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L’evoluzione dell’esperienza americana e la diffusione del moderno «terzo

4. La legislazione in materia non profit dal secondo dopoguerra fino

4.1. L’evoluzione dell’esperienza americana e la diffusione del moderno «terzo

Per capire l’esponenziale evoluzione del fenomeno non profit negli Stati Uniti, basti riflettere su un dato emblematico: alla metà del secolo scorso, quasi tutti i cittadini americani facevano parte di – almeno – un’organizzazione non profit, come affermato negli approfonditi studi condotti dal Prof. Howard L. Oleck (103).

Peraltro, lo studioso definiva già in modo chiaro le coordinate essenziali per contraddistinguere un ente non profit, che poteva definirsi tale solo quando perseguiva in via dominante scopi etici, morali o sociali (104). Altresì, costituiva dato assodato il divieto di distribuire agli associati, ovvero ad altri soggetti attivi all’interno dell’ente, servizi, denaro, dividendi o altre utilità (105).

Sebbene già all’epoca si riscontrassero forti difficoltà a fornire definizioni univoche per descrivere le organizzazioni non profit, per via dell’essenza fortemente etica e personale del fenomeno, una prima definizione ufficiale è stata tentata dallo Stato della Louisiana, nel 1948, attraverso il «Louisiana Nonprofit Corporation Act». Ivi, si evinceva che un ente senza scopo di lucro è tale quando persegue uno scopo inidoneo a comportare profitti o guadagni pecuniari per i suoi membri o partecipanti, cui deve accompagnarsi il divieto di corrispondere agli stessi dividendi o altre

(102) L’analisi della realtà italiana non compare, difatti, in alcuno dei seguenti studi comparatistici: ANHEIER K. H. – SEIBEL W. S., The third sector: comparative studies of nonprofit

organizations, cit.; MACCARTHY K. D. – HODGKINSON V. A. – SUMARIWALLA R. D., The nonprofit

sector in the global community. Voices from many nations, San Francisco, 1992; ANHEIER H. K., Themes

in international research on the non-profit sector, in Nonprofit and Voluntary Sector Quarterly, 1990;

ANHEIER H.K.–SALOMON L. M., The nonprofit sector in comparative perspective, in POWELL W.W.– STEINBERG R., The nonprofit sector: a research handbook, II ed., New Havem, 2006, pp. 89-114.

(103) HOWARD OLECK L., Non-profit corporations and associations. Organization management

and dissolution, New York, 1956, p. v: «almost every American belongs to at least one non-profit organization. No one knows exactly how many such organizations there are in United States, but they number in the hundreds of thousands».

(104) HOWARD OLECK L., Non-profit corporations and associations, cit., p. 1: «when ethical,

moral, or social motives are the dominant ones in an enterprise, that enterprice is non-profit».

(105) HOWARD OLECK L., Non-profit corporations and associations, cit., p. 2: «if this is

distribuited to persons active in the enterprise, as gains on their investments of services, money, or property (i.e., as dividends), the purpose is profit».

remunerazioni pecuniarie, essendo meramente consentito il pagamento di salari o indennizzi ragionevoli per i servizi resi (106).

In altri termini, si trattava di enti al servizio del bene comune, ed i cui eventuali proventi non potevano in linea generale essere distribuiti fra i membri (107).

Queste limitazioni, d’altro canto, erano propedeutiche per ottenere forti incentivi sul piano fiscale: in ogni Stato, ed a vario titolo, le organizzazioni non profit erano soggette ad esenzioni o agevolazioni, e ciò nel pagamento di tasse, oneri e tributi (108).

Gli studiosi, poi, erano piuttosto concordi nel suddividere le organizzazioni in base all’omogeneità degli scopi perseguiti (109). Vi potevano essere, dunque:

a) organizzazioni di carità, che includevano organizzazioni civili dedite nel campo della religione, dell’educazione, dei servizi ospedalieri, culturali e simili;

b) organizzazioni sociali, costituite dai club (purché non esclusivi o discriminatori, né immorali), dalle società mutualistiche, o dagli ordini fraterni;

c) organizzazioni politiche;

d) associazioni attive nel campo del commercio, quali ad esempio commissioni sindacali del commercio e camere di commercio, nonché associazioni di produttori o datori di lavoro;

e) organizzazioni governative, categoria che includeva tutte le amministrazioni di governo ed amministrative, anche locali (110).

(106) Louisiana Nonprofit Corporation Act, 1948, tit. 12, par. 101: «nonprofit corporation

means a corporation organized for a purpose not involving pecuniary profit or gain to its shareholders or members, and not paying divideds or other pecuniary remuneration to its shareholders or members; provided that the corporation may pay reasonable compensation or salaries for services rendered». Per

altre iniziali definizioni legislative del fenomeno, di certo meno incisive, si può riportare quanto emerge dal Wisconsin’s new Nonstock Corporation Law, 1953, L.c. 181.01.76: «nonprofit corporation means a

corporation, no part of the income of wich is distributable to its members, directors, or officers»; in

termini ancor più generici si pone la New York’s Membership Corporations Law, L. c. 35, par. 2: «the

term membership corporation means a corporation not organized for profit».

(107) MACCARTHY K.D.–HODGKINSON V.A.–SUMARIWALLA R. D., The nonprofit sector in

the global community, cit., p. 3: «nonprofit organizations have certain characteristics in common: they are organizations formed to serve the public good, and income (or profits) from these organizations are not distribuited to members or owners».

(108) MACCARTHY K.D.–HODGKINSON V.A.–SUMARIWALLA R. D., The nonprofit sector in

the global community, cit., p. 38; cfr. anche BAUER R., Nonprofit organizations in international

perspective, in ANHEIER K. H. – SEIBEL W. S., The third sector: comparative studies of nonprofit

organizations, New York, 1994, p. 272.

(109) HOWARD OLECK L., Non-profit corporations and associations, cit., pp. 5-6.

(110) Fra cui, ad esempio, Comuni, Villaggi, Distretti, ovvero finanche enti quali la New York

Port Authority o la Civil Aeronautics Board. Ovviamente, in accordo con questa tipologia di

classificazione, veniva anche abbozzata una distinzione fra enti a carattere pubblico o privato, nonché enti di azione ovvero di non-azione. Sul punto v. HOWARD OLECK L., Non-profit corporations and

Inoltre, si prevedeva la possibilità che l’esercizio delle attività non profit potesse essere effettuato non solo da enti dotati di personalità giuridica, bensì anche da associazioni non riconosciute.

Più dissonanti, invece, le normative dettate in tema di esercizio di attività diverse rispetto a quelle di interesse generale. Sebbene costituiva dato assodato che gli organismi non profit potessero effettuare marginali attività commerciali strumentali ai loro scopi meritevoli (111), si assistette ad una divergente disciplina dei limiti – più o meno stringenti – di questa facoltà. Ad esempio, nella maggior parte dei casi, la destinazione dei proventi delle attività commerciali in favore di quelle senza scopo di lucro non veniva ritenuta sufficiente per esimere da tassazione ordinaria i ricavi (112).

L’importanza assunta dal fenomeno era tale che nel settembre del 1952 l’istituzione American Bar Association’s Committee on Corporate Laws of the Section of Corporation, Banking and Business Law decideva di pubblicare una proposta di modello statutario uniforme che avrebbero dovuto adottare tutte le associazioni non profit (113); anche se al progetto, frutto di un intenso lavoro, non venne data particolare attenzione (114).

Ebbene, nell’ambito del suddetto periodo storico, sociologi ed economisti americani hanno iniziano a descrivere il fenomeno coniando l’espressione «terzo settore» (115), oggi generalmente accettata (116).

(111) HOWARD OLECK L., Non-profit corporations and associations, cit., p. 2: «its pratical

operation often requires investment of its assets for profit. The incidental acquisition of profits does not destroy its non-profit character if its basic purpose is public-benefit, and if its profits are devoted to that purpose».

(112) MACCARTHY K.D.–HODGKINSON V.A.–SUMARIWALLA R. D., The nonprofit sector in

the global community, cit., p. 47.

(113) Va difatti segnalato che la forma più utilizzata era quella dell’associazione, seguita da quella della fondazione, nonché, infine, da forme residuali di entità collettive ovvero finanche individuali. Sul punto HOWARD OLECK L., Non-profit corporations and associations, cit., pp. 4-5. Da segnalare che, fra le forme residuali di enti collettivi, l’A. pone anche i seguenti: «individual trusteeship, committe

control, governmental supervision, and bank or insurance company management».

(114) Lo schema di statuto, composto da 35 articoli, disciplinava la genesi e le regole associative principali degli enti non profit. Veniva prevista, oltre alla denominazione, sede e composizione dell’associazione, una disciplina dedicata alla descrizione degli scopi meritevoli perseguiti, dei poteri e delle funzioni degli organi interni all’associazione, nonché delle regole per disciplinare le vicende straordinarie dell’ente. Lo schema di statuto è interamente riportato da HOWARD OLECK L., Non-profit

corporations and associations, cit., pp. 417-433.

(115) In particolare, secondo un interessante studio statunitense, fu proprio l’universo organizzativo del Nord America a fornire le basi per il moderno sviluppo delle teorie sul settore non profit. Sul tema v. ANHEIER K.H.–SEIBEL W. S., The third sector: comparative studies of nonprofit

organizations, New York, 1990, p. 1: «when theories of nonprofit organizations were first introduced in the 1970s, the organizational universe of North America provided the back-ground for their development. Theories either highlighted “market failure” or “government failure” or some combination of private and public deficiencies in the delivery of quasi-publici goods as the reason behind the emergence of nonprofit organizations. by the end of the 1970s, changing political and economic tides led to a

In particolare, Amitai Etzioni, al tempo professore di sociologia alla Columbia University di New York, lo ha per la prima volta introdotto all’interno di un breve quanto intenso articolo edito nel 1973 (117): «mentre il dibattito su come soddisfare i nostri bisogni si è concentrato sul pubblico rispetto all'alternativa privata, una terza alternativa, e dunque un terzo settore, è cresciuto tra il settore statale e quello del mercato. In realtà questo terzo settore potrebbe essere l'alternativa più importante per i prossimi decenni, non sostituendo gli altri due, ma abbinando e bilanciando i loro ruoli importanti» (118).

In altre parole, per Etzioni, il termine terzo settore ben descrive una suggestione venutasi a creare per superare l’antico binomio fra pubblico e privato. Ed in particolare, con esso si voleva rappresentare un’alternativa agli svantaggi associati sia alla massimizzazione del profitto che alla burocrazia, combinando, viceversa, la flessibilità e l’efficienza dei mercati con l’equità e la prevedibilità dell’amministrazione pubblica (119).

Più nello specifico, alla base dello sviluppo del terzo settore, la dottrina statunitense è concorde nel ritenere determinante una combinazione di carenze, sia pubbliche che private, nell’erogazione di servizi di interesse generale in favore degli individui, con particolare riferimento ai più bisognosi. Ciò portò ad una rimodulazione

reconsideration of the division between private and the public in many european countries and elsewhere. researchers and policy-makers have begun to reexamine decentralization and privatization and to consider the third sector as a possible remedy for the “crisis of the welfare state”».

(116) Difatti, è ormai generalmente accettato che il termine terzo settore sia di valenza universale, come peraltro confermato da un approfondito studio americano. Sul punto TAYLOR R., The

rise of third sector research, in AA.VV., Third sector research, a cura di TAYLOR R., New York, 2010, p. 1: «by now, it is generally accepted that the term third sector stand sas a cath-all term for the

organizational universe that emerges in many societies between government and the market».

(117) Preme dar conto che parte della dottrina italiana attribuisce l’introduzione storica dell’espressione al politico Francese Jacques Delors, all’interno del rapporto denominato «un progetto per l’Europa» e redatto in sede comunitaria nel 1978 (PROPERSI A., Il sistema di rendicontazione negli enti

non profit. Dal bilancio di esercizio al bilancio di missione, Milano, 2004, p. 9). Ad ogni modo, il rilievo

non appare corretto, sebbene sia indiscussa l’importanza del rapporto per aver «ufficializzato» l’utilizzo del termine anche in ambito europeo.

(118) ETZIONI A., The third sector and domestic missions, in Public Administration Review, 1973, 33, p. 315: «while debate over how to serve our needs has focused on the public versus the private

alternative, a third alternative, indeed sector, has grown between the state and market sector. Actually this third sector may well be the most important alternative for the next few decades, not by replacing the other two, but by matching and balancing their important roles». Per un’analisi circa l’origine e

l’evoluzione degli enti non profit, sotto l’angolo prospettico della crisi dello Stato sociale, si rinvia per tutti a ROSE-ACKERMAN S., The economics of nonprofit institutions. Studies in structure and policy, Oxford, 1986.

(119) ANHEIER K. H. – SEIBEL W. S., The third sector: comparative studies of nonprofit

organizations, cit., p. 8: «for Etzioni, the term “third sector” suggested elements of the then widely discussed convergence thesis. Third sector was intended to express an alternative to the disadvantages associated with both profit maximization and bureaucracy by combining the flexibility and efficiency of markets which the equity and predictability of public bureaucracy».

della divisione tra privato e pubblico, nonché, parallelamente, a considerare il terzo settore come possibile rimedio alla crisis of the welfare state, ovverosia alla crisi dello Stato sociale (120).

Anche Theodore Levitt, economista americano e docente presso la Harvard Business School, ha utilizzato il medesimo termine «terzo settore» per descrivere il fenomeno nel suo complesso (121).

Tale terminologia, nata sul piano sociologico, nel tempo ha finito per descrivere un fenomeno sempre più rilevante dal punto di vista economico e giuridico, sebbene risulti ancora sfumata la fisionomia della categoria (122).

4.2. La realtà italiana e la proliferazione della normativa speciale in materia