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III. Il mondo delle drag queen: famiglia, lavoro, mimes

1. I luoghi e i personaggi 1 I local

1.2 Lo spazio della performance

1.3.1 Fellatia Addams; ovvero la Felly

La prima volta che vidi Fellatia era un pomeriggio di metà febbraio. Arrivato al luogo dell’incontro, vidi “la Felly” (così si presentò al telefono) che placida usciva da un negozio. In borghese, era un uomo alto circa 1,75 m – ma anche

en travesti: scoprii che non metteva tacchi – di corporatura robusta, la testa

rotonda e rasata e occhi marroni e grandi. Nel complesso, aveva un aspetto or- dinario. Portava un giaccone con zip senza colletto che teneva aperto su una maglia di pile marrone. Ci salutammo e ci dirigemmo con calma alla sua mac- china. Il traffico era lento e per un tratto cortissimo di strada, impiegammo quasi 10 minuti e molti improperi da parte della Felly. Io ero un po’ intimorito dalla sua guida e non parlavo molto, ma lui non si faceva problemi e parlava a ruota libera dei suoi genitori, che si erano trasferiti nella campagna pavese e del suo lavoro; di quanto fosse difficile sfondare nel cinema e del fatto che “agli amici non si devono chiedere mai favori. Morale della storia: devi fare da solo.”

Aveva una chiara, spassionata visione delle cose: “In Italia, se non dai il culo non vai da nessuna parte”. Poi aggiunse laconico che non gli era mai ca- pitato ma se glielo avessero proposto, avrebbe anche accettato. Lasciammo la macchina in un parcheggio davanti al Gioia 69, il locale dove la Felly lavorava il giovedì sera, e scendemmo a prendere la metro. A Lanza, entrammo in un negozio di maschere e travestimenti dove, tra signore della Milano bene che cercavano mantello e maschera neri per una festa a tema Eyes Wide Shut e ra- gazzine che si provavano parrucche, Fellatia acquistò un elmo da vichinga con le corna, e poi pure uno scudo e un’ascia bipenne. Fellatia parlava sempre ad

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alta voce. Non capivo se cercava attenzione o era deformazione professionale. Una cosa era sicura: non provava nessun imbarazzo a parlare della sua profes- sione notturna. Anzi, era orgogliosa del proprio livello di professionalità e pre- parazione. Mi espose la sua visione del fare drag: è un fenomeno prettamente teatrale e che affonda le sue radici nel teatro greco, passando per il teatro eli- sabettiano, fino ad arrivare al teatro vittoriano del vaudeville, con le sue dames en

travesti, senza dimenticare i femminielli nostrani. La conoscenza di quella che lei

chiamò “la storia del travestitismo” doveva essere parte integrante del pedigree di ogni drag queen. Se non si comprendono le origini del proprio lavoro non si può essere una professionista. Mi disse che una drag queen era prima di tutto un personaggio e che come tale andava trattato: doveva essere dotato di un carattere e un look originale e riconoscibile.

Fellatia Addams, il suo personaggio, nacque “per scherzo”7 e con un altro nome, Madame Pompadour, cestinato perché già in uso da altre drag queen. Nacque una sera che un suo amico voleva mettersi in drag per andare in un lo- cale sperando di trovare un ingaggio, ma non se la sentiva di farlo da solo e ave- va convinto Fellatia e un altro amico ad unirsi. La serata si era evoluta in modo tale che l’amico non aveva ottenuto il lavoro sperato, mentre Fellatia e l’altro amico, sì. L’ispirazione principale del suo personaggio era Divine, di cui, anche in borghese, condivideva il gusto per il grottesco, un forte cinismo e un humour assolutamente nero, oltre ad una fisicità importante. Ne condivideva anche le aspirazioni cinematografiche, pur essendo conscia della desolata fine di car- riera di Divine, e anzi mi citò il suo decesso dovuto all’obesità. Stava scrivendo una sceneggiatura per un film, una commedia dalla trama surreale che avrebbe voluto cominciare a girare in primavera. Il suo ruolo sarebbe stato quello della madre della protagonista, un po’ come Divine in Hairspray. Le caratteristiche peculiari di Fellatia erano la forte presenza scenica, parrucche cotonate azzurre o biondo platino e lunghi abiti che mettevano più o meno in mostra la zona del petto e le immancabili ballerine ai piedi.

Durante il periodo della mia ricerca, Fellatia aveva due lavori. Di giorno,

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È un attimo. Relazionalità, performance e politica tra le drag queen di Milano

lavorava part-time come casellante all’imbocco della Milano-Genova. Di sera lavorava come drag queen e si divideva principalmente tra due serate: il giovedì sera accoglieva gli avventori della serata Why Not all’entrata del Gioia 69, men- tre la domenica sera era una delle resident8 del Borgo dei Sensi durante la serata

Join the Gap. Oltre a queste due serate, faceva qualche ospitata estemporanea tra

Milano e Pavia, dove viveva. Pur facendo parte di più di un cast o staff (quello del Gioia 69 e quello del Borgo) lavorava sostanzialmente da sola, andava in cer- ca di ingaggi nei locali e trattava con i gestori o proprietari da sé, e non faceva parte di nessuna famiglia o “casato”. Non aveva avuto nessuna “madrina” né aveva sotto la sua ala alcuna “novizia”.9

Potrei descrivere Fellatia come una drag queen “classica”. O meglio, tra i miei interlocutori, è quella che più si avvicina all’immaginario dominante della drag queen: un uomo che, in veste di performer, si mette in abiti femmini- li, calca parrucca, calza tacchi alti e si trucca in modo vistoso spesso cercando

di imitare un personaggio famoso,10 per fare animazione nei locali; che lavora

generalmente di notte e la cui performance distintiva sono brani eseguiti in playback, scegliendo da un repertorio per lo più italiano di interpreti di mu- sica leggera o pop come Mina, Raffaella Carrà, Patty Pravo, Lorella Cuccarini, Heather Parisi (tutte riconosciute come cosiddette “icone gay”) ma anche in lingua inglese (Liza Minnelli e Barbra Streisand, Cher e Madonna, ad esempio, sul versante classico; più recentemente, anche Lady Gaga e Katy Perry) o fran- cese (Dalida).