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Per ragioni di azienda

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 123-134)

II. In guerra, a Torino

6. Per ragioni di azienda

Gli anni di lavoro cominciavano a pesare sulle spalle di Giovanni Agnelli. C'era stato anche il dolore per la morte di Edoardo, l'unico figlio maschio, avvenuta nel luglio del 1935 per un incidente aereo, nel mare di Genova. Dopo la tragica scomparsa del suo successore designato, alla ripresa dell'attività, Agnelli aveva detto ad un gruppo di direttori: « Sono qui per continuare quello che avrebbe dovuto fa-re mio figlio». La linea di «continuità», considerata da Agnelli come condizione essenziale dell'autonomia aziendale, venne poi ricompo-sta con la nomina alla vicepresidenza del nipote Gian Carlo Camera-na. Ma questo sforzo di volontà non era valso ad arrestare l'incipien-te declino di un uomo che, da quasi quarant'anni, dedicava tutl'incipien-te le proprie energie alla sua vocazione di industriale.

Vennero così affidate a Valletta prerogative sempre più ampie di governo e di pianificazione aziendale, che sfociarono poi nella sua nomina ufficiale ad Amministratore Delegato, laconicamente propo-sta da Agnelli al Consiglio di Amministrazione, il 9 febbraio 1939. Manifestata la volontà di conservare in un prossimo futuro la sola ca-rica di Presidente, Agnelli chiede al consiglio che « il prof. Valletta, che in pratica già da tempo assolve il compito, oltre che di Direttore Generale, anche quello di Amministratore Delegato, assuma, anche effettivamente tale titolo».

Toccò al nuovo amministratore delegato organizzare la visita di Mussolini a Torino, per l'inaugurazione dello stabilimento di Mi-rafiori. Gli auspici sotto cui Mussolini giungeva a Torino non erano i migliori. Le note informative riservate che la polizia gli aveva fatto pervenire, forse, avrebbero dovuto indurlo a maggiore cautela. L'ac-coglienza riservata al Duce dagli operai della Fiat fu ancora più fred-da di quella, già poco entusiastica, riservatagli nella sua precedente visita del 1932. Il 14 maggio 1939, il palco era stato installato nei pressi della pista di prova di Mirafiori. A fianco del Duce si trovava-no Agnelli e Valletta, che per l'occasione portavatrovava-no, con qualche im-paccio, la camicia nera. Accanto a loro, dirigenti della Fiat, uomini al seguito di Mussolini, Achille Starace.

Ormai prigioniero di una retorica che gli impediva di valutare realisticamente uomini e situazioni, Mussolini esordì con un attacco infelice per il tono e per il contenuto: « Lavoratori della Fiat! Non mi soffermerò sui problemi economici, perchè ho già avuto modo di esporli nel mio recente discorso di Milano...». Fece una pausa; aspettò un'ovazione che non venne. Commessa un'imprudenza reto-rica, ne commise una seconda più grave, chiedendo: «Ve lo ricorda-te voi? ». Seguì un silenzio cimiricorda-teriale. Commise allora un ricorda-terzo erro-re: perse il controllo di sè e urlò: « Se non lo ricordate, rileggeteve-lo! ». Abbandonò il palco per alcuni istanti, ritornandovi, letteral-mente spinto da Starace, a salutare romanaletteral-mente quella massa di in-fedeli; per poi andarsene in una nuvola d'ira mal repressa. Quella se-ra stessa, in una stanza dell'Hotel Europe, qualcuno lo sentì esclama-re, «Torino, porca città! ».

Finite queste festose accoglienze, nella seduta del Consiglio di Amministrazione successiva a quegli eventi, Giovanni Agnelli ricor-dò che nel maggio precedente aveva avuto

«il grande onore della visita del Duce ai nuovi grandi stabilimenti di Mirafiori. Cinquantamila operai della grande famiglia di lavoro Fiat, in una manifestazione grandiosa di entusiasmo e di fede, hanno reso omaggio al co-struttore dell'impero. La visita dei nuovi stabilimenti ha soddisfatto molto Sua Eccellenza il Capo del Governo, che si è espresso molto favorevolmen-te. Particolare importanza hanno assunto, agli occhi del Duce, oltre alla grandiosità dello stabilimento e della nuova formazione organizzativa, tutte le provvidenze assunte nell'interesse degli operai».

Sua Eccellenza il Capo del Governo, a sua volta, comunicava uf-ficialmente al prefetto di Torino il proprio compiacimento per le ma-nifestazioni nei due stabilimenti di Mirafiori e dell'Aeronautica d'Ita-lia. Il Comitato Direttivo della Fiat del 24 maggio del 1939, senza commentare, prendeva atto del messaggio di Mussolini. Il gioco del-le parti era evidente: la Fiat ostentava sentimenti che non provava; Mussolini rispondeva con apprezzamenti in contrasto aperto con i fatti e i suoi stessi comportamenti.

La contraddizione tra la realtà e la retorica era diventata ormai l'essenza stessa dei rapporti tra la Fiat e il regime fascista. L'una e l'altro speravano ancora di strumentalizzarsi a vicenda per incontrar-si poi sul terreno delle commesse militari: armi, munizioni, autocarri, aerei valevano bene qualche espressione di ossequio al regime e qual-che riconoscimento di dedizione disinteressata alla Patria. Mussolini sapeva che la direzione della Fiat, almeno nelle figure dei suoi

massi-mi esponenti, era molto tiepida nei confronti del regime. Le intercet-tazioni telefoniche, le note fiduciarie, i rapporti riservati sul conto di Agnelli e di Valletta continuavano a passare sul suo tavolo: poteva avere così un quadro abbastanza preciso dell'avversione dei due al-l'autarchia e alla pretesa del regime di dominare la società civile. Ma Mussolini faceva mostra di credere alle loro professioni di fede sta. Agnelli e Valletta, dal canto loro, avevano apprezzato nel fasci-smo il dato autoritario e le garanzie di ordine che poteva offrire; era-no anche riusciti a sfruttare o condizionare alcune linee della politica economica fascista. Al governo di Mussolini la Fiat chiese le stesse cose che aveva già chiesto ai governi liberali che lo avevano precedu-to e le stesse cose che sarebbero poi state chieste ai governi democri-stiani che lo avrebbero seguito: garantire l'espansione sul mercato italiano, agevolare le esportazioni e mantenere una sufficiente aper-tura verso i mercati delle materie prime e dei macchinari di cui la Fiat aveva bisogno. Aveva chiesto, in sostanza, di contribuire a con-solidare quel modello di «capitalismo organizzato» che era e sareb-be ancora stato in futuro, sia pure in versioni aggiornate, l'asse por-tante dello sviluppo dell'azienda.

Agnelli e Valletta, tuttavia, non potevano accettare il dato totali-tario del regime, la sua aspirazione a occupare e dominare tutte le istituzioni della società civile: l'industria e la Chiesa, l'Università e la cultura, lo sport e il cinema. Questa aspirazione, come è noto, si rive-lò spesso velleitaria e la Fiat va certamente inclusa tra le « istituzioni » a cui il regime non seppe imporre il proprio marchio ideologico. Verso il totalitarismo fascista, Agnelli e Valletta praticarono quell'at-teggiamento che il trattato di uno scrittore del Seicento, ripubblicato da Benedetto Croce nel 1930, definiva come «dissimulazione one-sta»: «... pur si concede talor di mutar manto per vestire conforme alla stagione della fortuna, non con intenzione di fare, ma di non pa-tir danno».

La « dissimulazione onesta » faceva parte di quel programmatico agnosticismo ecumenico con cui Agnelli e Valletta scelsero i loro clienti e le aree di interesse della Fiat in tutti gli angoli dello scacchie-re internazionale, attraversando con molta disinvoltura le barriescacchie-re e le contrapposizioni che la diplomazia europea aveva eretto nella se-conda metà degli anni trenta. Ancora nell'ottobre 1939, quando la guerra divampava già da due mesi in Europa Orientale, dove la Fiat perse un intero stabilimento, gli uomini e la produzione, Agnelli e Valletta offrivano al governo inglese una cospicua fornitura di moto-ri avio, fucili, attrezzature da campo, automezzi militamoto-ri; le trattative si protrarranno ancora fino a tutto il mese di febbraio 1940,

do in qualche imbarazzo gli interlocutori inglesi. Negli stessi mesi, con-tinuano le trattative con la Germania, giunte in porto alla fine dell'aprile del 1940 per produzioni siderurgiche. Alla fine del 1939, peraltro, era stato concluso con il governo francese un contratto per fornitura di due-mila autocarri: per l'occasione Agnelli e Valletta si erano avvalsi della mediazione di Teodoro Pigozzi, il fondatore della SIMCA. La Fiat se ne servirà anche come prezioso e abile intermediario presso De Gaulle e il governo francese in esilio, tra il 1940 e il 1944. Oltre a questi clienti, la Fiat guardava anche più lontano: forniva aeroplani alla Persia, all'Un-gheria e alla Spagna, dove evidentemente il regime franchista non si era dimenticato delle belle prove fornite dai caccia CR 32 prodotti dalla Fiat e dai suoi carri armati cosiddetti « veloci ». Automezzi militari e ae-rei presero anche la strada della Finlandia, del Paraguay, del Venezuela e della Jugoslavia. La Fiat fu invece assai meno fortunata nei suoi rap-porti con gli Stati Uniti d'America, dove erano state bloccate tutte le forniture di macchinari.

Quali furono, per contro, i rapporti tra la Fiat e il governo italia-no nei italia-nove mesi trascorsi tra l'invasione tedesca della Polonia e la dichiarazione di guerra alla Francia e all'Inghilterra, da parte dell'I-talia, il 10 giugno 1940? Fino agli ultimi giorni che precedettero l'in-gresso in guerra, Agnelli e Valletta avevano continuato a confidare, anche contro l'eloquenza di molti segnali, nella continuazione della non-belligeranza e in particolare nella linea antitedesca del Ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano, con il quale si erano stabiliti da tempo contatti anche personali. Forse sopravvalutando il peso che questa li-nea avrebbe potuto esercitare sulle scelte del Duce, ritennero che la politica estera italiana avrebbe seguito la strada della non-belligeran-za. Inoltre, conoscevano troppo bene le condizioni di pauroso ritar-do in cui le forze armate si trovavano e la lentezza pachidermica della macchina burocratico-militare italiana.

Naturalmente, dissimulando queste convinzioni personali, mani-festarono la piena disponibilità della Fiat in caso di mobilitazione. Sopraggiunte le prime notizie di guerra dalla Polonia, Valletta chiese udienza a Mussolini. Il 7 settembre 1939, per la prima volta nella sua carriera, si recò da solo, senza il senatore Agnelli, a conferire con il Capo del Governo. In quell'occasione, garantì a Mussolini che la Fiat era in grado di convertire gli impianti per la produzione delle utilitarie e destinarli alle forniture militari nel giro di sei mesi. Nei mesi successivi, viceversa, fece una lenta manovra di sganciamento da queste posizioni cercando di difendere le produzioni civili, com-patibilmente con il razionamento della benzina, messo in atto nel mese di dicembre del 1939.

Agnelli e Valletta, per alcuni mesi, continuarono a sperare nella non-belligeranza e cercarono di trarre il massimo vantaggio possibile dalla forte diminuzione della produzione automobilistica europea con tutti i benefìci che derivavano dall'aumento delle esportazioni e dai generosi premi dati dall'Istituto per il Commercio Estero su ogni quintale di materiale esportato. Purché l'Italia ne restasse fuori, la guerra poteva essere un buon affare. Ma verso la primavera del 1940, le illusioni del precedente autunno caddero. Con il mese di giugno arrivò la dichiarazione di guerra. Agnelli e Valletta misero da parte le loro personali convinzioni neutralistiche, che avevano ancora espres-so con un certo vigore nella relazione annuale dell'assemblea degli azionisti del marzo 1940. Di fronte alla realtà dei fatti, il problema non era quello di scegliere tra neutralismo e bellicismo. Come indu-striali, si trovavano di fronte a due alternative di ordine molto più pratico, che mettevano in gioco le future possibilità di espansione della Fiat. Si trattava di scegliere tra due possibilità: una programma-zione che vincolasse le sorti della Fiat non solo alle commesse milita-ri ma anche alle scelte politiche di fondo della politica estera fascista; oppure una prospettiva di sviluppo che, pur legata in una certa misu-ra alla produzione bellica, perseguisse gli stessi obiettivi di misu- rafforza-mento organizzativo, produttivo e finanziario che la Fiat avrebbe perseguito comunque, con o senza la guerra. Nonostante le incertez-ze e i condizionamenti, la scelta cadde quasi automaticamente sulla seconda alternativa. Prima del 1940 avevano creduto di poter conti-nuare a destreggiarsi con la consueta abilità tra gli schieramenti op-posti, tra le forniture di camion per la Germania hitleriana e i motori per l'aviazione britannica, che stava allora affrontando l'attacco tede-sco contro la democrazia anglosassone. Ma dopo la dichiarazione di guerra, ovviamente, non era possibile giocare su molti tavoli; si trat-tava di conservare e tutelare le future possibilità di sviluppo della Fiat, sfruttando la contingenza bellica fin quando fosse stato ragione-vole farlo; nello stesso tempo, preparando il futuro mediante l'acqui-sizione di altre partecipazioni, la creazione di nuove strutture pro-duttive, accordi e convenzioni con aziende private e statali.

Naturalmente, nei rapporti col governo fascista, Valletta non mancava di profondersi nelle più impegnative espressioni di entusia-smo guerresco, attenendosi al solito copione pirandelliano. L'otto di giugno, due giorni prima della « ora segnata dal destino », già al cor-rente di quanto sarebbe accaduto, Valletta scriveva al Generale Car-lo Favagrossa, Sottosegretario di Stato per le Fabbricazioni di guer-ra, per «fissare la norma e i concetti di dovere imperioso, le respon-sabilità e possibilità della Fiat in questa grande ora storica». La

prò-sa vallettiana merita di essere seguita in tutte le sue pieghe. La Fiat « continuerà quindi il lavoro, in tutte le sue sezioni, salda e discipli-nata come su di una linea di combattimento, fino all'estremo delle possibilità per adempiere al compito di produrre al massimo onde aumentare, nell'interesse delle Forze Armate, le riserve dei materiali bellici». Si noti «nell'interesse delle Forze Armate», come a dire: «vi stiamo facendo un piacere». A sottolineare come la disponibilità della Fiat non fosse incondizionata, Valletta precisava, nello stesso paragrafo, che la Fiat «è da considerarsi e si considera in zona di operazioni». In altre parole, all'impegno della Fiat doveva corri-spondere un'adeguata protezione da parte dello Stato della sua inte-grità fisica. La Fiat, aggiungeva l'amministratore delegato, «non ha bisogno di speciali previdenze, contando sulla saldezza di tutti i suoi uomini e sulla efficienza ed elasticità della sua organizzazione, in un ambiente di così ardente patriottismo e fierezza fascista, quale è quello di Torino e del Piemonte». Valletta ha, in verità, solo una pic-cola richiesta da avanzare: « chiede che la disciplina più ferrea possa essere assicurata alle Direzioni, in collaborazione con le Autorità Mi-litari di sorveglianza, da una miMi-litarizzazione dell'insieme dei dipen-denti Fiat, cosicché ognuno sia passibile, anche sul lavoro, delle san-zioni del Codice Militare di Guerra». Nelle due pagine di questa let-tera, Valletta sfodera quasi tutte le figure della retorica di guerra; con un'eccezione: non si dichiara certo della vittoria delle armi fasciste. Anzi, prende esplicitamente in considerazione le misure da adottarsi « se e quando le circostanze dovessero rendere materialmente impos-sibile il lavoro utile e cioè in caso di distruzione parziale o totale degli Stabilimenti di Torino».

Né pacifista né guerrafondaio, Valletta scrive alla massima auto-rità competente per le forniture militari con l'atteggiamento di un amministratore industriale preoccupato di difendere gli stabilimenti, gli impianti e la disciplina dell'azienda di cui è responsabile. Tre giorni dopo, nella notte tra l'undici e il dodici giugno, la Fiat venne bombardata per la prima volta. Non ci furono danni, ma le preoccu-pazioni di Valletta si dimostrarono più che fondate; tanto da indurlo a segnalare allo stesso Favagrossa le prime « manifestazioni di indi-sciplina, tendenti soprattutto ad ottenere il licenziamento per poter passare ad altre aziende». L'episodio era stato comunque sufficiente a dimostrare, se ce ne fosse stato bisogno, l'assoluta inadeguatezza delle difese e dei dispositivi antiaerei che avrebbero dovuto proteg-gere le fabbriche della Fiat. Valletta chiederà ripetutamente a Fava-grossa la militarizzazione dei dipendenti, muovendo dall'assunto che la Fiat era disposta a lavorare per uno Stato autoritario purché

que-sto fosse veramente tale e si manifestasse generoso con le vittime dei bombardamenti. Nel dicembre del 1940, nell'opera di rilievo e disin-nesco di una bomba inesplosa, morirono due dirigenti Fiat, Asrael Callabioni e Guido Ottone, « ai quali », scriveva Valletta, « dobbiamo gran parte dell'opera di organizzazione d'officina e di trasferimento delle lavorazioni alla Fiat Mirafiori». In quell'occasione Valletta chiedeva a Favagrossa di concedere un riconoscimento al valore dei caduti sul fronte della Fiat; un riconoscimento che fosse di esempio e di stimolo per tutti gli altri dipendenti.

Dopo aver messo a disposizione dell'Italia in guerra l'impegno della Fiat, Agnelli e Valletta continuarono ad agire in due diverse di-rezioni. Da un lato, soprattutto dopo la metà del 1941, aderirono alle richieste del regime e stabilirono forti legami con l'economia tedesca. Dall'altro, tentarono di sfruttare le singole svolte della guerra, positi-ve o negatipositi-ve che fossero, per riscuotere presso il gopositi-verno il prezzo del contributo dato dalla Fiat allo sforzo bellico; oppure per richie-dere risarcimenti e indennizzi per i danni subiti. E una politica che ha qualche aspetto paradossale. La Fiat rimase quasi totalmente pas-siva di fronte allo svolgersi degli eventi, ma nello stesso tempo mani-festò una grande adattabilità ai mutamenti della situazione e dei rap-porti di forza tra i contendenti. Valletta esprimeva questa linea con uno dei suoi detti memorabili: «collaborare con l'inevitabile». Agnelli formulò in termini più compiuti lo stesso concetto all'assem-blea degli azionisti, nel marzo del 1941:

«Pur continuando con il massimo impegno nelle produzioni di emer-genza, la Fiat non perde di vista le necessità del domani per essere pronta a soddisfarle pienamente: ripresa automobilistica del paese, ripresa dell'e-sportazione, espansione nel più grande impero e in quegli spazi vitali e zone di influenza che, secondo gli accordi dell'Asse, si apriranno al lavoro ita-liano ».

Nella primavera del 1941 si inaugurava così il periodo di massi-ma, ma pur sempre relativa, mobilitazione della Fiat a favore della produzione bellica. Agnelli e Valletta si scontrarono spesso con le lentezze della burocrazia statale e della stessa macchina politica, ma trovarono nel generale Ugo Cavallero, Capo di Stato Maggiore, un interlocutore affidabile. Valletta si incontrò con Cavallero in diverse occasioni, tra il 1941 e il 1942, per definire gli impegni della Fiat in materia di lavorazioni belliche. Pur consapevole di lavorare per un apparato militare di limitata efficienza, Valletta, fedele al principio da lui stesso enunciato, collaborava con l'«inevitabile». Peraltro non

trascurava i rapporti con gli alleati dell'Italia fascista. Tra i più grossi impegni della Fiat verso le Forze Armate tedesche, vi era la produ-zione di motori d'aviaprodu-zione. Nel gennaio e nel maggio del 1942, per la prima volta in vita sua, Valletta esce dal territorio nazionale: si re-ca a Berlino a rappresentare gli interessi del Consorzio Aeronautico Italiano e la Commissione Aeronautica del governo. Era anche la pri-ma volta che si trovava a rappresentare, contemporaneamente, gli in-teressi dell'azienda e la politica industriale del paese. In ben altro contesto, dopo la guerra, il gioco si ripeterà per due decenni.

Ci furono anche contatti con le autorità militari e l'industria giapponese. Esponenti della Marina, dell'Aviazione giapponese e della Mitsubishi di Roma, all'inizio del 1941, avviarono contatti con Valletta, che dureranno fino al gennaio del 1943. Per quanto del tut-to infruttuose, queste relazioni ebbero un contenutut-to significativo, che preannunciava in qualche modo certi aspetti della ricostruzione e dello sviluppo postbellico dei due paesi. I giapponesi vennero in-fatti a chiedere una massa ingente di informazioni tecniche, offrendo in cambio materie prime. Dopo la fine della guerra in Europa, men-tre era ancora in corso quella con il Giappone, i servizi segreti ameri-cani acquisirono tutta la documentazione e le testimonianze relative a questi contatti, per poi trasmetterle da Roma a Washington. In un rapporto inviato dall'OSS nel giugno del 1945, l'organizzazione dei servizi segreti americani, sottolineava che

« La Fiat non ha fornito ai Giapponesi alcun servizio in fatto di brevetti,

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 123-134)