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Verso la Fiat

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 68-80)

II. In guerra, a Torino

13. Verso la Fiat

Secondo una opinione diffusa in molti circoli torinesi, il cavalier Giovanni Agnelli, messo in una situazione senza uscita dall'occupa-zione della Fiat e dall'impossibilità di concordare con il governo una linea comune e coerente, costretto per ciò alle dimissioni, sarebbe

stato rimesso in gioco dall'intervento di Valletta, allora piccolo azio-nista della Fiat, che ne invocò il ritorno con un brillante e risoluto appello accolto entusiasticamente dall'assemblea degli azionisti. Do-po di che, sarebbe uscito nella storica frase «'st om a fa per mi» (quest'uomo fa per me) e avrebbe immediatamente chiamato Vallet-ta ad occupare uno dei posti di direttore centrale della Fiat.

Giovanni Agnelli diede sempre prova di grande risolutezza e ra-pidità di decisioni, ma certamente non sceglieva i suoi collaboratori per il semplice consenso dato alle sue opinioni o l'ossequio prestato alla sua persona; scelse sempre i suoi uomini inquadrandoli in un di-segno del quale era e voleva essere il solo custode e realizzatore. Non possiamo quindi credere a questa « folgorazione » che quella versio-ne vulgata degli avvenimenti del 1920 gli attribuisce.

La scelta di Valletta si inserisce piuttosto in un quadro comples-so di circostanze, di rapporti di forza, interessi e relazioni percomples-sonali. Sicuramente le vicende del biennio rosso, che avevano mobilitato le forze operaie di tutte le fabbriche torinesi e suscitato nella borghesia, non solo industriale, la cosiddetta « grande paura », contribuirono a mettere in luce la figura di Valletta e la sua capacità di intervenire nelle assemblee della Lega Industriale a proporre soluzioni equili-brate e conciliative; ma le premesse della sua ascesa ai vertici dell'a-zienda ebbero origini assai lontane e diverse.

Giovanni Agnelli, conosciuto da Valletta nelle funzioni di conta-bile della DTAM, ebbe modo di apprezzarne le qualità professionali anche nel corso di una controversia sorta tra la Fiat e la Chiribiri in relazione al brevetto di alcune parti di un motore d'aereo. Agnelli fu colpito dalla tenacia e dall'acutezza con cui Valletta difese la posizio-ne della piccola azienda da lui rappresentata di fronte alla ben più agguerrita azienda Fiat. Di queste stesse qualità, Agnelli fece saggio quando tentò di assorbire il capitale della Chiribiri. Era lo stesso pe-riodo, successivo alla conclusione della guerra, in cui Agnelli con-dusse un'opera di rastrellamento a vasto raggio di aziende del setto-re. Valletta respinse le offerte di Agnelli e difese con successo l'auto-nomia della Chiribiri: « Al tempo, cavaliere; certe proposte posso farle io ad altri, ma non lascio che altri le facciano a me». Non erano molti gli operatori industriali torinesi che sapessero resistere alla vo-lontà dominatrice di un industriale come Giovanni Agnelli, ormai proiettato su grandiose dimensioni produttive e finanziarie. Non ci è dato conoscere i dettagli specifici di questo braccio di ferro. La Chi-ribiri, comunque, continuò a operare e produrre come azienda indi-pendente. Verrà assorbita, vent'anni più tardi, dalla Lancia.

dell'in-dustria automobilistica torinese, il nome di Valletta tuttavia era di-ventato familiare nei circoli industriali del Piemonte.

Gli avvenimenti del 1919-20 fecero maturare l'incontro tra Agnelli e Valletta. Giuseppe Broglia, dopo aver prestato servizio nel-l'esercito, in qualità di volontario, fino alla fine della guerra, era rien-trato nel pieno esercizio della sua attività professionale, anche al ser-vizio della Fiat e delle società collegate in cui aveva un ruolo di pri-mo piano; il 2 dicembre del 1919 il Consiglio di Amministrazione della Fiat lo avrebbe poi nominato direttore centrale. In quello stesso giorno, giunta la notizia dello sciopero generale proclamato a Roma in seguito a violenze subite da un gruppo di militanti socialisti, ci fu-rono manifestazioni anche a Torino. Nel tardo pomeriggio, un grup-po di operai della Fiat circondò l'auto di Broglia; nel momento in cui questi uscì dalla sede Fiat di Corso Dante, lo prese a sassate. Il pro-fessore, forse sopravvalutando le sue risorse fisiche e il suo prestigio personale, fu anche all'origine di una provocazione. Finì in ospedale, con ferite lacero-contuse.

Recuperate le forze e l'ardire, Broglia riprese la sua attività e nel-la seduta del 21 febbraio 1920 il Consiglio di Amministrazione delnel-la Fiat, su proposta di Giovanni Agnelli, lo confermò direttore centra-le, affiancandogli nella direzione dell'amministrazione l'aw. Alberto Gioannini, che aveva tenuto quell'ufficio anche nel corso della ma-lattia di Broglia. Era stato peraltro lo stesso Broglia a richiedere que-sta soluzione, « resosi edotto della vastità ed importanza degli affari, della complessità dell'azienda e del gravoso e lungo lavoro necessario a coordinare amministrativamente e contabilmente le molte sezioni alla direzione centrale e ripristinare in questa e nelle sezioni una ra-zionale contabilità industriale». Aveva quindi espresso il desiderio di condividere con il collega avvocato Gioannini il peso delle responsa-bilità amministrative, contabili e finanziarie. Rebaudengo e Agnelli, nelle loro vesti di presidente e amministratore delegato, propongono dunque al Consiglio di affidare a Broglia e Gioannini, « a pari grado e trattamento», la direzione dell'amministrazione Fiat, con una pre-cisa ripartizione di mansioni.

Ma questa soluzione avrà corso molto breve. Broglia, nella sedu-ta del Consiglio di Amministrazione del 29 settembre 1920 e quindi al culmine della crisi dirigenziale della Fiat determinata dalle com-plesse vicende dell'ostruzionismo operaio e dall'occupazione, con-statò la pratica impossibilità di ricostruire un quadro coerente della situazione contabile e quindi di porre le premesse generali del futuro lavoro amministrativo. Le casseforti aziendali erano state scassinate, i libri contabili buttati all'aria; molti documenti relativi ai diversi

mo-vimenti di materiali risultavano dispersi. Con una lettera del 18 otto-bre 1920 Broglia rassegnava le proprie dimissioni, nonostante che nella precedente seduta del Consiglio lo stesso Agnelli lo avesse pro-posto come candidato di un consiglio di direzione che avrebbe dovu-to transidovu-toriamente sostituire la precedente amministrazione, messa in crisi dal precipitare degli avvenimenti. Assicurava comunque la propria opera «fino all'epoca del bilancio», cioè fino alla fine dell'e-sercizio 1920.

Il temperamento estroverso e non immune da atteggiamenti pro-vocatori di Giuseppe Broglia mal si accordava con quello meditativo e raziocinante, in apparenza freddo, di Giovanni Agnelli. Nonostan-te questo, Broglia uscì bene dalla direzione della Fiat e continuò a conservare la fiducia dei suoi vertici. Venne infatti incluso nel Consi-glio di Amministrazione e, come in passato, continuò a rappresenta-re gli interappresenta-ressi della Società in numerose aziende collegate. Agli im-pegni nuovi che avrebbero caratterizzato l'amministrazione azienda-le, divenuta ormai molto più complessa di quella della Fiat delle ori-gini, Broglia preferì il distacco dell'insegnamento accademico, l'eser-cizio della professione e il piccolo cabotaggio delle cariche sociali di enti, banche e aziende. Preferì, soprattutto, il discutibile onore di di-ventare una delle figure di punta del fascismo torinese, per poi entra-re a far parte della gestione commissariale insediatasi al comune di Torino nel 1923.

Tra il rientro di Broglia alla Fiat, avvenuto nel mese di feb-braio del 1920, e la sua rinuncia a svolgere il compito affidatogli oltre la compilazione del bilancio di quello stesso anno, molti e grandi eventi sociali e politici provocarono una serie di scosse e conflitti all'interno degli organi sociali dell'azienda e nella stessa Associazione dei Metallurgici Meccanici e Affini, di cui Giovanni Agnelli era presidente.

Gli scioperi del marzo-aprile del 1920, inaugurati dal cosiddetto «sciopero delle lancette», proclamato in seguito alla decisione go-vernativa di ristabilire l'ora legale, aveva dato luogo ad una lunga prova di forza dalla quale l'AMMA e Agnelli sarebbero usciti netta-mente vittoriosi: l'accordo del 24 aprile, infatti, significava una liqui-dazione anche formale dei Consigli di fabbrica. Agnelli aveva soste-nuto una linea di intransigenza, giungendo a proporre la soluzione estrema della serrata. La soluzione della vertenza e il ruolo sostenuto da Agnelli ebbero un riconoscimento anche in un mutamento della maggioranza in seno alla Confederazione dell'Industria, i cui organi sociali vennero rinnovati nel successivo mese di maggio. In giugno il governo Giolitti, succeduto a Nitti, era venuto a dare ulteriore fiato

alle speranze degli industriali in una prospettiva di ripresa economi-ca e di ordine sociale.

Tuttavia, se alla fine di quel mese Agnelli poteva ancora vedere in Giolitti, il « solo uomo che può risolvere la grave crisi che attraver-sa il paese», passò ben poco tempo prima che il consenso degli indu-striali alla linea giolittiana scemasse e la conflittualità industriale prendesse vigore. La vertenza salariale avviata dalla Fiom, che era ri-masta la sola vera interlocutrice della organizzazione nazionale degli industriali, era giunta ad una situazione di stallo completo, tanto da indurre la Fiom a proclamare l'ostruzionismo, risoltosi poi in un ef-fettivo blocco della produzione. In seno alla Federazione Sindacale Nazionale delle Industrie Meccaniche era prevalsa la linea intransi-gente, quella che in sostanza avrebbe portato alla serrata. In una riu-nione dell'AMMA, presieduta da Agnelli, tenutasi il 26 di agosto, quando le trattative ormai erano state interrotte, gli industriali pie-montesi si rifiutarono di adottare contromisure di ordine generale; stabilirono infatti che venissero chiusi gli stabilimenti in cui erano av-venuti specifici e documentati atti di sabotaggio e distruzione. Fu questa la prima occasione in cui Valletta assunse l'iniziativa in seno all'assemblea dell'AMMA e raccolse l'adesione unanime all'ordine del giorno presentato da Cinzio Barosi, rappresentante di una società elettromeccanica e piccolo azionista della Fiat: era una dura requisi-toria contro i dirigenti della Fiom, che venivano accusati di essere andati molto al di là delle iniziali motivazioni dell'ostruzionismo. L'ordine del giorno sostenuto da Valletta richiamava «l'attenzione dell'opinione pubblica sui veri termini della vertenza e sulle ragioni ampiamente esposte dagli industriali... e non ancora controbattute dagli operai e tanto meno dimostrate infondate». L'ordine del gior-no si concludeva con una piena conferma di unanime solidarietà nei confronti degli organismi nazionali, in attesa di ulteriori indicazioni sul proseguimento della lotta.

Ma era proprio la solidarietà che stava per venir meno attorno a Giovanni Agnelli. Prima che potesse essere attuato l'ordine di serrata votato dalla Federazione Nazionale, le fabbriche erano state occupa-te, all'inizio di settembre. La nuova ondata di lotte portò all'accordo di metà settembre, sancito a Roma tra la Fiom e la Confederazione degli Industriali, in base al quale si sarebbe preso in considerazione l'avvio del controllo sindacale sulla fabbrica.

Agnelli, incline a fare concessioni salariali ma a non arretrare di un passo su questioni che riguardassero poteri e discrezionalità della direzione aziendale, venne a trovarsi in una posizione diversa da quella prevalente dell'AMMA, propensa ad accogliere il concordato

di Roma. Le divergenze all'interno dell'AMMA si riprodussero al-l'interno della Fiat. E Agnelli, con Guido Fornaca, Direttore Gene-rale, affrontò la questione della loro posizione personale, nel Consi-glio di Amministrazione del 29 settembre, con una ricostruzione de-gli avvenimenti che portarono all'occupazione della Fiat:

« Anzitutto la serrata venne decisa dagli industriali quando venne dimo-strato che i danni dell'ostruzionismo erano talmente forti che era preferibile chiudere e quando si aveva la sicurezza che gli stabilimenti sarebbero stati difesi. Ancora nella notte del 31 agosto, quando si comunicò al prefetto che gli stabilimenti sarebbero stati chiusi, si ebbero assicurazioni che si sarebbe impedita l'invasione. Disgraziatamente, nella notte stessa le istruzioni veni-vano cambiate; cosicché, senza alcuna resistenza, le masse occupaveni-vano le fabbriche. Dai colloqui avuti prima e dopo con il capo del Governo e altro suo familiare, ho avuto la convinzione che il governo sarebbe stato neutrale e che tale neutralità avrebbe dovuto interpretarsi come incitamento alla resi-stenza. E fino a quell'epoca era prevedibile una vittoria completa degli indu-striali. Quando invece il governo tramutò la sua neutralità in appoggio alle masse operaie, sia lasciando violare il principio di proprietà con l'occupazio-ne degli stabilimenti, sia dando manifestamente torto agli industriali, l'am-ministratore delegato cercò di convincere gli altri industriali che dalla lotta si sarebbe usciti perdenti e che era opportuno addivenire a transazioni. Le sue proposte vennero respinte ed egli dovette ritirarsi dal partecipare alla di-rezione del movimento. Si venne così alla nota imposizione governativa. Questa imposizione lascia uno strascico di questioni che occorre definire».

Ritiratosi dalla «direzione del movimento», Agnelli aveva tutta-via sottoscritto un nuovo accordo con la Fiom che prevedeva le desi-derate concessioni salariali.

La vertenza si chiudeva, nel volgere di qualche giorno, indipen-dentemente dagli indirizzi dell'AMMA.

Questa improvvisa sortita e la contemporanea proposta di tra-sformare la Fiat in una cooperativa avevano fatto cessare l'occupa-zione e gli stabilimenti erano stati riconsegnati.

Questo aveva ulteriormente allontanato la linea dell'AMMA da quella di Agnelli, che manifestò il proposito di dare le dimissioni, non solo dall'Associazione degli Industriali Metalmeccanici, ma an-che dalla stessa Fiat:

« dal complesso di tutte le cose, l'amministratore delegato ha tratto con-siderazioni e conseguenze che deve esporfe al Consiglio in tutta la loro gra-vità. Le masse, inebriate dal facile successo, sapendo di essere sostenute dal governo, non fanno mistero che la lotta di classe proseguirà senza quartiere, dentro e fuori delle fabbriche. Le masse perseguono un ideale di

comuni-smo e di anarchia, che viene predicato loro da molto tempo e di cui la vitto-ria attuale è il primo passo. D'altro canto l'autorità degli industvitto-riali che sono stati gli esponenti delle lotte passate è completamente caduta ed è loro im-possibile tenere la disciplina nelle officine e comandare alle masse. Anche la nostra società sente purtroppo l'effetto delle lotte di quest'anno. Nei primi tre mesi dell'anno, fermate continue all'interno delle officine. Nel mese di aprile, sciopero; in maggio, finalmente ripresa del lavoro, che non è stato proficuo a causa delle fermate precedenti. Giugno e luglio si è cominciato a produrre con una certa regolarità. Ma ad agosto si è avuto la sospensione delle ore straordinarie e dodici giorni di ostruzionismo. Settembre, occupa-zione delle fabbriche con lavoro pressoché nullo. Proseguire in queste con-dizioni significherebbe, in modo certo, mandare in rovina la società. Per sal-vare l'ente bisogna quindi cercare altre forme di lavoro che permettano di ottenere ciò che in regime capitalistico non si riesce più ad ottenere, cioè la disciplina, e la volontà di lavorare ».

La relazione di Agnelli proseguiva sottolineando che da queste considerazioni era nata la proposta, già riferita dai giornali, di tramu-tare la società Fiat in una cooperativa in cui fossero interessati ope-rai, tecnici ed impiegati. Si sarebbe così creata una struttura nella quale i dirigenti, parlando a nome dei cooperatori, avrebbero potuto ottenere obbedienza. Questa era l'unica soluzione che poteva salvare l'integrità fisica della Fiat e ricreare la possibilità di una conduzione aziendale, buona o cattiva che fosse. Questa soluzione unica e obbli-gata, comportava inevitabilmente che l'amministratore delegato e il direttore generale uscissero di scena. Qualunque risposta fosse stata data dalle organizzazioni operaie a questa proposta,

« non c'è dubbio che né l'amministratore delegato, né l'ingegner Forna-ca possono né sottoporsi al controllo né agire in nome della cooperativa. Es-si sono stati i veri esponenti di un regime borghese-autoritario; qualunque atto facessero in nome della cooperativa, susciterebbe sospetto e provoche-rebbe conflitti senza fine».

L'amministratore delegato della Fiat, il cui linguaggio non è vela-to da eufemismi, ribadiva anche la propria distanza ideale dall'orga-nizzazione cooperativistica, che si sarebbe comunque rivelata incom-patibile con i programmi di rinnovamento già delineati in collabora-zione stretta con l'ingegner Fornaca. L'adattamento ai tempi e alla «mentalità nuova che non si sentono di avere», dovrà essere il com-pito di « persone nuove che non siano state esposte nella lotta e po-tranno forse più facilmente risolvere la situazione». Per quanto ri-guarda la loro posizione personale,

«né per dignità offesa né per risentimento, ma esaminata la cosa con dovuta ponderazione e nell'esclusivo interesse dell'ente, l'amministratore delegato e il direttore generale rassegnano le loro dimissioni, restando in ca-rica temporaneamente quanto occorre per mettere in funzione chi dovrà so-stituirli e portare a termine le trattative iniziate per la trasformazione in coo-perativa della società ».

Proprio in occasione di quella seduta del Consiglio venne avan-zata dallo stesso Giovanni Agnelli la proposta di affidare a Broglia, Gioannini e all'ing. Vitali il compito di curare tutte le operazioni re-lative alla « trasformazione » in cooperativa.

Nessun operatore di buon senso avrebbe potuto considerare rea-listica tale trasformazione. In un articolo pubblicato sul «Corriere della Sera », Luigi Einaudi, al quale il buon senso non faceva difetto, si domandava come la cooperativa avrebbe potuto far fronte alle pe-santi condizioni previste dalla proposta di Agnelli, quali il pagamen-to di tutte le azioni della Società Generale Finanziaria, gli interessi fissi e una parte degli utili. Einaudi si chiedeva inoltre come sarebbe stato possibile « pagare le enormi imposte sui sovrapprofitti di guerra proprio in un momento di scarsa o inesistente disponibilità di liqui-di, di immobilizzi e di incertezze».

Se a spaventare Broglia non fossero bastati la carenza o inesi-stenza dei documenti contabili, il mutamento dei valori in entrata e uscita, la difficoltà di impostare un inventario attendibile, bastò certamente il compito proibitivo di gestire la trasformazione, al buio, di un'azienda capitalistica dilatata dalla guerra e sconvolta dal dopoguerra in una cooperativa con un'identità e una gestione ancora vaghissima e con una consistenza finanziaria totalmente inesistente.

Bastarono tre settimane perché Broglia si mettesse a scrivere la sua brava lettera di dimissioni, in data 18 ottobre. Nel frattempo, il 13 di ottobre, il presidente della Fiat, Eugenio Rebaudengo, sollecita Giovanni Agnelli a ritirare le dimissioni, « ove gli azionisti lo deside-rino». E gli azionisti lo desidereranno, nell'assemblea generale straordinaria convocata per il 28 ottobre.

Prima di loro, i soci dell'AMMA, due giorni prima, avevano una-nimemente chiesto ad Agnelli di ritornare alla guida dell'Associazio-ne. In questa occasione Valletta svolse un ruolo di primo piano. I punti più importanti dell'ordine del giorno riguardavano le dimissio-ni del Presidente e del Consiglio Direttivo, l'indirizzo da dare all'As-sociazione e la nomina di nuovi organi sociali. In pratica, dopo tanti contrasti, equivaleva ad un atto di rifondazione dell'Associazione e

Valletta riteneva che le dimissioni di Agnelli potevano significare la fine dell'AMMA.

Dopo l'introduzione del vicepresidente, al quale era stata affida-ta la presidenza dell'assemblea, Valletaffida-ta impostò il suo intervento su una questione teorica e secondaria per ottenere ciò che gli interessa-va sulla questione fondamentale. Valletta, forse per supplire alla sua non certo imponente statura, parlò in piedi su una colonna mozza della sala per le riunioni, nella vecchia sede della Lega Industriale, in Via Massena. Rilevò come non fosse possibile procedere alla nomina di nuovi organi sociali quando non si sapeva ancora con precisione quale indirizzo dare all'Associazione; cioè, se conferirle gli scopi di un'associazione di studio o conservarle il suo carattere di rappresen-tanza sindacale. Sollecitò quindi la creazione di una Commissione che chiarisse questo punto e chiese che intanto il Consiglio dimissio-nario «rimanesse ancora in carica fino a che la Commissione non avesse espletato il suo mandato». Dopo aver ricevuto consensi da al-cuni altri soci, Valletta presentò un ordine del giorno nel quale l'as-semblea dei soci riaffermava la più piena e sincera « fede nella

Nel documento Vittorio Valletta (pagine 68-80)