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Con il passaggio dalla pregressa normativa al D.lgs. 3 luglio 2017, n. 112, sembra essere stata ulteriormente raffinata la definizione di impresa sociale (131).

Da un lato, si è ufficializzata in via normativa la possibilità di svolgere una vera e propria «attività d’impresa», e questa esplicita indicazione ha preso il posto del più «timido» riferimento all’attività economica organizzata; dall’altro lato, è stato sostituito il termine generico «organizzazione» con quello di «ente» privato, che pone di più l’accento sul profilo soggettivo.

Altresì, è stato implementato l’apparato strutturale ed organizzativo che dovrà contraddistinguere ciascuna impresa sociale, ed a tal fine sono stati introdotti espliciti riferimenti alla gestione responsabile e trasparente, nonché al necessario coinvolgimento dei soggetti che gravitano attorno all’impresa sociale.

Infine è stata valorizzata, a livello definitorio, l’assenza dello scopo di lucro. Nello specifico, difatti, «possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutti gli enti privati, inclusi quelli costituiti nelle forme di cui al libro V del codice civile, che, in conformità alle disposizioni del presente decreto, esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro e per finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, adottando modalità di gestione responsabili e trasparenti e favorendo il più ampio coinvolgimento dei lavoratori, degli utenti e di altri soggetti interessati alle loro attività» (art. 1, co. 1).

Non possono in ogni caso divenire imprese sociali le società costituite da un’unica persona fisica, le amministrazioni pubbliche, nonché, in generale, gli enti che limitano – anche indirettamente – l’erogazione di beni e servizi in favore dei soli soci o associati.

Un’importante conferma concerne la possibilità, per tutti gli enti religiosi civilmente riconosciuti, di costituire un apposito ramo al fine di esercitare attività imprenditoriali di interesse generale, anche se su tali tematiche si avrà modo di ritornare ampiamente in seguito (132).

Last but not least, come già anticipato nel corso del precedente capitolo, gli approdi normativi in tema di impresa sociale stimolano riflessioni di più ampia portata sulla possibile suddivisione sistematica fra le diverse forme giuridiche adottabili dagli enti collettivi, in base al tipo di attività svolta.

Occorre difatti partire dalla seguente constatazione: mediante il D.lgs. 112/2017 si è confermata la possibilità che, oltre alle società, anche fondazioni, associazioni o comitati possano svolgere in via esclusiva o principale attività economiche organizzate, acquisendo così la qualifica di impresa sociale.

15.1. Lo svolgimento di attività imprenditoriale ed il dibattito fra la teoria teleologica ed il principio della neutralità delle forme giuridiche.

Il codice civile, a livello sistematico, considera le società all’interno dell’insiemistica degli enti collettivi privati; ad ogni modo, si assiste ad una radicale divergenza di disciplina formale fra esse e gli altri enti (associazioni, fondazioni e comitati), poiché l’art. 12 c.c. dispone perentoriamente che «le società sono regolate dalle disposizioni contenute nel libro V».

Orbene, secondo la nozione delineata dall’art. 2247 c.c. «con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di una attività economica allo scopo di dividerne gli utili».

In modo condivisibile è stato ricavato in dottrina che la disposizione in commento enuncia i requisiti essenziali del contratto di società, il quale comunque deve essere inserito nella categoria dei contratti plurilaterali aperti con comunione di scopo (133).

Tali requisiti consistono: nel conferimento di beni ad opera dei soci; nell’esercizio comune di un’attività economica; nel dichiarato perseguimento dello

(132) Su cui infra al Cap. IV, par. 13.

(133) Ovverosia, all’interno della medesima macro-categoria che contraddistingue i contratti di associazione, su cui v. retro al par. 12. V. per tutti CAMPOBASSO G. F., Manuale di diritto commerciale, III ed., a cura di CAMPOBASSO M., Torino, 2004, p. 4, per cui il contratto di società rientra fra i contratti associativi o con comunione di scopo in cui tutte le prestazioni, cui si obbligano i contraenti, sono finalizzate alla realizzazione di uno scopo comune. Inoltre, il contratto di società è un contratto potenzialmente aperto in quanto il numero delle parti può variare in aumento o in diminuzione.

scopo di lucro, inteso come destinazione ai soci dei vantaggi economici conseguiti tramite l’esercizio dell’attività sociale (134).

Sebbene sia pacifico che possa essere svolta attività d’impresa anche al di fuori delle logiche societarie (135), sono intercorsi dibattiti sul riconoscimento di tale facoltà anche in capo agli enti senza scopo di lucro (136).

La dottrina tradizionale riteneva che fondazioni, associazioni e comitati fossero ontologicamente impossibilitati ad esercitare qualsivoglia attività economica (137).

La giustificazione era sostanzialmente basata sul silenzio normativo: poiché il codice civile non aveva disciplinato lo svolgimento di attività economiche da parte di tali enti, ne doveva discendere un assoluto impedimento. Questo, peraltro, dimostrava che le due tipologie di enti (società da un lato, ed enti senza scopo di lucro dall’altro) fossero stati distinti proprio in base al tipo di attività tipiche esercitabili.

Tale approccio, ad ogni modo, non ha retto alle forti spinte evolutive degli enti senza scopo di lucro, che sovente facevano ricorso allo svolgimento di attività commerciali come forma di auto-finanziamento per il perseguimento delle finalità statutarie.

Sulla scorta di ciò, vi è stata un’elaborazione dottrinale che, assai efficacemente, ha saputo ricostruire una rinnovata distinzione. Premesso che lo svolgimento di attività imprenditoriali da parte degli enti del libro I non è incompatibile con i principi generali dell’ordinamento, e dunque può essere legittimamente ammessa, la matrice della differenza fra essi e le società risiede piuttosto nella tipologia di scopo ideale.

Ed a tal proposito, caratteristica essenziale degli enti del libro I è l’assenza di lucro soggettivo, con conseguente divieto assoluto di distribuzione degli utili (138). Il

(134) Il diverso modo di realizzare tale vantaggio e di dividerlo tra i soci consente di distinguere lo scopo lucrativo in senso stretto o scopo speculativo (ossia la distribuzione ai soci di un utile, quale eccedenza dei ricavi rispetto ai costi, in proporzione all’investimento di ciascun socio) dallo scopo mutualistico (consistente in un risparmio di spesa o in una maggiore remunerazione del lavoro dei soci, tipico delle società cooperative), entrambi compresi nella nozione di società (così AA.VV., Diritto delle

società. Manuale breve, V ed., Milano, 2012, p. 11).

(135) Si pensi a tutti gli imprenditori individuali ed ai lavoratori autonomi.

(136) Il dilemma si risolveva nella seguente questione: l’assenza di disciplina equivale ad un mancato divieto, oppure lo presuppone?

(137) Questa l’impostazione di SPADA P., La tipicità delle società, Padova, 1974.

(138) OPPO G., L’essenza della società cooperativa e gli studi recenti, in Riv. Dir. Civ., 1969, I, p. 385; PONZANELLI G., Gli enti collettivi senza scopo di lucro, cit., passim. Stando a tale impostazione, la causa sociale è costituita, nella definizione legislativa, non dal semplice esercizio dell’impresa, o meglio dell’attività economica, ma da questo esercizio allo scopo di dividerne gli utili; il primo, in funzione strumentale rispetto al secondo. Ed ancora, si ritiene che la «società è oggi l’organizzazione alla

quale uno o più soggetti conferiscono beni o servizi per l’esercizio di un’attività economica imputabile all’organizzazione stessa allo scopo di conseguirne un vantaggio patrimoniale» (così DI SABATO F.,

lucro soggettivo, viceversa, contraddistingue l’essenza del contratto societario, poiché basato sul perseguimento di scopi patrimoniali.

Sulla scia di questa impostazione, ritenuta nel tempo preferibile, è stata riconosciuta la facoltà, in capo ad associazioni e fondazioni, di svolgere marginali nonché strumentali attività commerciali, sul presupposto che esse potessero essere funzionali al miglior raggiungimento delle finalità ideali di tali enti.

D’altronde, l’affermazione testé riportata è lo specchio di quanto finora emerso dall’analisi della legislazione speciale avutasi in tema di enti non profit a partire dal secondo dopoguerra (139).

Specularmente, peraltro, è stato ritenuto che anche le società possano svolgere marginali attività non connotate dallo scopo di lucro (140).

In altri termini, da tale quadro ricostruttivo sembra emergere che:

a) le società, tipizzate in numerus clausus (141), sono enti imprenditoriali organizzati per svolgere attività economica, con la finalità di suddividerne gli utili;

b) le altre forme di enti collettivi privati tendono sempre alla realizzazione di scopi ideali, e ciò senza finalità di lucro soggettivo;

notariato, diretto da PERLINGIERI P., Napoli, 2004, pp. 11-12; nello stesso senso anche FERRO LUZZI P., I

contratti associativi, Milano, 1971, p. 238).

(139) Il riferimento è alla normativa speciale in tema di non profit analizzata retro nel corso del Cap. I, par. 4.2 ss. Anche se, per rigore metodologico, si evidenzia che l’attribuzione in via speciale di tali facoltà non è idonea a sopire ogni dubbio in relazione alla possibilità di svolgere, legittimamente ed in via generale, attività economiche. Anzi, per l’opposta impostazione ciò sarebbe semmai la riprova che, in quanto eccezione al principio generale, è stato necessario prevedere espressamente tale potere in sede di normativa speciale.

(140) In giurisprudenza v. già Cass. Civ. n. 1921 del 1961, citata da LAMORTE G., L’esclusione

dello scopo di lucro nello statuto delle società, in www.diritto.it, 26 gennaio 2001: «la produzione e la divisione degli utili, che costituiscono l’elemento oggettivo della causa del contratto di società, va riferita al complesso dell‘attività societaria e questa funzione economico-sociale tipica non viene meno se qualche atto o negozio, rientrante nell‘oggetto sociale, sia esercitato senza fine di lucro». Peraltro, il

florilegio delle dottrine a sostegno del tramonto dello scopo di lucro societario, ed in favore, quindi, di un c.d. principio della società senza scopo di lucro, debbono essere oggi rilette secondo una logica di contingenza (per cui v. MARASÀ G., Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984; SANTINI G.,

Tramonto dello scopo di lucro nelle società di capitali, in Riv. Dir. Civ., 1973, I). Difatti, gli A. a

sostegno di tale tesi facevano primariamente leva sull’introduzione del modello di società sportiva senza scopo di lucro, in base ad una temporanea novella costituita dall’art.10, co. 2, Legge 23 marzo 1981, n. 91, successivamente abolito dalla Legge 28 novembre 1996, n. 586. Ad ogni modo, tale figura societaria, nel corso della sua vigenza, non poteva che essere considerata quale forma giuridica del tutto eccezionale ed in deroga rispetto ai principi generali del codice civile. Sull’odierna società sportiva dilettantistica senza scopo di lucro v. invece più avanti nel testo, nonché alla nota 152.

(141) Esse sono tipizzate e suddivise fra società di persone (società semplice; società in nome collettivo; società in accomandita semplice), e società di capitali (società a responsabilità limitata; società a responsabilità limitata semplificata; società in accomandita per azioni; società per azioni). Altra categoria di società, della quale si è parlato retro, Cap. I, par. 4.2.3, è la società cooperativa.

c) le società non hanno il monopolio nell’esercizio delle attività economiche, ma esso costituisce comunque un requisito che deve prevalentemente caratterizzare, assieme allo scopo di lucro, tale forma giuridica;

d) le altre forme di enti collettivi privati non hanno il monopolio nel perseguimento di determinati scopi ideali, ma esso costituisce comunque un requisito che deve prevalentemente caratterizzare, assieme all’assenza del lucro soggettivo, tali forme giuridiche.

Quanto appena sintetizzato costituisce esplicazione della c.d. teoria teleologica, stando alla quale poteva ricavarsi una specifica distinzione fra il tipo «società» di cui al libro V, ed il tipo «enti collettivi privati senza scopo di lucro» di cui al libro I (142).

Sotto tale punto di vista, le apposite restrizioni nell’esercizio di attività diverse rispetto a quelle istituzionali possono essere rilette, in chiave civilistica, come un limite necessario ed indispensabile affinché non muti la natura giuridica dell’ente complessivamente inteso (143).

Nell’ambito della ricostruzione giuridica delineata, e che si ritiene di condividere, l’introduzione del modello legislativo di impresa sociale deve piuttosto inquadrarsi quale peculiare eccezione ai principi generali.

Peraltro, la devianza rispetto alla teoria generale teleologica sarebbe duplice: difatti, da un lato il modello di impresa sociale legittima le società ad impedire il fine di lucro soggettivo (144); dall’altro, la medesima impostazione normativa consente agli altri enti collettivi privati di esercitare in via esclusiva o principale attività d’impresa (145).

(142) Cfr. LIPARI N., Le categorie del diritto civile, Milano 2013, pp. 50-88.

(143) E ciò, a prescindere dai risvolti fiscali sulla qualifica dell’ente, come commerciale o non commerciale. Difatti, il campo che interessa il presente elaborato è quello prettamente civilistico, fermo restando che le conseguenze saranno anche sul piano fiscale e della relativa tassazione.

(144) Sotto questo punto di vista, l’elaborazione dell’impresa sociale risponde proprio alla problematica, emersa in assenza del primo testo legislativo, di non poter configurare a livello statutario una società senza scopo di lucro soggettivo. Tant’è che la dottrina dell’epoca, per tentare di fornire soluzioni, aveva ideato l’applicazione delle teorie del negozio indiretto, rendendo ammissibili patti parasociali ed extra-statutari, con valenza meramente obbligatoria fra i soci, volti a dichiarare la rinuncia del diritto alla distribuzione degli utili (sul tema v. già ASCARELLI T., Il negozio indiretto e le società

commerciali, Torino, 1930).

(145) Previsione, questa, che si ritiene quanto mai inopportuna; difatti, avrebbe di certo creato minori complicazioni prevedere che la funzione sociale dell’imprenditore potesse essere attuata soltanto fra coloro che già svolgono in via principale attività d’impresa, ovverosia le società di cui al libro V. Né ciò avrebbe comportato pregiudizi per gli altri ETS, in quanto spetta pur sempre a loro la scelta di adottare l’una, piuttosto che l’altra forma, per perseguire i propri obiettivi.

D’altro canto, la stessa ideazione, con apposita legislazione a carattere speciale, del modello «impresa sociale», costituisce ipso iure una deroga rispetto alla tipizzazione delle forme giuridiche espressamente ricavabile dal codice civile (146).

Dalla ricostruzione sopra esposta diverge quella parte di dottrina che, partendo dal dato di fatto – ovverosia una complessa eterogeneità delle sovrapposizioni normative, soprattutto in tema di terzo settore –, ha ricavato l’introduzione, nel nostro ordinamento giuridico, del principio di neutralità delle forme giuridiche (147).

In base a tale diversa ricostruzione, la forma giuridica assunta da un determinato soggetto non sarebbe affatto indicativa della sua natura giuridica: potrebbe essere ad esempio consentito tout court ad un’associazione di svolgere attività d’impresa; del pari, una società di capitali potrebbe perseguire senza finalità di lucro uno o più scopi ideali (148).

Ma siffatta ricostruzione, che di certo risulta utile in tema di impresa sociale (149), non può ancora assurgere a principio generale dell’ordinamento civilistico (150),

(146) Sotto questa ottica, funge da importante cartina di tornasole l’approdo giurisprudenziale ante riforma di Corte App. Milano, 29 giugno 1993, la quale aveva ricavato in via pretoria che «il

principio agli utili è certamente disponibile, e quindi deve riconoscersi la legittimità sia alla rinuncia del socio a riscuotere quanto di sua spettanza, sia dall’accordo intervenuto tra i soci che preveda la rinuncia alla percezione degli utili al fine di finanziare l’impresa sociale».

(147) Per cui si rimanda a MARASÀ G., Le società senza scopo di lucro, cit. Già da tempo la dottrina civilistica, nonostante le norme del codice in materia di società impongano ai privati l’adozione di uno dei tipi ivi disciplinati, aveva lanciato un preoccupante monito: «la materia è sempre più

largamente dominata dal divario tra le forme giuridiche e i contenuti economici, sino al punto che il sistema ne risulta radicalmente alterato. La facilità con cui gli operatori economici possono passare da un tipo all’altro, con la sola preclusione posta per l’uso della società semplice, che non può servire all’esercizio di attività commerciali, ha fatto sì che oggi essa superi persino i confini della generale categoria delle società. Cosi che accade di vedere costituite in forma di società organizzazioni che non hanno scopo di profitto e viceversa associazioni, nel senso stretto del termine, impegnate nello svolgimento di attività economiche a scopo di lucro. Lo sviluppo degli istituti e l’impostazione stessa del regime legale delle società hanno portato ad una libertà sconfinata e insindacabile dei privati nella scelta e, quindi in definitiva, alla neutralità delle forme; e quel che è peggio sembra che il sistema normativo abbia preso atto del fenomeno e ne riconosca indirettamente la piena legittimità» (RESCIGNO

P., Manuale di diritto privato, Milano, 2000, p. 859).

(148) Si evince leggendo VELLECCO M., L’impresa sociale: disciplina attuale e prospettive

evolutive, Napoli, 2010 (tesi di dottorato) che «l’estensione della qualifica di impresa sociale agli enti del V libro del codice civile ha scardinato il criterio teolologico, criterio che basa la distinzione degli enti collettivi sulla valutazione dello scopo. Sull’esempio di quanto già avviene in altri Paesi, anche nel nostro ordinamento sta prendendo piede il cosiddetto principio della neutralità delle forme giuridiche che affida agli operatori economici la possibilità di perseguire qualsiasi scopo avvalendosi di qualsiasi forma giuridica purché prevista dal codice civile, non importa se nel primo libro o nel quinto. Tale principio si traduce essenzialmente nella possibilità di perseguire con le strutture proprie di un tipo negoziale gli scopi che da principio sono propri di un altro».

(149) Per un’indagine sulle altre società atipiche che, per espressa previsione legislativa, non perseguivano il fine di lucro, v. IBBA C., Gli statuti singolari, in AA.VV., Trattato delle società per

azioni, diretto da COLOMBO G.E.–PORTALE G.B., VIII ed., Torino, 1992, p. 525 ss.; MONTAGNANI C.,

La verifica del tipo sociale, in Riv. Dir. Civ., 1988, II, p. 36; ROSSI A., S.r.l. unipersonale e tramonto

dovendosi applicare in modo tassativo soltanto laddove espressamente previsto per legge (151), come ad esempio è avvenuto per il monstrum delle società sportive dilettantistiche senza scopo di lucro (152).

(150) Altro interessante campo di prova per la ricostruzione di un possibile criterio generale della neutralità delle forme è costituito dalle elaborazioni in tema di società pubbliche. La questione, che involge delicati rapporti fra diritto amministrativo e diritto commerciale, è stata affrontata da CIRILLO G. P., La società pubblica e la neutralità delle forme giuridiche soggettive, in www.sentenzeitalia.it (testo della relazione del convegno dal titolo «diritto amministrativo ed economia: una sinergia per la

competitività del paese», tenutosi a Varenna il 18-20 settembre 2014), per il quale «è noto come parte della dottrina amministrativa, ma anche la giurisprudenza del Consiglio di Stato, si siano richiamati proprio al principio della neutralità delle forme giuridiche soggettive per giustificare la compatibilità della struttura societaria, e quindi della finalità lucrativa ad essa connaturata, con la finalità pubblicistica, che da quella finalità può prescindere, utilizzando l’istituto della causa astratta e della causa concreta a proposito del contratto societario, ma anche del contratto concluso dal soggetto con i terzi». Ad ogni modo, l’A. arriva a criticare un tale approccio, poiché «l’impostazione porta ad esaltare la funzione creativa della giurisprudenza, che deve spingersi sino alla valutazione della fattispecie specifica con il disorientamento proprio di chi ha perduto lo strumento rassicurante della qualificazione aprioristica derivante dalla natura del soggetto della cui attività si discute».

(151) Difatti, sembra dimostrarsi fallace il tentativo di ricostruire una teoria generale della neutralità delle forme, a partire da un’interpretazione orientata degli artt. 2247 e 2332 c.c. in materia societaria, secondo cui: a) il riferimento dell’art. 2247 c.c. alla divisione degli utili fra soci non avrebbe l’intento di imporre lo scopo lucrativo come elemento essenziale del contratto societario, bensì assurge soltanto a motivo; b) il testo dell’art. 2332 c.c. non include fra le ipotesi tassative di nullità del contratto societario la mancanza di scopo lucrativo. Ciò al fine di dimostrare la mancata configurazione dello scopo di lucro quale elemento causale del contratto di società, con conseguente azzeramento della differenza fra teleologica fra gli enti del libro V e quelli del libro I. Ma tale ricostruzione non regge, poiché: sotto il primo profilo, l’inequivoco dato normativo porta ad affermare che lo scopo di lucro (come visto in precedenza nel testo) costituisce viceversa requisito causale indispensabile del contratto di società; sotto il secondo profilo, il mancato inserimento fra i motivi di nullità non incide sull’essenzialità di tale requisito, anzi la comprova. Difatti, qualora nel contratto dovesse mancare (in assenza di specifici dettami normativi in deroga) lo scopo di lucro soggettivo, lo stesso non può nemmeno essere qualificato come