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La frammentazione normativa come limite per uno sviluppo organico del terzo

L’analisi finora tracciata consente di evidenziare la criticità di un dato strutturale: il settore non profit, sebbene fosse cresciuto a ritmi esponenziali nel corso della sopra menzionata stagione normativa, risultava ancora privo di caratteri uniformi, tali da permetterne una collocazione chiara all’interno del sistema giuridico italiano.

La critica generalmente mossa dagli esperti del settore era, fra le altre, quella di aver rinunciato a formulare una nuova disciplina organica del libro I, titolo II, del codice civile in tema di enti collettivi, la quale si presentava assai scarna ed inattuale (194).

(191) Altra distinzione specifica per gli enti ecclesiastici è l’espressa deroga all’obbligo di devolvere il patrimonio residuo, in caso di scioglimento, ad altri enti aventi scopo latu sensu altruistico (art. 13, co. 3, D.lgs. 155/2006). Sul punto TENCATI A., Questioni e possibili sviluppi delle imprese

altruistiche, Vicalvi, 2015, p. 145. Infine, era stata prevista all’art. 7 la deroga all’obbligo di

accompagnare alla denominazione dell’ente la locuzione «impresa sociale». Scelta, questa, che secondo BOVA A.–ROSATI D., Il terzo settore e l'impresa sociale. Sostegni e sfide per il welfare state?, Roma, 2009, p. 50, andava «imputata all’impossibilità di operare in tali organizzazioni una stretta distinzione

tra l’ente ecclesiastico o religioso e il ramo di attività che viene qualificato impresa sociale».

(192) La riforma è stata definita un vero e proprio «fallimento» da GIORGI M. V., Terzo settore.

Verso la riforma, in Studium Iuris, 2016, 12, p. 1447.

(193) Sul tema GIOVANARDI A., L’impresa sociale, tra prevalenza dell’attività economico-

imprenditoriale ed applicabilità del regime di enti non commerciali ed Onlus, in Impresa Sociale, 2006,

3, p. 168.

(194) AA.VV., L’inquadramento giuridico dell’associazionismo di promozione sociale

all’interno del terzo settore, a cura di ISFOR, Brescia, 2010, p. 27, evidenzia in particolare che la

Difatti, i rappresentanti degli enti non profit, perlopiù costituiti nelle forme giuridiche dell’associazione (riconosciuta o non riconosciuta) e della fondazione, si trovavano molto spesso a doversi districare fra i – vaghi – principi generali, il groviglio delle discipline speciali, ed i frequenti vuoti normativi (195).

In definitiva, l’aver affrontato, in modo parziale e frammentario, il prolifico sviluppo degli enti di terzo settore in Italia, ha impedito la realizzazione di una visione organica e di più ampio respiro (196).

Motivo per cui, agli inizi del secondo decennio del XXI secolo, vi erano in Italia una miriade di enti appartenenti alla dimensione non profit (197). In tal senso, può rendere l’idea l’approfondito studio condotto dagli accademici Salomon ed Anheier, i quali, dopo aver suddiviso i possibili attori di questo universo in 11 gruppi, hanno enucleato ben 144 tipologie differenti di enti non profit (198).

Orbene, per tali enti troppo spesso il legislatore aveva rinunciato a dettare un’organica disciplina civilistica, preferendo, piuttosto, fornire talune indicazioni specifiche per poi dedicarsi all’enucleazione del peculiare regime fiscale.

«aveva indicato come prioritaria la riforma degli enti collettivi del libro primo ed, in particolare, aveva

suggerito le seguenti proposte: a) trasformazione delle modalità di attribuzione della personalità giuridica; b) abrogazione dell’art. 17 del codice civile; c) spostamento delle funzioni di controllo dall’autorità amministrativa agli organi giurisdizionali». Stesso approccio ha avuto in seguito la distinta

Commissione presieduta da Luigi Rovelli ed istituita durante la XIII legislatura dal Ministro della giustizia, il quale, nel conferire mandato per la revisione del diritto commerciale, aveva esplicitamente segnalato «l’esigenza di regolamentare, anche in relazione all’attività di impresa, la realtà del cosiddetto

Terzo settore, rivedendo la normativa generale sulle associazioni e sulle fondazioni».

(195) Emblematicamente, per SALAMON L. M. – ANHEIER H. K., The emerging sector: an

overview, New York, 1994, p. 81, «ambiguity is the term that probably best captures the position on the nonprofit sector in Italy».

(196) Descrivono una vera e propria proliferazione MACCARTHY K.D.–HODGKINSON V.A.– SUMARIWALLA R. D., The nonprofit sector in the global community, cit., p. 97: «in Italy, where the NPOs

were proliferating, there was interest in third serving as an alternative or substitute for government, not just as a supplement».

(197) Sotto questo punto di vista, l’analisi effettuata nel testo ha voluto ripercorrere soltanto le più importanti tipologie di enti in relazione all’oggetto del presente elaborato (ONG, ODV, cooperative sociali, ASD, enti con regime fiscale ONLUS, ex IPAB, APS, fondazioni bancarie, IPAS, imprese sociali). Ad ogni modo, si possono annoverare entro l’ambito non profit anche le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni dei datori di lavoro, le società di mutuo soccorso, gli enti di protezione civile, i fondi di previdenza integrativa e complementare, le fondazioni liriche, le bande musicali, e così via. Per una sintesi della storia evolutiva del terzo settore all’interno del contesto normativo e culturale italiano V. SANTUARI A., Le organizzazioni non profit, cit., spec. pp. 5-20.

(198) SALAMON L.M.–ANHEIER H.K., The emerging sector: an overview, cit., pp. 166-121. I gruppi enucleati sono 11 e riguardano: cultura e tempo libero; educazione e ricerca; salute; servizi sociali; ambiente; sviluppo economico e sociale, abitazione; diritto advocacy e politica; intermediari filantropici e promozione del volontariato; attività internazionali; religione; associazioni imprenditoriali e professionali, sindacati. Ogni gruppo viene poi suddiviso in una o più macro-aree, che a loro volta contengono le singole tipologie di organizzazione, in base alla specifica attività esercitata. Il dato è anche riportato, in chiave critica, da MORO G., Contro il non profit, Bari, 2014.

Parallelamente, dunque, dal punto di vista tributario veniva delineato un sistema impositivo nel complesso molto variegato, posto che vi potevano essere (199):

a) soggetti iscritti all’anagrafe ONLUS, i quali, se in possesso di tutti i requisiti richiesti, avrebbero beneficiato del relativo regime fiscale;

b) soggetti tipici (ONG, ODV e cooperative sociali), per i quali la scelta di divenire destinatari di quella determinata disciplina avrebbe comportato l’applicazione di diritto del regime fiscale ONLUS, salve eventuali norme specifiche di maggior favore;

c) ASD iscritte presso i relativi registri del CONI, con conseguente applicazione dei parametri previsti dalla Legge 398/1991;

d) APS, che per taluni aspetti fiscali godevano di una specifica disciplina, mentre in via residuale avrebbero dovuto applicare un sistema di tassazione ordinaria, fatta salva la possibilità di ottenere l’iscrizione all’anagrafe ONLUS e godere della relativa disciplina;

e) imprese sociali, inserite nel settore non profit eppure soggette alla tassazione prevista per le attività economiche, salva l’ipotesi di iscrizione al registro ONLUS, con conseguente accesso al relativo regime fiscale;

f) enti religiosi che, avendo costituito appositi rami per accedere alla disciplina ONLUS ovvero a quella dell’impresa sociale, risultavano destinatari della relativa disciplina, ma solo limitatamente alle attività regolamentate;

g) fondazioni bancarie, soggette ad una specifica disciplina;

h) IPAS, destinatarie di un regime fiscale in parte specifico, ed in parte ricavato a partire da quello previsto per le associazioni sindacali (200);

i) altri soggetti – non iscritti all’anagrafe ONLUS – che, in quanto enti senza scopo di lucro ed avendo esercitato l’opzione, potevano comunque beneficiare del regime speciale previsto dalla Legge 398/1991;

l) residuali enti senza scopo di lucro soggetti al regime di tassazione ordinaria prevista dal TUIR in materia di enti non commerciali (201).

(199) Per un’esemplificazione della normativa fiscale allora vigente si rimanda al documento elaborato da AGENZIA DELLE ENTRATE, Inquadramento civilistico, contabile e fiscale degli Enti Non

Commerciali, in www.emiliaromagna.agenziaentrate.it, 15 dicembre 2011.

(200) Art. 18, Legge 152/2001.

(201) Ciò poteva discendere da una scelta dell’ente, come nel caso di determinate associazioni senza scopo di lucro, oppure poteva essere la conseguenza automatica derivante dalla mancata iscrizione ad uno dei registri all’epoca disciplinati per legge. L’ipotesi era quella della fondazione riconosciuta di diritto civile, la quale, per espressa previsione di legge, non poteva applicare il regime di tassazione agevolato previsto dalla Legge 391/1991.

Orbene, l’esemplificazione sopra riportata mostra appieno quella che veniva percepita come la necessità di «prevedere per tali enti una sistematica normativa di riferimento, e non il rinvio a norme frammentate e a disposizioni particolari» (202).

Difatti, seppure dal complesso quadro di riferimento erano stati ricavati determinati elementi essenziali in comune fra gli enti operanti nel terzo settore, fra cui la natura privatistica, l’assenza dello scopo di lucro (perlomeno quello soggettivo) e lo svolgimento di attività socialmente rilevanti (203), la dispersione normativa costituiva il maggiore ostacolo al loro ulteriore sviluppo.