente contenimen-to dei costi, faceva i conti con una serie di fatcontenimen-tori incontrollabili, co-stituiti soprattutto dall'incomprimibilità di alcune spese. Fu così che alcuni contingenti di lavoratori Fiat andarono ad infoltire l'esercito dei disoccupati.

Questa situazione innescò un dibattito sulla crisi e la disoccupa-zione, che si allargò poi alla collocazione della Fiat nel sistema eco-nomico italiano. Nel giugno del 1932, venne chiesto a Giovanni Agnelli di esprimere la sua opinione sulla crisi e di suggerire rimedi. Lo fece con un'intervista alla United Press, che ebbe ampia eco sulla stampa e negli ambienti politici internazionali. Ritornerà poi sullo stesso tema in un confronto di tesi con Luigi Einaudi, riportato tra la fine del 1932 e l'inizio del 1933 su «La Riforma Sociale».

Passando da una diagnosi di ordine generale al concreto proble-ma della disoccupazione, Agnelli suggeriva una soluzione, non pro-priamente originale, che tutelasse il potere d'acquisto dei lavoratori: una riduzione delle ore di lavoro, accompagnata da un aumento del-la paga oraria.

Anche Valletta intervenne nel dibattito, con due scritti del di-cembre 1932 e gennaio 1933. Privi di finezza teorica e di eleganza sti-listica, sono tuttavia importanti. I giudizi espressi da Valletta, infatti, preannunciano a grandi linee la politica che egli realizzerà nel secon-do secon-dopoguerra. Il pensiero procede per formule sintetiche e per in-tuizioni generali. Il titolo di uno dei saggi, « La razionalizzazione in un mondo non razionale», riassume una convinzione che lo accom-pagnerà fino alla fine dei suoi giorni: l'organizzazione scientifica del-la produzione industriale non è responsabile deldel-la disoccupazione, è l'industria l'unico continente del mondo economico che abbia fatto e continui a fare progressi significativi nell'uso razionale delle risorse disponibili. A questo proposito, Valletta, facendo proprio il pensiero di un teorico francese, scrive:

«L'industria razionalizzata potrebbe parlare così al resto del mondo economico-sociale: le mie macchine funzionano, i miei impianti sono solidi, i miei calcoli si verificano all'infinitesimo, quanto al rendimento degli utensi-li che io invento ed impiego ed alle officine che costruisco... Ma voi, amici miei, voi colleghi delle industrie similari e sussidiarie, del commercio e della finanza, voi che tenete il governo della politica, della banca, del credito, de-gli affari in genere, che fate voi, voi che siete così manifestamente incapaci di assecondare la continuità del mio sforzo tecnico con la vostra politica, con la vostra economia, con la vostra finanza?»

Secondo Valletta, la crisi e la disoccupazione non devono essere imputate alla razionalizzazione della produzione, ma alla scarsa di-sponibilità di moneta e di mezzi di scambio, a sua volta dovuta a fat-tori di ordine politico generale: « Il meccanismo commerciale e cre-ditizio - scrive Valletta - non solo non si è razionalizzato, ma si è fer-mato...».

Dunque, la crisi e la disoccupazione non vanno imputate alla ra-zionalizzazione tecnica e organizzativa della produzione, ma alla scarsa disponibilità di moneta e di mezzi di scambio.

«Il meccanismo commerciale e creditizio non solo non si è razionalizza-to, ma si è fermarazionalizza-to, fino a spezzarsi: barriere doganali sempre più elevate, divieti d'importazione, contingentamenti, valute vincolate, disdetta dei cre-diti, sfiducia generale».

La razionalizzazione di questi meccanismi potrà venire soltanto da una «organizzazione e disciplina internazionale», che non sarà basata sull'astratto modello del «libero scambio assoluto», ma dovrà comunque fare giustizia delle impenetrabili barriere erette dal « pro-tezionismo proibitivo », nelle quali Valletta ravvisa una semplice stra-tegia difensiva che « prescinde dalla interdipendenza di tutte le for-me e forze economiche». Il mondo dell'economia moderna non può fondarsi sul terreno di presunte armonie naturali e di interessi spon-taneamente omogenei tra loro: è ogni giorno di più sostenuto da un insieme di realizzazioni « artificiali », prodotte dagli operatori econo-mici e politici. Il compito specifico di questi è di guardare da un gra-dino più elevato le forze in gioco e promuovere la razionalizzazione dei loro comportamenti trovando

« quel minimo denominatore comune di libertà commerciale che con-venga allo sviluppo di tutti gli stati e di tutte le maggiori attività economiche di ogni stato, sia dell'industria che dell'agricoltura».

Naturalmente la Fiat rientrava tra « le maggiori attività economi-che» dell'Italia e aveva titolo a tutte le forme di protezione necessa-rie a tenere in vita la sua fitta e ramificata rete di interessi, a tutela della sua collocazione nell'economia italiana. L'anno prima la Fiat aveva ottenuto che una serie di misure doganali scoraggiassero sul nascere la progettata installazione, a Trieste, di un'officina Ford. Ma anche indipendentemente dalle circostanze che dettavano a Valletta i suoi «appunti sulla crisi», era già chiara la sua propensione ad inseri-re la Fiat nel mercato internazionale facendosi forza di un quadro di relazioni concordate e garantite anche a livello politico. Infatti, un'indiscriminata apertura degli scambi internazionali avrebbe con-dannato l'industria automobilistica italiana a soccombere di fronte alla produzione americana, con la sua facile disponibilità di materie prime e con la sua gigantesca scala di operazioni. Nello stesso tempo, sarebbe stato anche illusorio confidare eccessivamente nel pur acce-lerato progresso della tecnica e dell'organizzazione aziendale. Vallet-ta, come prende le distanze dal liberismo associandosi alle « prediche keynesiane» di Giovanni Agnelli, così si mostra cauto di fronte a quanti negli Stati Uniti avevano teorizzato « il governo degli ingegne-ri». Ammira il pensiero tecnocratico che, secondo lui, ha avuto il merito di riprendere il concetto marxista di sviluppo dei mezzi di produzione, «non più come criterio rivoluzionario di classe, ai fini dell'abolizione della proprietà privata e dell'iniziativa individuale, bensì come criterio di un'ulteriore evoluzione del sistema

capitalisti-co su quelle stesse basi che lo definiscapitalisti-cono; evoluzione resa inevitabile dal fattore dominante del progresso tecnico». Infatti, proprio quello che viene chiamato ottimisticamente il «progresso tecnico», per quanto proceda come una forza inarrestabile, «non è detto che deb-ba svolgersi rettilineo»; l'imprevisto e l'imponderabile, «i cataclismi della natura, le catastrofi della storia, possono ad un certo momento spezzare il divenire di ogni progresso, anche quello meccanico. Per-ciò la linea del progresso non è mai una retta, ma è una linea tortuo-sa, a zig-zag». In ogni caso, anche spingendo al caso limite le ipotesi prospettate dalla tecnocrazia, resterebbe pur sempre aperto il blema del rapporto tra produzione e consumo, cioè « un grosso pro-blema di pulizia, d'ordine, di burocrazia per la distribuzione e il go-dimento dei beni: problema che richiederebbe a sua volta una certa organizzazione di lavoro » e quindi una permanente mobilitazione di « quelle stesse forze innovatrici che hanno rinnovata l'industria vin-cendo pregiudizi, pigrizie, timidezze, abitudini che evidentemente non rispondono più alla realtà sociale del nostro tempo».

Secondo Valletta, in Italia, alla Fiat, queste forze innovatrici del-l'industria si erano personificate in Giovanni Agnelli: ai suoi occhi, il presidente della Fiat non era più soltanto l'indiscusso « capo di tutti noi», dotato di rara capacità di comando e di iniziativa; e non era nemmeno una riproduzione italiana di Henry Ford, che costituiva piuttosto un mito della prima ora, appannatosi col tempo. Agli occhi di Valletta, Giovanni Agnelli assumeva le dimensioni eroiche di un industriale che era riuscito a realizzare ciò che la povertà di materie prime, l'inesistenza di un'adeguata rete di industrie fornitrici e i mol-ti connotamol-ti di arretratezza della società italiana avrebbero categori-camente sconsigliato.

«Non soltanto spirito d'iniziativa», scriveva Valletta, «ma forza d'inge-gno, coraggio audace hanno dovuto avere quegli industriali che per i primi, in industrie nuove e perciò difficili, hanno sperimentato in pieno la raziona-lizzazione. Anche maggiore deve riconoscersi il merito di coloro che tale esperienza sono riusciti a fare con successo in paesi non così industrialmente dotati come il Nord-America: in Italia, per esempio, dove la creazione e gli sviluppi della Fiat costituiscono a Giovanni Agnelli un titolo di benemeren-za europea».

Valletta non aveva bisogno di adulare Agnelli, il quale peraltro non amava gli adulatori. Come ricorda Pininfarina, interrompeva sul nascere gli atteggiamenti cortigiani con un eloquente: « ca lassa per-de» («lasci perdere»). Piuttosto, Valletta vedeva in Agnelli

l'emble-ma di un'azienda industriale che, a rigore di logica, non avrebbe do-vuto esistere: tuttavia esisteva, operava e si espandeva a dispetto di tutti i fattori negativi. In queste condizioni, nacque la visione della Fiat come un'entità separata e diversa, meritevole di esenzioni e li-bertà speciali in nome dei suoi caratteri originari e dei larghi interessi sociali che era riuscita a creare e ricreare.

Nel 1932-33, la prospettiva entro cui il pensiero di Valletta si muove, coerentemente con l'impostazione data al dibattito sulla ri-duzione dell'orario di lavoro da Agnelli, cerca di sottrarsi alla logica esasperata della cinghia stretta, dei bassi salari e della deflazione (de-stinata peraltro a prevalere). Nello stesso tempo respinge la visione illusoria di un «universale paese di Bengodi» promesso dal movi-mento tecnocratico americano. Il significato di queste posizioni è ap-parentemente semplice. Il capitalismo, per sopravvivere alle crisi che lo incalzano, ha bisogno di una forza politica che lo animi e gli inse-gni a vivere in un mondo complesso di entità diverse e interdipen-denti. Contemporaneamente, necessita di un'opera generale di inno-vazione che va molto al di là della pur necessaria razionalizzazione della produzione e che dovrebbe investire tutte le istituzioni sociali. Nonostante tutte le affinità che potevano legare Agnelli e Valletta al-la lezione americana di Ford e di Taylor, entrambi ritenevano che al-la razionalizzazione dell'economia fosse un compito troppo delicato e importante per essere affidato ad un «governo degli ingegneri».

Le posizioni di Agnelli e di Valletta non andarono al di là delle enunciazioni. Per essere tradotte in pratica, avrebbero comportato una totale rottura con la linea allora adottata da tutta l'industria ita-liana e altre prove di forza con il regime fascista. Non ci furono né l'una né le altre.

Le riflessioni di Valletta, formulate in uno dei momenti più oscu-ri della coscu-risi economica, sono comunque significative. Esse prean-nunciano le linee del disegno imprenditoriale che prenderà corpo nel secondo dopoguerra e che ispirerà la politica della Fiat attraverso la ricostruzione e lo sviluppo degli anni cinquanta e sessanta. Gli ele-menti essenziali di questo disegno si precisarono negli anni trenta al-la scuoal-la di Giovanni Agnelli e in antitesi con il progressivo affermar-si del protezionismo e del « dirigismo » della politica economica fa-scista, con i suoi controlli sulle operazioni valutarie e sulle importa-zioni (1934-35), con i suoi contingentamenti di materie prime e con la concentrazione e la selezione degli investimenti da parte dell'Isti-tuto per la Ricostruzione Industriale, creato nel 1933.

Tra le altre cose, Valletta imparò da Agnelli che sull'intervento dello Stato nell'economia non era il caso di sollevare questioni di

principio: si doveva, di volta in volta, caso per caso, concordare e condizionare le modalità di tale intervento. E la Fiat riuscì sempre a stabilire con lo Stato opportuni e anche soddisfacenti compromessi. Ma a lungo andare il già difficile rapporto di convenienza tra la Fiat e il regime fascista si logorò. La svolta venne con l'imposta spe-ciale del 10 per cento sul capitale delle società per azioni, decisa dal governo Mussolini nell'ottobre del 1937.1 sentimenti con cui Agnelli e Valletta accolsero la notizia sono documentati dal testo di una loro telefonata, intercettata dal Servizio Speciale Riservato e inoltrata al Duce. Agnelli chiama Valletta e chiede: «Sa già qualche cosa sul Consiglio dei Ministri di stamane? ». Risponde Valletta: « Hanno fat-to quello che le dicevo ieri, cioè il prelievo del 10% sul capitale delle anonime». Agnelli: «Pagabile subito?». Valletta: «No, rateale, co-munque il 10% è forte ». Ancora Agnelli: « E altre porcate? ». Vallet-ta risponde «Nient'altro» e chiude.

Agnelli e Valletta erano sempre più perplessi per la politica estera del regime, impastata di motivazioni ideologiche e di offen-sive ostentazioni di aggressività velleitaria nei confronti di nazioni con cui la Fiat aveva e intendeva tenere costanti rapporti di buona amicizia.

Ma fu soprattutto la politica autarchica a mortificare le possibili-tà di espansione dell'industria automobilistica italiana, imponendole una camicia di forza che la isolava dalle sue vitali fonti di approvvi-gionamento. Valletta rievocherà più tardi, come lezione amara e sa-lutare, i vertiginosi giochi di equilibrio a cui la Fiat si trovò allora co-stretta nella definizione dei prezzi:

« Il regime autarchico ci ha rovinati tutti e questo credo che sia capito senza bisogno di ragionamenti accessori. Dovevamo conquistare mercati stranieri e ci trovavamo nella condizione di dover fare una piccolissima pro-duzione, la quale non è sufficiente per avere dei bassi prezzi. Ciò era conse-guenza della mentalità italiana secondo cui il prodotto di serie (e questo lo dicono anche persone intelligenti) è naturalmente un prodotto di second'or-dine, mentre la produzione non di serie è un prodotto magnifico. Ci voleva-no quindi dieci, quindici forme di carrozzeria, chiuse o aperte, mentre è di-mostrato dai nostri conti interni che, perchè un tipo di carrozzeria possa es-sere immediatamente economico, ci vogliono almeno ventimila esemplari di quel tipo di carrozzeria. Per tutte queste ragioni ci trovavamo nella condi-zione che le proporzioni di quantità delle macchine da costruire, se avessero dovuto essere fatte per la sola Italia, sarebbero state non solo antieconomi-che, ma addirittura impossibili. Allora che cosa convenne fare? Siccome avevamo avuto la fortuna che gli iniziatori della Fiat, Agnelli e Fornaca, ave-vano puntato il loro lavoro soprattutto sulla riduzione dei prezzi all'estero,

noi abbiamo seguito la stessa politica ... Naturalmente all'estero, finivamo di incontrarci con gente che, disponendo di grosse quantità, aveva già dei prezzi di battaglia ... Ci trovavamo in condizione che, per poter produrre in quantità semplicemente economica, dovevamo esportare e, per esportare, dovevamo praticare un prezzo basso che talvolta era la metà del prezzo di costo. E questa metà del prezzo, per compensazione, sulle quantità che face-vamo per l'interno. Questo succedeva prima della politica autarchica. La politica autarchica ha aggravato la situazione, evidentemente, col costo del-l'autarchia, che abbiamo sopportato tutti».

L'eloquenza lascia a desiderare, ma la «via italiana alla motoriz-zazione » è delineata con perfetta chiarezza.

Il programma impostato da Valletta nel secondo dopoguerra nacque dalla mancata o parziale realizzazione di un programma simi-le dopo la metà degli anni trenta. Embsimi-lematico è il caso della « Topo-lino», la prima vettura «500» prodotta dalla Fiat nel 1936. L'idea fu di Giovanni Agnelli e la realizzazione di Dante Giacosa, uno degli astri delle costellazioni di progettisti che Agnelli era riuscito a mette-re insieme. Da quasi tmette-rent'anni, a Torino e dintorni, meccanici auto-didatti e progettisti di grande esperienza si cimentavano nel tentativo di costruire una piccola vettura leggera. Un tentativo in questa dire-zione venne fatto anche dalla RIV di Villar Perosa, la fabbrica dei cu-scinetti a sfere, nel 1909-10. A parte i successi pionieristici ma ef-fimeri dei fratelli Temperino, c'era stata una sequenza ininterrotta di fallimenti. Tra questi va ricordato quello della vettura sperimentale progettata da Oreste Lardone nel 1931: si incendiò ed esplose su un percorso collinare, nei pressi di Torino, mettendo in serio pericolo la vita di Giovanni Agnelli, che riuscì a balzare con bella prontezza dal-la vettura, mentre questa si trovava già in avanzato surriscaldamento. Lardone venne licenziato; i collaudatori, non molto convinti fin dal-l'inizio e persino ostili, gongolarono e dovettero passare altri anni prima che la Fiat avesse la sua prima utilitaria.

Quando finalmente la «Topolino» venne messa sul mercato eb-be l'alto elogio di Mussolini, che la definì «la vetturetta del lavoro e del risparmio». Ma tutti gli elogi non sarebbero bastati a mutare la realtà di un mercato che assorbiva ancora in misura ridotta un tipo di prodotto che presupponeva una scala di vendita ben più elevata. Il direttore commerciale della Fiat andò molto vicino alle dimissioni. Il mercato, oltre alle sue limitazioni intrinseche, era anche condiziona-to da taluni atteggiamenti del pubblico espressi con molta chiarezza in una lettera anonima giunta a Mussolini, nel settembre del 1939: «In Italia credere alla vetturetta utilitaria è come credere all'utopia dell'avvento del sole dell'avvenire! ». La «Topolino», dopo inizi

dif-ficili, ottenne successi ragguardevoli, ma l'obiettivo della « motoriz-zazione» era ancora molto lontano.

M e difficoltà del momento, Agnelli e Valletta supplirono con spericolate commesse militari al Giappone e alla Cina, pagate con in-genti quantità di semi di soia, poi rivenduti alle industrie olearie ita-liane. Supplirono anche con meno spericolate e spregiudicate inter-mediazioni commerciali tra il Governo italiano e alcuni governi, tra cui la Germania e l'Austria, ancora vincolati alle clausole del trattato di Versailles intese a limitare la ricostruzione degli apparati bellici. Furono affari colossali, i cui proventi consentiranno alla Fiat di so-pravvivere per tutto il periodo dell'occupazione tedesca, dal settem-bre del 1943 all'aprile del 1945, durante il quale Wehrmacht e Luft-waffe si rivelarono, oltre che ospiti sgraditi, debitori cronicamente insolventi.

Nel corso degli anni trenta, alla scuola di Agnelli, altri elementi si aggiunsero alla concezione industriale di Valletta. Prima fra tutte, l'i-dea costante, quasi ossessiva, di « creare lavoro ». Agnelli amava ripe-tere uno slogan: « piuttosto di lasciare la gente in ozio, meglio fabbri-care fuochi d'artificio di giorno e spararli di sera». Lo sforzo di crea-re lavoro crea-resterà una delle parole d'ordine ricorcrea-renti, anzi martellan-ti, nelle esortazioni rivolte da Valletta a tutti i suoi interlocutori, pri-ma e dopo la guerra. Fu anche un impegno perseguito in forme di-verse, non tutte universalmente accettate e gradite. La professione di idee socialiste, comunque, trovava nella crescita dell'occupazione la sua giustificazione più persuasiva. Forse l'unica.

Nel corso di questa sua nuova idea di «formazione» al governo dell'industria, Valletta assimilò da Agnelli anche un'altra idea domi-nante: la visione di un'azienda concentrata attorno al grande com-plesso produttivo di Mirafiori, ai margini meridionali della città di Torino, lungo l'antica strada che conduceva a Stupinigi e alla palaz-zina di caccia della famiglia regnante. Gli acquisti dei terreni erano già avviati dal 1934 e nel corso del 1936 avevano assunto un ritmo accelerato. Si procedette molto oculatamente: vennero acquistati in successione piccoli e medi appezzamenti fino a coprire un'area di più di un milione di metri quadri. Per non mettere in movimento la spe-culazione immobiliare e, comunque, per non creare troppe aspettati-ve nei aspettati-venditori aspettati-vennero anche create opportune coperture. Lo stes-so Valletta, che fin dal 1922 aveva curato molte compravendite di immobili della Fiat, tra le molte altre cose, effettuò anche un paga-mento di terreni « in zona Mirafiori » a nome di un'improbabile So-cietà Ortofrutticola Bresciana.

del Governo», nel settembre del 1936 e nel febbraio del 1937, veni-va presentato il progetto del nuovo stabilimento di Mirafiori, inteso a

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 113-123)