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II. Drag queen, berdache, humour e festa

2. Un secondo inizio

Una parte della mia riflessione (e, in parte, il mio campo) prese inizio dal Carnevale. Più precisamente, dalla descrizione che Sanga (1982) ne fa quale epitome della festa, in questo assimilabile al Capodanno, la “grande festa” di Lanternari: un’occasione di sospensione squisitamente temporanea delle attività lavorative che dà spazio a banchetti, danze e divertimento sfrenato. Un momento nel quale ribellione e costrizione, caos e ordine, riso ed angoscia convivono in una miscela ambivalente (pp. 5-6). I caratteri fondamentali rac- colti dall’autore sono il mascheramento, gli eccessi, il rovesciamento, la lotta manichea di entità opposte, il corteo degli stati della società e l’espulsione, infine, del carnevale. Che un collegamento sussista tra travestimento, festa e drag queen mi sembra di facile intuizione. Basterebbe riprendere la defini-

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zione bachtiniana di “grottesco” (Bachtin, 1979, in Sanga, 1982) per cogliere meglio quale sia questa relazione:

Nel realismo grottesco l’abbassamento […] consiste […] nell’avvicinamento alla terra, come principio che assorbe e nello stesso tempo dà la vita; abbassando si seppelli- sce e nello stesso tempo si semina, si muore per nascere in seguito meglio e di più. L’abbassamento significa anche iniziazione alla vita della parte inferiore del corpo, quella del ventre e degli organi genitali e, di conseguenza, iniziazione ad atti come l’accoppiamento, il concepimento, la gravidanza, il parto, il mangiare voracemente e il soddisfare le necessità corporali. L’abbassamento scava la tomba corporea per una nuova nascita. E questo il motivo per cui esso non ha soltanto un valore distruttivo, negativo, ma anche positivo, di rigenerazione: è ambivalente, nega e afferma nello stesso tempo. […] Una delle tendenze principali dell’immagine grottesca del corpo consiste nel mostrare due corpi in uno solo: uno che dà la vita e che muore, l’altro che è concepito e messo al mondo. È sempre un corpo in stato di gravidanza e di parto, o almeno pronto a concepire e ad essere fecondato, con un fallo e organi sessuali mes- si in evidenza. E da un corpo viene fuori sempre, in una forma o in un’altra, l’altro corpo, il corpo nuovo.

Le drag queen sono famose per la loro vicinanza al “basso”: non hanno paura di parlare di sesso, di genitali propri ma soprattutto altrui e di cibo, in special modo le drag queen più in carne. Il corpo della drag queen, ancora, è sempre duplice: è uomo e donna insieme, e la drag queen ora sottolinea uno ora l’altro, in base al contesto in cui si trova e all’effetto che vuole fare sul pubblico. Ma in tutto ciò, il corpo della drag queen è un “corpo nuovo”: non un corpo a sé, ma un corpo che dalla mescolanza di morte e rinascita, di uomo e donna, crea qualco- sa di nuovo. Il corpo della drag queen è un corpo in trasformazione, così come lo è quello dei cacciatori di alci Yukaghir della penisola di Kolima, in Russia, descritti da Willerslev (2007), il quale si concentra sul loro “ambiguo” metodo di caccia. Questi cacciatori si inoltravano nella foresta ammantati di pelli d’alci e ne imitavano le movenze per attirarli a sé:

Remember Old Spiridon mimicking the elk? He was a “strange” elk indeed, with a human face, two legs, and a gun. His imitation is in no way a perfect doubling, and the differences between the two are quite striking – in some ways more striking than their likeness. Why is the hunter ambiguous, at once similar to and manifestly different from the animal he is imitating? I shall argue that it is because what we are

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dealing with in the seemingly identical mirror world of Yukaghirs are not “full iden- tifications” but “partial ones” (Pedersen, 2001). It is my means of their difference from the world impersonated that they can hold power over it. Without difference, the imitator and the imitated would collapse into each other, would become one, making any exercise of power impossible. (corsivi del testo)

La “mimesi”, o capacità mimetica, è lo strumento proposto dall’autore per de- scrivere la capacità a un tempo di rappresentare ciò che viene costruito come l’Altro e di esercitare un potere su di esso. Questo concetto è ripreso e rielabora- to da Taussig (1992), per il quale la facoltà mimetica è “la natura che la cultura usa per creare una seconda natura, la facoltà di creare dei modelli, esplorare la differenza, cedere e diventare l’altro” (p. XIII). Non solo: l’autore, riprendendo Frazer, mostra come attraverso l’azione combinata di un certo grado di somi- glianza (quella che Willerslev chiama la “identificazione parziale”, e che Mauss chiamava “ideogramma male eseguito”) e di connessione materiale (contatto) tra il sé e l’Altro, si può creare una “copia magica” che riesce ad acquisire il po- tere di ciò che copia (pp. 17, 52-53, 56). E che quando una copia oltrepassa certi limiti ed espone la costruzione stessa, quando si ha un “eccesso mimetico”, si mette in scena la “parodia”, con la conseguenza di creare una “coscienza ri- flessiva circa la facoltà mimetica” come capacità di “vivere in un modo diverso con la coscienza che l’artificio è naturale, non di meno di quanto la natura è storicizzata” (p. 255). Quando la mimesi, tuttavia, giunge al punto di fondere e confondere l’imitatore con l’imitato, si ha una “partecipazione totale”, una “metamorfosi”, dalla quale non c’è ritorno. È questo, per fare un esempio, quel- lo che sembra succedere al protagonista di The Gaijin (2008), il film di Chris Chri- stodoulou, un ragazzo americano che nei weekend lavora come “finto prete” per i matrimoni in stile occidentale in Giappone. Affermare la propria perso- na marcando in modo netto una distanza dal proprio personaggio attraverso l’adozione di uno stile di vita tale da non rendersi credibile come prete (con- sumo di alcol e droghe, profanazione di luoghi sacri) e la volontaria adesione, ad esempio, al divieto di leggere la Bibbia durante le cerimonie limitandosi al copione fornitogli, si istituiscono quali segni di una ricerca di una via di fuga da una situazione di tensione tra le due sfere simile a un gioco di specchi. Il gio-

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vane aspira ad essere considerato come un essere umano (人間, “ningen”, let- teralmente una persona tra le altre) ma si ritrova a svolgere lavori per i quali è richiesto interpretare proprio il ruolo stereotipico dello straniero (外人, “gaijin”, una persona estranea), ovvero l’insegnante di inglese e il finto prete, una figura nata dalla riproposizione in chiave locale della tradizione euro-americana del matrimonio in chiesa. Come aggiunge Willerslev (op. cit., p. 12)

It is the “copiedness” of mimesis, its lack of realism, so to speak, that secures the strikingly necessary difference because it forces the imitator to turn back on him- self […] preventing himself from achieving unity with the object imitated[…] People must constantly steer a difficult course between analogy and identity and tread a fine line between transcending difference and maintaining identity: they can do transform themselves into various others, both humans and nonhuman, but must avoid total participation and confusion.

Il corpo nuovo e ambivalente delle drag queen, che fa propria la diversità del femminile, ad esempio, e ne assorbe alcuni tratti, è inedito ma, come giusta- mente avverte Muñoz (1997, p. 101) nell’analizzare il “terroristic drag” del per- former in drag Vagina Davis, non per questo l’uso che ne è fatto durante le per- formance può essere a priori definito come una “form of social protest” (Taylor e Rupp, 2005):

“Queerness” e “blackness” devono essere letti come discorsi ideologici che conten- gono impulsi contraddittori al loro interno – alcuni di essi sono liberatori, altri re- azionari. Questi discorsi richiedono anche un’ermeneutica che valuti le correnti di montaggio spezzato differenziale e intersezionale con i copioni ideologici indivi- duali. (trad. mia)

Anche Rachamimov (2006, p. 364) porta alla luce questo doppio filone interpre- tativo nell’analisi del drag, “«the safety valve» argument” da una parte, contro un approccio non conformista e di rottura. Stone (2009, p. 336), invece, sottoli- nea come questa ambivalenza sia vissuta anche nel rapporto tra le drag queen e il resto della comunità gay statunitense: se da una parte le drag queen sono assunte al ruolo di ambasciatrici e paladine della lotta della comunità – si dice sia stata proprio una drag queen a iniziare le rivolte di Stonewall, nel 1969 –

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dall’altra sono relegate a vivere ai margini della stessa. In definitiva, che sia per mantenere o ribaltare i preconcetti di chi vi assista, la performance in drag è comunque “both terrifying and seductive, precisely because s/he incarnates and emblematizes […] a crisis of ‘category’ itself” (Garber, 1997, p. 41).