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Le finalità della Legge delega ed il tentativo di definire il terzo settore

ambiziosi: riformare per l’intero il settore, abbandonando così la visione contingente che aveva caratterizzato le trascorse normative speciali, secondo un’ottica di sviluppo della persona per il perseguimento del bene comune (7).

L’incipit della Legge delega, peraltro, contiene un esplicito riferimento all’attuazione dei principi costituzionali enucleati agli artt. 2, 3, 18 e 118, co. 4. (8). Un richiamo estremamente importante, da cui si evince la volontà di confermare la dimensione latu sensu costituzionale del settore non profit (9).

Un altro fondamentale dato da rilevare è il seguente: la stessa espressione «terzo settore», che fino a quel momento veniva impiegata per descrivere il fenomeno dal generale punto di vista socio-economico (intendendosi con ciò la variegata area compresa tra Stato e mercato) è entrata ufficialmente a far parte del vocabolario giuridico (10).

(5) Art. 1, co. 1, Legge 106/2016: «il Governo è delegato ad adottare, entro dodici mesi dalla

data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi in materia di riforma del Terzo settore».

(6) L’espressione è testualmente riportata da GIORGI M. V., Terzo settore. Verso la riforma, cit. p. 1446.

(7) Ai sensi dell’art. 1, co. 1, Legge 106/2016, la riforma si rende necessaria «al fine di sostenere

l’autonoma iniziativa dei cittadini che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa, in attuazione degli articoli 2, 3, 18 e 118, quarto comma, della Costituzione».

(8) Sul punto si rinvia all’analisi già effettuata retro, Cap. I, par. 3.3. Si ponga, peraltro, l’accento sul seguente dato: dal punto di vista oggettivo, la capacità espansiva del non profit aumenta con l’affievolimento delle restrizioni pubbliche in tema di autorizzazioni e controlli sugli enti collettivi.

(9) Cfr. già TIBERI G., La dimensione costituzionale del terzo settore, cit., p. 7.

(10) In particolare, per CONSORTI P.– GORI L.–ROSSI E., Diritto del terzo settore, Bologna, 2018, p. 63, «ci si riferiva al Ts [terzo settore n.d.r.] in termini intuitivi, rapportandosi a una dimensione

sociale a metà fra il pubblico e il privato; o, come anche si diceva, a cavallo fra Stato e mercato».

D’altro canto, era già stato osservato in passato da BUSNELLI F. D., Brevi note introduttive, in BRUSCUGLIA L. – ROSSI E., Il volontariato a dieci anni dalla legge quadro, Milano, 2002, pp. 10-11, che il concetto di terzo settore «è, primariamente, diritto vivente che poi assume le forme di ius positum (di

rincorsa rispetto alla realtà), con un certo scarto di tempo, necessario affinché un determinato fenomeno assuma dimensioni rilevanti e caratteri nitidamente percepibili».

Difatti, la Legge delega contiene – per la prima volta (11) – un tentativo di definizione legale del settore: «per Terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi» (art. 1, co. 1).

Come si può notare, si tratta di una definizione «in positivo», che prescinde dalla precedente identificazione con il fenomeno delle attività non profit (12).

Tale formulazione, nella quale sono fusi fra loro elementi di varia natura, merita di essere attentamente analizzata.

Anzitutto, si afferma che il terzo settore, dal punto di vista soggettivo, costituisce un’insiemistica che contempla una serie predeterminabile di enti. A tal proposito, si deve trattare di enti privati, con conseguente esclusione di quelli pubblici (13).

Inoltre, volendo scomporre la ridondante formulazione, tali enti privati:

a) sotto il profilo teleologico, debbono tendere al perseguimento senza scopo di lucro di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, in attuazione del principio di sussidiarietà;

(11) Difatti, fino a quel momento non vi erano stati tentativi di definizione del settore dal punto di vista omogeneo, bensì, soltanto sotto un profilo descrittivo. Inoltre, si faceva molta più attenzione all’insiemistica degli enti che ne facevano parte, piuttosto che alle caratteristiche che avrebbero potuto accomunarli. Ne costituisce esempio il D.P.C.M., 30 marzo 2001, recante «atto di indirizzo e

coordinamento sui sistemi di affidamento dei servizi alla persona ai sensi dell'art. 5 della legge 8 novembre 2000, n. 328», il quale all’art. 2 dispone meramente che «ai fini del presente atto si considerano soggetti del terzo settore: le organizzazioni di volontariato, le associazioni e gli enti di promozione sociale, gli organismi della cooperazione, le cooperative sociali, le fondazioni, gli enti di patronato, altri soggetti privati non a scopo di lucro». Per una ricognizione, viceversa, sui tentativi

dottrinali di definire la categoria v. CONSORTI P., Legislazione del Terzo settore. Le norme sul non profit,

il volontariato, la cooperazione sociale ed internazionale, Pisa, 2005, p. 12 ss., nonché successivamente

ID., Nozione di Terzo settore, in Non Profit, 2014, 3, p. 27 ss.

(12) L’osservazione presente nel testo è stata effettuata in sede di presentazione della Legge delega da parte dell’organo politico promotore, ed è contenuta nel Dossier n. 149, Ufficio documentazione e studi, 25 maggio 2016, p. 3 (reperibile sul sito www.camera.it).

(13) Per ente pubblico, in base alla definizione fornita da MONTI P., La Pubblica Amministrazione, in AA.VV., Il diritto...e il rovescio, II ed., Bologna, 2006, p. 50, viene generalmente inteso quell’ente «costituito o riconosciuto da norme di legge, attraverso il quale la pubblica

amministrazione svolge la sua funzione amministrativa per il perseguimento di un interesse pubblico».

Peraltro, l’individuazione della natura pubblica dell’ente è stata costante oggetto di studio da parte della dottrina, che ne aveva elaborato vari criteri distintivi. Su tali questioni si rinvia a CASETTA E., Manuale di

diritto amministrativo, XXI ed., Milano, 2017, p. 91; GAROFOLI R. – FERRARI G., Manuale di diritto

amministrativo, XII ed., Molfetta, 2018, p. 91; SCOCA F. G., Diritto Amministrativo, Torino, VI ed., 2019, p. 127. In chiave storica interessante il contributo monografico di BODDA P., Ente pubblico,

b) sotto il profilo oggettivo, debbono promuovere e realizzare attività di interesse generale, tramite azioni volontarie e gratuite, oppure mediante forme di mutualità, nonché produzione e scambio di beni e servizi.

Per quanto concerne il profilo sub a), sembra proprio che a livello definitorio, il legislatore, preso atto degli approdi cui era giunta la precedente normativa, abbia limitato il requisito dell’assenza dello scopo di lucro al campo soggettivo, ovverosia inteso quale divieto di distribuzione diretta ed indiretta di eventuali utili conseguiti. Ciò in quanto l’espressione è inserita nell’ambito delle finalità teleologiche cui deve tendere l’ente, piuttosto che al modus operandi dello stesso dal punto di vista oggettivo. Un’opzione, peraltro, obbligata nel momento in cui è stato deciso (come si vedrà meglio in seguito): da un lato, di confermare l’impresa sociale fra gli attori protagonisti del terzo settore; nonché, dall’altro, di rendere pienamente ammissibile, fra il novero delle attività, quelle concernenti la produzione e lo scambio di beni e servizi (14).

Positivo sembra il richiamo alle finalità civiche e solidaristiche, nonché al principio di sussidiarietà, che impregna di valori costituzionali la funzione sociale del terzo settore; nella medesima proposizione compare anche il richiamo alle finalità di utilità sociale, sebbene tale espressione debba contraddistinguere piuttosto le concrete attività poste in essere dagli Enti di Terzo Settore, d’ora in avanti ETS (15).

Venendo ora al profilo sub b), può essere osservato che il richiamo all’esercizio di attività di interesse generale intende esplicitamente fare da eco al principio costituzionale espresso all’art. 118, comma 4; allusione comprensibile nell’ottica di creare una definizione – manifesto, ma che in dottrina non è stata esente da critiche (16).

(14) Emblematica la similitudine, addirittura, con la definizione stessa di imprenditore enunciata all’art. 2082 c.c.: «è imprenditore colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata

al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi». Come si vedrà meglio in seguito, pertanto, è

pienamente legittimata all’interno del sistema l’affermazione per cui l’ETS possa effettuare attività produttiva con metodo economico, potendosi applicare la sfera dei benefici al solo rispetto del divieto di lucro soggettivo.

(15) Adottano un’impostazione critica sul punto CONSORTI P.–GORI L.–ROSSI E., Diritto del

terzo settore, cit., p. 66. Per gli A., il legislatore, pur muovendo da intenti lodevoli, sembra aver fatto

«confusione tra attività e finalità, e anche in questo caso dimostra di non essere sempre in grado di

cogliere i nessi di strumentalità istituzionale (il fine perseguito da un ente) e la loro differenza da quelli di strumentalità oggettiva (l’obiettivo delle singole attività svolte)». Difatti, a stretto rigore e secondo

l’impostazione testé richiamata, vanno tenuti separati i concetti di finalità civica e di utilità sociale. (16) Per CONSORTI P. – GORI L. – ROSSI E., Diritto del terzo settore, cit., p. 66, «appare

problematico l’uso in questa proposizione dell’espressione attività di interesse generale. Come accennato, le attività dovrebbero essere di utilità sociale e l’interesse generale dovrebbe valere come indice delle finalità dell’ente, secondo la nota tradizione giuridica connessa alla personificazione degli enti. Invece qui ci troviamo di fronte a un ingenuo avvitamento in termini privatistici della formula – pubblicistica – dell’art. 118, quarto comma, Cost. secondo il quale le attività di interesse generale svolte

Tali attività di interesse generale, inoltre, debbono essere promosse e realizzate: a tal proposito, l’utilizzo della congiunzione «e», anziché «o», potrebbe determinare una lettura restrittiva della norma, che ad ogni modo si spera possa essere scongiurata. Anche perché, come si vedrà in seguito, il legislatore delegato ha considerato, fra le attività di interesse generale, anche la mera promozione – appunto – di un’attività di interesse generale, in assenza della sua effettiva realizzazione in via diretta.

Dopodiché, segue un’elencazione delle modalità – chiaramente alternative – con cui è possibile esercitare tali attività. Elencazione che sembra procedere per spirali concentriche di pericolosità (17).

a) Nulla quaestio sulle forme di azione volontaria e gratuita: l’ambito del volontariato e dell’erogazione gratuita costituisce difatti l’apice della manifestazione altruistica e di solidarietà sociale.

b) Altresì, vengono contemplate attività sotto forma di mutualità: questo richiamo ha lo specifico scopo di far ricomprendere espressamente le società di mutuo soccorso di cui alla Legge 15 aprile 1886, n. 3818, all’interno del terzo settore. Soluzione certamente corretta, ma connotata da un grado di specificità che mal si concilia con l’intento di fornire una definizione generale di terzo settore.

c) In terzo luogo, fra le modalità di attuazione delle attività di interesse generale viene annoverata anche la «produzione e scambio di beni e servizi».

Prima di entrare nel merito della citazione, è d’obbligo richiamare ancora una volta l’evoluzione normativa in tema di non profit (18): come visto, la moderna crisi del welfare state aveva provocato un vuoto di tutela, che nel tempo è stato colmato da enti senza scopo di lucro. In questa rinnovata prospettiva, si era assistito ad un ampliamento di prospettive, tale per cui, da un lato, era quasi scomparsa l’accezione oggettiva – ed in senso assoluto – del divieto di lucro, nonché, dall’altro, il fenomeno aveva inglobato enti che per loro stessa natura esercitavano attività economiche.

dai privati devono essere favorite dai soggetti della Repubblica sulla base del principio di sussidiarietà».

Senza addentrarci in questo rebus, può sommessamente essere fatto notare come l’espressione attività di interesse generale sia più neutra rispetto a quella di utilità sociale; concetto, quest’ultimo, che potrebbe variare di contenuto in base all’evoluzione stessa dell’opinione sociale.

(17) Il pericolo evidenziato nel testo è direttamente connesso alla possibilità che l’ETS possa svolgere attività con metodo commerciale, campo notoriamente pervaso da tentativi non lodevoli di acquisire con metodo economico sostanze poi distribuite sotto altre forme agli associati. Motivo per cui, entro tale ottica, sarà determinante l’effettuazione di controlli per scongiurare il rischio di utilità distribuite in modo indiretto.

Questo è il motivo per cui, nell’ottica di voler riconfermare all’interno del terzo settore soggetti quali imprese sociali e cooperative sociali, è stato inserito un riferimento che esplicitamente richiama il modus operandi dell’attività imprenditoriale ex art. 2082 c.c.

Ciò non toglie, ad ogni modo, che questo passaggio abbia connotati per certi versi «tumorali» (19), dovendo cum grano salis essere disinnescato il rischio di aprire un pericoloso varco fra secondo e terzo settore (20).

Viene infine specificato che il complesso delle attività sopra richiamate ai punti a), b), e c), debba essere svolto «in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi». Non si discute l’esattezza di tale monito, peraltro a conferma dell’innato timore del legislatore che il terzo settore sia utilizzato come maschera per eludere le normative fiscali ordinarie; si vuole soltanto porre l’attenzione sul fatto che l’inserimento di tali aspetti a livello definitorio è quanto mai peculiare, poiché disvela un’eccessiva ridondanza normativa (21).

Dopo aver enucleato la definizione legale di terzo settore, il legislatore sancisce l’esclusione esplicita di una serie di enti, peraltro già assodata anche nelle previgenti legislazioni premiali: «non fanno parte del Terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche».

Tali conclusioni valgono anche per le fondazioni bancarie, seppure nei loro confronti l’approccio del legislatore è stato più morbido (22): difatti, soltanto dopo aver riconosciuto che esse «concorrono al perseguimento delle finalità della presente legge», si è esclusa l’applicazione delle disposizioni ivi contenute (23).

(19) Per CONSORTI P.–GORI L.–ROSSI E., Diritto del terzo settore, cit., p. 68, la menzione «si

presenta con un aspetto quasi tumorale, giacché richiama inequivocabilmente le attività di impresa di cui all’art. 2082 del codice civile. Un innesto necessario per giustificare l’inserimento delle imprese sociali fra gli Ets, che tuttavia dimostra ancora una volta la debolezza concettuale dell’impianto complessivo, espressione – non ci si può stancare di ripeterlo – della perdita di centralità dello scopo di solidarietà sociale, rimasto soffocato fra le finalità civiche e l’utilità sociale».

(20) Motivo per cui si ritiene che l’espressione dovrà essere saldata con il divieto di lucro soggettivo. Tali concetti verranno ripresi ed analizzati anche nel corso dei successivi capitoli.

(21) Già sul punto CONSORTI P. –GORI L.–ROSSI E., Diritto del terzo settore, cit., p. 67. È chiaro, difatti, come tutte le definizioni debbano contenere una realtà ideale, essendo poi deputate altre norme a stabilire sanzioni in caso di fuoriuscite patologiche dal sistema delineato.

(22) Retro, Cap. I, par. 4.2.6.

(23) Questa tecnica legislativa muove dal presupposto di evitare possibili equivoci nella riconduzione, o meno, di determinate figure afferenti al non profit, all’interno della nuova normativa del terzo settore. Difatti, perPONZANELLI G., Terzo Settore: la legge delega di riforma, in La Nuova Giur.

Comm., 2017, 5, p. 727, in tal modo «si esclude, ad esempio, espressamente, proprio per risolvere con la massima certezza ex ante i problemi interpretativi che inevitabilmente conseguirebbero, che possano essere considerati enti del Terzo Settore i partiti politici, i sindacati, gli organismi di rappresentanza

Sotto questo punto di vista, dalla Legge delega non emerge con chiarezza se vi possa essere una correlazione biunivoca fra terzo settore ed ETS. Detto in altri termini, se la somma di tutti i soggetti che in base alla riforma potranno divenire enti di terzo settore, equivarrà al terzo settore inteso quale nozione giuridica oggettiva.

Ad ogni modo, su tale quesito, che solo a prima lettura può apparire banale, si avrà modo di tornare in seguito (24).

Altra questione, che invece può essere fin d’ora risolta, riguarda la distinzione, alla luce dei principi della Legge delega, fra «terzo settore» e mondo «non profit». Ebbene, se fino a quel momento i termini venivano utilizzati come sinonimi, sul piano tecnico si assistite oggi ad un radicale cambio d’impostazione, poiché le due espressioni non coincidono più (25).

Difatti, i più stringenti requisiti che compongono la definizione legale del terzo settore portano ad affermare che esso debba essere considerato come una frazione del più ampio mondo degli enti collettivi senza scopo di lucro (26). O meglio, nell’ottica che emerge dalla Legge delega, il terzo settore si erge dall’orizzonte ideale del non profit.

L’intento complessivo della riforma, come sopra sinteticamente richiamato, avrebbe dovuto attuarsi attraverso l’emanazione di plurimi decreti legislativi, fondati sul (arg. ex art. 2, Legge 106/2016):

a) valore costituzionale del diritto di associazione secondo lo schema dell’autonomia privata (27);

professionali e categoriali, come anche le fondazioni bancarie (per le quali è stato recentemente raggiunto il noto accordo di autoregolamentazione MEF– ACRI)».

(24) La tematica verrà ripresa ed affrontata infra, Cap. III, par. 3.

(25) Fra i primi commentatori a far emergere tale aspetto PONZANELLI G., Terzo Settore: la legge

delega di riforma, cit., p. 728, per il quale in base al modello fatto proprio nella Legge delega si è «reso possibile la coesistenza di due discipline: quella delle associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato (così come regolamentate dal codice civile), e quella di associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato che saranno considerati Enti del Terzo settore a tutti gli effetti, qualora essi presentino la caratterizzazione teleologica e agiscano nei settori di attività».

(26) Chiaro, a tal proposito, GORI L, Il sistema delle fonti, cit. p. 17: «l’idea che ha sorretto il

legislatore delegante consisteva in una sorta di intervento a cerchi concentrici: dapprima ridefinire lo statuto civilistico di diritto comune, riferibile a tutti gli enti collettivi costituiti in base al Libro I c.c. e, successivamente, dettare criteri identificativi ed una disciplina ad hoc per quelli che, possedendone le caratteristiche, avessero inteso assumere la qualifica di ente del Terzo settore».

(27) Testualmente i principi sono ricavabili dal combinato disposto delle lett. a e c dell’art. 2, Legge 106/2016, per le quali andavano garantiti i seguenti principi: «riconoscere, favorire e garantire il

più ampio esercizio del diritto di associazione e il valore delle formazioni sociali liberamente costituite, ove si svolge la personalità dei singoli, quale strumento di promozione e di attuazione dei princìpi di partecipazione democratica, solidarietà, sussidiarietà e pluralismo, ai sensi degli articoli 2, 3, 18 e 118 della Costituzione», nonché «assicurare, nel rispetto delle norme vigenti, l’autonomia statutaria degli enti, al fine di consentire il pieno conseguimento delle loro finalità e la tutela degli interessi coinvolti».

b) valore dell’iniziativa economica privata come strumento per elevare i livelli di tutela dei diritti civili e sociali (28);

c) principio di semplificazione normativa, garantendo coerenza, logica e sistematicità (29).