• Non ci sono risultati.

L'epoca del Lingotto

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 80-110)

II. In guerra, a Torino

1. L'epoca del Lingotto

Valletta era uno dei molti «uomini nuovi» che conquistarono posizioni direttive alla Fiat negli anni compresi tra l'inizio della pri-ma guerra mondiale e il trasferimento della produzione automobili-stica nei nuovi stabilimenti del Lingotto, realizzati tra il 1916 e il 1920 in Via Nizza, in una zona allora periferica di Torino.

Quel periodo vide l'affermazione di una nuova classe di dirigenti e amministratori industriali, ingegneri, organizzatori della produzio-ne e operatori commerciali.

Alcuni nomi sono emblematici, oltre a quello di Valletta. Ugo Gobbato, forse il più geniale organizzatore industriale di tale perio-do, fin dal 1919 studiò il nuovo assetto delle officine di produzione degli autoveicoli e sarà il vero coordinatore del trasferimento e della riorganizzazione degli impianti nello stabilimento del Lingotto, di cui diventò direttore nel 1922. Tranquillo Zerbi, un ingegnere di for-mazione svizzero-tedesca, negli anni venti fu il principale artefice delle vittorie automobilistiche e aeronautiche della Fiat; sostituirà nella direzione degli uffici tecnici Carlo Cavalli, un avvocato trasfor-matosi in progettista di automobili. Domenico Taccone, passato dal-la Ansaldo aldal-la Fiat nel 1922, sarà uno dei protagonisti dell'espansio-ne della produziodell'espansio-ne siderurgica Fiat, forte di strette relazioni con l'industria tedesca. Celestino Rosatelli, operò con successo nella pro-gettazione aeronautica, dopo l'esperienza fatta all'Ansaldo e alla Di-rezione Tecnica dell'Aviazione Militare. Dall'Ansaldo giunse anche Guido Soria, che reggerà l'organizzazione commerciale della Fiat fino al 1938, quando verrà inviato negli Stati Uniti. Nello stesso pe-riodo giunse alla Fiat Antonio Fessia, genio e sregolatezza della

prò-Torino, anni Venti: Piazza Castello e la via Garibaldi.

L'androne dello stabile di via Garibaldi 23, abitazione e studio professionale di Valletta, distrutto dai bombardamenti alleati l'8 dicembre 1942.

Gli stabilimenti Fiat di corso Dante nel 1912: a destra, in primo piano, l'attuale sede del Museo e Centro Storico Fiat, a sinistra l'attuale sede della Scuola Allievi Fiat.

La timbratura nelle Officine Ricambi di corso Dante nel 1916.

Aspetti della nuova di-mensione edilizia, im-piantistica e produtti-va della Fiat dopo la guerra mondiale. La pista soprelevata di prova delle officine Lingotto nel 1923.

La rampa elicoidale di collegamento tra la struttura verticale del-le officine del Lingotto e la pista soprelevata.

Un dirigente tecnico dei primi anni della Fiat: l'ingegnere Tranquillo Zerbi (al centro) al Gran Premio Automobilistico di Francia nel 1922.

gettazione automobilistica. Infine, nel 1921, alla Scuola Apprendisti venne chiamato a insegnare Asrael Callabioni, autore di una esem-plare Matematica d'Officina, che attesta eloquemente la complessità delle prestazioni richieste agli operai specializzati della nuova fabbri-ca: quella schiera di lavoratori professionisti che nel gergo della Tori-no industriale passaroTori-no come « cui ca san fè i ciapin a le musche » (quelli che sanno ferrare le zampe alle mosche).

Non è arbitrario definire questo periodo « l'epoca del Lingotto », lo spartiacque tra l'artigianato di altissimo livello praticato dalla Fiat delle origini e l'industria di grandi dimensioni. È pur vero che, du-rante la prima guerra mondiale, gli stabilimenti Fiat avevano soppor-tato uno sforzo produttivo enorme: dai 7.600 autoveicoli del 1915 si era passati ai 16.500 del 1918. Tuttavia, ci volevano ben altre struttu-re produttive per operastruttu-re nei nuovi orizzonti che Agnelli, con molto ottimismo, vagheggiava quando delineò la propria visione di un'Eu-ropa federata nel volume Federazione Europea o Lega delle Nazioni?, scritto mentre il primo conflitto mondiale era ancora in corso, in col-laborazione con l'economista liberale Attilio Cabiati, docente presso l'Istituto Superiore di Commercio di Genova.

L'ottimismo dei due autori è temperato soltanto dall'ansia per la vittoria dell'Intesa e dalla consapevolezza dei problemi che si affac-ceranno sulla scena dell'Europa postbellica:

« La vittoria è necessaria per annientare lo spirito prussiano, per rico-struire gli Stati secondo la nazionalità, per creare le condizioni di tranquillità su cui erigere l'edificio della nuova unita Europa. Ma non dimentichiamo che la creazione di tale edificio è il compito maggiore della vittoria.

Sarebbe inutile lottare, spargere mari di sangue, distruzioni, dolori in-finiti per la riconquista della libertà, ove poi, a vittoria raggiunta, lasciassimo l'edificio incompiuto e dessimo di nuovo libero il passo alle forze della rea-zione. Il prussianesimo non è soltanto in Prussia: è presso ognuno di noi: è il vero, grande nemico che dobbiamo definitivamente liquidare».

Secondo Agnelli e Cabiati, vinto il prussianesimo in Prussia, si trattava di sconfiggerlo anche «presso ognuno di noi». E questo sa-rebbe stato possibile soltanto entro gli orizzonti di un'Europa a mer-cato unifimer-cato, senza barriere doganali, con forze militari comuni, con il beneficio di grandi risorse pubbliche e private risparmiate dal-la cooperazione e deldal-la divisione del dal-lavoro. L'Europa federata avrebbe così vissuto una seconda ondata di industrializzazione e di processi modernizzatori:

«Una economia europea la quale, sostituendosi con prudenza e gradua-li adattamenti alle economie particolaristiche deggradua-li odierni singogradua-li stati, rea-lizzi in pieno la divisione del lavoro, ci darà con il beneficio massimo dei produttori, quel ribasso dei prezzi, che permetta ai consumatori di soppor-tare gli oneri finanziari della guerra senza un esaurimento delle proprie forze fisiche e creative. Il problema della ripartizione delle materie prime, quello dei trasporti, quello dei prodotti alimentari, che affannano tutti i comitati europei per lo studio del dopoguerra, si troveranno automaticamente risolti. E l'ampliarsi gigantesco del mercato da nazionale in continentale farà sì che gli industriali, superato il primo periodo di assestamento, troveranno dinan-zi a sè tali capacità insospettate di assorbimento, che le industrie ne riceve-ranno lo stesso slancio gigantesco di cui diede prova l'industria americana dopo la guerra di secessione».

La creazione della gigantesca fabbrica del Lingotto, un'opera che venne salutata come grande innovazione nell'architettura indu-striale, è pervasa da questo ottimismo, dalla convinzione di Agnelli di trovarsi sulla soglia di una svolta decisiva della storia industriale ed economica dell'Italia e dell'Europa. Se non si tiene conto di que-ste aspettative e di questi sentimenti, guardando il Lingotto e pen-sando all'Italia e alla Torino di allora, si potrebbe pensare che sia sta-to concepista-to nella mente di un megalomane in preda a delirio di on-nipotenza. Viceversa, quando Agnelli realizzò quella creazione, essa dovette certamente sembrare commisurata allo scenario internazio-nale delineato in quello scritto, formulato mentre Agnelli è ancora toccato «dall'apostolato per la giustizia e la libertà» e dall'entusia-smo liberoscambista del presidente americano Woodrow Wilson.

In luogo della vagheggiata Europa, fatta di nazioni federate si avranno, ancora una volta, i campi minati del protezionismo genera-lizzato; e Wilson, negli Stati Uniti e al tavolo delle trattative di Parigi, dovrà soccombere ai divieti dei suoi oppositori interni ed esterni, do-po aver difeso, con testardaggine più che con efficacia, la causa di un ordine internazionale aperto e cooperativo.

Alla fine della guerra, la Fiat dovette giocoforza scommettere su un'espansione delle sue esportazioni, con tutti i rischi e i sacrifici che questa comportava, visto che la via italiana al capitalismo era ancora così irta di ostacoli, non ultimo quello di un mercato nel quale l'auto-mobile poteva contare su una fascia di consumatori ancora molto sottile. I primi risultati di questa scommessa furono scoraggianti: nel 1920 le esportazioni calarono dal 51 al 47 per cento, per subire un ulteriore calo nell'anno successivo.

Era inevitabile comunque che una concezione del genere pre-supponesse una Fiat diversa da quella del passato; con una nuova

or-ganizzazione della produzione e uomini nuovi a guidarla: il Lingotto doveva dunque essere il segno di questo rinnovamento.

Il distacco del Lingotto dal modello organizzativo di Corso Dan-te non avrebbe potuto essere più netto. Lo stabilimento di Via Nizza non era soltanto un contenitore molto più capace nel quale sarebbe-ro stati sistemati gli stessi sistemi di psarebbe-roduzione, sia pure su scala molto più ampia. La fabbrica del Lingotto era organizzata per la pro-duzione di linea ed eliminava completamente il « lavoro sul posto », che viceversa era stato il modello di produzione alla Fiat-Centro di Corso Dante. A Lingotto i macchinari erano disposti secondo l'ordi-ne progressivo delle singole lavorazioni, in modo da iniziare e ultima-re un dato pezzo all'interno di uno stesso ultima-reparto. Nella vecchia Fiat, invece, il raggruppamento era ancora sulla base dei tipi di macchina e quindi il materiale doveva essere spostato continuamente da un re-parto all'altro per le diverse fasi di lavorazione.

E stato osservato giustamente che, se la Fiat-Centro era in fondo ancora uno stabilimento di meccanica generale, adatto ad una pro-duzione diversificata e discontinua, il Lingotto era fabbrica di

auto-mobili, ideata e organizzata per la produzione continua.

2. Il « generalista ».

Una trasformazione così profonda dell'intero apparato di produ-zione determinò un mutamento anche nelle prestazioni richieste ai dirigenti. La nuova fabbrica del Lingotto aprì le porte ad una figura nuova di ingegnere, che associava la competenza tecnica alla familia-rità con i concreti problemi di organizzazione del lavoro. Contempo-raneamente, in tutti i settori, anche in quelli non direttamente legati alla produzione, si estesero le funzioni amministrative e quelle di controllo. Si rese tanto più necessario il coordinamento di queste funzioni nella persona di un unico direttore centrale, in grado di tra-durre in termini amministrativi l'intero flusso della attività aziendale e soprattuttto le decisioni prese al vertice. La figura di Valletta si im-pose subito come quella di un dirigente «generalista»: in grado di svolgere con competenza diverse funzioni amministrative e organiz-zative, oltre a predisporre costantemente i dati essenziali alla gestio-ne ordinaria e alle grandi decisioni strategiche.

Il 15 marzo del 1921, Giovanni Agnelli comunicava al Comitato Direttivo della Fiat le dimissioni di Giuseppe Broglia e proponeva di nominare Vittorio Valletta alla carica di Direttore Centrale. Agnelli ravvisò anche l'opportunità di attuare questo avvicendamento in

se-no alla Direzione dopo l'Assemblea ordinaria degli azionisti, convo-cata per il giorno 29 dello stesso mese. L'inserimento di Valletta nel-la Direzione delnel-la Fiat e nel-la sua designazione ad una carica che di fatto costituiva un'innovazione furono coperti da molto riserbo.

Il 31 marzo Agnelli e Valletta si presentavano al notaio Ernesto Torretta, al quale la Fiat aveva affidato il compito di espletare tutti i propri adempimenti legali fin dai tempi del suo atto costitutivo, per sottoscrivere il «mandato passato dalla Società Fiat in capo al sig. prof. rag. Vittorio Valletta». Senza la presenza di testimoni, si proce-dette alla stesura dell'atto in cui venivano elencati i poteri del nuovo direttore centrale:

«vendere i prodotti dell'industria... adire ad appalti presso qualunque Amministrazione Governativa, provinciale e comunale pubblica e privata... scontare il portafoglio della società... disporre dei conti correnti con prelievi e versamenti... acquistare, vendere, dare e prendere a riporto azioni, obbli-gazioni e comunque titoli e valori, sia di Stato che industriali o commercia-li... trattare e definire ogni pratica cogli uffici del Registro, agenzie delle im-poste, Intendenza di Finanza, coi Ministeri, colle Tesorerie provinciali, co-munali e di Stato... Nominare procuratori, assumere personale, impiegati ed operai fissandone le condizioni e i compensi, provvedere al loro licenzia-mento... rappresentare la Società Mandante in assemblee di altre società, prendendovi tutte le deliberazioni che crederà del caso...».

A suggello di questo rapporto di ampia fiducia, il mandato com-prendeva anche una formula:

« Fare nell'interesse della Fiat tutto ciò e quanto si renderà necessario e conveniente, firmando ogni e qualunque atto, dovendosi il presente manda-to intendere come generalissimo, senza che mai si possa al mandatario op-porre difetto di poteri ».

Valletta poteva essere soddisfatto: non soltanto per il salto di sta-tus e di condizione economica che il suo ruolo comportava, ma so-prattutto per quel « mandato generalissimo ». La formula finale « sen-za che mai si possa al mandatario opporre difetto di poteri» dovette certamente piacere al professore che dieci anni prima aveva sotto-scritto con entusiasmo le dottrine tedesche del «ius imperii», tutte orientate verso la massima estensione delle competenze e della auto-nomia degli amministratori.

La cultura professionale di Valletta e il suo bagaglio di esperien-ze avrebbero comunque giustificato la scelta di Giovanni Agnelli. Valletta aveva in primo luogo un'esperienza ormai ventennale di

bi-lanci aziendali, acquisita come revisore dei conti, come perito del Tribunale, come amministratore e come docente universitario. Val-letta inoltre aveva maturato un forte interesse per le questioni tribu-tarie, cosa piuttosto rara nei dottori commercialisti di allora che con-sideravano i problemi fiscali un settore secondario dell'attività pro-fessionale. Quando entrò alla Fiat, egli conosceva molto bene la nuo-va legislazione relatinuo-va all'avocazione degli extraprofitti di guerra. Era questa una delle principali ragioni di contrasto tra gli industriali e gli ultimi governi dell'Italia liberale, quello di Giovanni Giolitti in particolare. Le misure legislative perseguivano l'obiettivo, sempre raccomandabile, del risanamento del bilancio statale e della finanza pubblica, ma muovevano da una premessa del tutto infondata: pre-supponevano che i profitti di guerra fossero rimasti nelle casseforti delle aziende e delle banche in forma di biglietti di banca, in attesa che giungessero i funzionari del Ministero delle Finanze ad avocarli in nome dello Stato. I profitti di guerra, viceversa, avevano preso im-mediatamente la strada di nuovi investimenti. Nel caso della Fiat, lo sforzo finanziario prodotto dopo la guerra non riguardava soltanto le ingenti spese per il nuovo stabilimento del Lingotto, ma anche quelle per lo sviluppo di una produzione siderurgica autonoma, moderna e adeguata alla progettata scala di produzione. Si aggiungevano le spe-se per la creazione di sufficienti fonti di approvvigionamento di ener-gia elettrica, con la costituzione della Società Forze Idrauliche del Moncenisio. Nel caso della Fiat, come in molti altri, le avocazioni dei profitti di guerra venivano dunque a cadere proprio in un momento di già notevole esposizione finanziaria.

Quando questi problemi tributari cominciarono a profilarsi sul-l'orizzonte dei bilanci aziendali, Valletta e Broglia avevano organiz-zato un convegno di ragionieri e commercialisti, che si tenne a Tori-no nel marzo del 1920. L'ordine del giorTori-no approvato dai convenuti coglieva chiaramente la sostanza politica e fiscale della questione. In particolare, esprimeva il convincimento che « gli extraprofitti e incre-menti patrimoniali di guerra debbono dipendere dal modo con il quale si prowederà alle valutazioni patrimoniali iniziali al 1° agosto 1914 e finali al 31 dicembre 1919 », e sottolineava come, purtroppo, «le generiche espressioni contenute nei decreti del 27 novembre 1919 a riguardo delle svalutazioni e deprezzamenti degli impianti possono generare confusioni ed errori, particolarmente dannosi alle aziende di produzione e all'economia nazionale».

Quell'ordine del giorno preannuncia la linea di pensiero che cor-re ininterrotta nella cor-relazione pcor-resentata da Valletta al Comitato Di-rettivo della Fiat sulle gestioni aziendali dal 1914 al 1920. Fu questo

il primo compito affidato al nuovo Direttore Centrale. Si trattava di riesaminare tutta la contabilità e i bilanci aziendali dal 1914 in poi; delineare i criteri per la compilazione del « bilancio di assestamento » relativo al 1921 e predisporre i calcoli più realistici per la soluzione delle pendenze fiscali. La relazione di Valletta conteneva educatissi-me ma sostanziali critiche ai educatissi-metodi seguiti in passato anche dal «maestro» Broglia nel?allestire il bilancio. In particolare, sottolinea-va come « il non avere annotato tra le attività » una serie di partite e «l'avere peraltro su di esse soddisfatto l'obbligo della corresponsio-ne al fisco di ogni tassaziocorresponsio-ne, pocorresponsio-ne al certo i bilanci dei singoli eserci-zi dal 1914 al 1917 in condieserci-zione di non completa esattezza». Si pro-poneva quindi una serie di opportune svalorizzazioni delle voci atti-ve e valorizzazioni delle voci passiatti-ve, che tuttavia configuravano un debito verso il fisco molto inferiore a quello che Agnelli e Valletta, dopo molti viaggi a Roma, riuscirono a concordare con il Ministero delle Finanze: fu questo il primo ufficio centrale dello Stato frequen-tato da Valletta in qualità di direttore della Fiat.

Tra le innovazioni introdotte da Valletta nell'organizzazione dei rilevamenti statistici e amministrativi, assunse importanza primaria la contabilità industriale. I dati partivano dalle singole sezioni e rag-giungevano il leggendario ufficio della contabilità generale e la dire-zione dei bilanci, dove già allora lavoravano alcune celeberrime im-piegate: solerti e ferree custodi delle cifre in cui si rifletteva la vita dell'azienda, simbolo vivente di totale dedizione alla Fiat, di assoluta discrezione, di quasi monacale abnegazione di sè, con feroci capacità di inquisizione nei confronti di dirigenti e funzionari dimostratisi ap-prossimativi nella stesura dei loro rapporti, ritenuti non sufficiente-mente trasparenti da quelle severe sacerdotesse dei conti aziendali. Alcune si trovavano in forza alla Fiat già ai tempi della sua fondazio-ne, altre crebbero alla scuola di Valletta; stabilirono clamorosi pri-mati di permanenza nell'azienda sfiorando o superando i cinquanta anni di servizio. In alcuni casi, raggiunsero anche posizioni direttive, con compiti di particolare delicatezza e responsabilità. Nella sua atti-vità di insegnante Valletta aveva sempre avuto un folto pubblico femminile, di cui amava sottolineare la naturale inclinazione per le matematiche: come dirigente industriale, ritenne di averne una ri-prova quotidiana e non risparmiò mai elogi né gratitudine.

Le «Note» presentate da Valletta al Comitato Direttivo per la stesura del bilancio 1921 e la stessa relazione al Consiglio introdusse-ro anche una significativa innovazione nel lessico della direzione am-ministrativa Fiat. Fu da allora che si cominciò ad usare il termine «prudenze»: sostantivo plurale indicante quell'insieme di

precauzio-ni che si traduceva in una rigorosa politica di riserve, di reinvesti-mento degli utili e in una distribuzione contenuta di utili. Nel 1921, sotto il segno delle «prudenze», non venne distribuito alcun utile; accadrà di nuovo nel 1944, 1945 e 1946.

A Valletta furono affidati anche compiti di organizzazione e ge-stione del personale: come condizione della sua assunzione, egli ave-va infatti posto la massima discrezionalità possibile nei rapporti con i dipendenti. Il sole dell'avvenire, anche se stava impallidendo sull'o-rizzonte della politica italiana, mandava ancora qualche raggio nella mente del giovane dirigente industriale, già allora animato dalla con-vinzione che il « socialismo » non sarebbe stato prodotto dalle lotte politiche e sindacali, ma dalla collaborazione tra il capitale e il la-voro.

Fin dal 1921, Valletta ebbe anche una parte importante nella riorganizzazione dei complessi aziendali, svolgendo un'immensa mo-le di lavoro, coperto da quella cortina di anonimato dietro cui Gio-vanni Agnelli cercava di proteggere l'operato dei suoi direttori e col-laboratori. Nel campo dell'organizzazione industriale, la cultura di Valletta veniva in parte dall'America di Henry Ford e di Frederick W. Taylor; ma soprattutto derivava da una naturale attitudine a di-sporre e far muovere i pezzi del gioco organizzativo secondo regole prestabilite; di questa attitudine aveva già dato prova nell'insegna-mento e nell'attività di consulente aziendale.

Nella fisionomia professionale di Valletta c'era un altro aspetto che lo accreditò positivamente presso i vertici della Fiat. La sua pre-cedente attività, infatti, lo aveva spesso inserito in una zona interme-dia tra gli interessi privati e le istituzioni pubbliche. Per esempio, è significativo che il convegno dei ragionieri e commercialisti organiz-zato da Valletta, includa nella sua mozione finale l'intendimento di « agire in modo da coadiuvare la finanza in azione rigorosa, ma anche giusta ed equa». Il gruppo professionale si inserisce così tra lo Stato e le aziende, svolgendo un ruolo che, se non è equidistante, non si ri-duce nemmeno alla difesa cavillosa e pretestuosa degli interessi

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 80-110)