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III. Il mondo delle drag queen: famiglia, lavoro, mimes

5. Mimesi e lavoro

5.1 Che cos’è una drag queen?

Raccogliendo le interviste, notai che i miei interlocutori usavano determinati termini per descrivere sé e costruivano un doppio, un Altro, dandogli un altro termine. La distinzione più ricorrente tra tutti i miei interlocutori fu tra la drag queen/travestita e il trvestito/trans. Per travestito intendo, approssimativamen- te, un uomo biologico che riconoscendosi nel genere femminile veste gli abiti che una donna biologica che si riconosce come di genere femminile vestirebbe e desidera che anche tutti gli altri lo riconoscano come tale. Nel gergo dei queer

studies e dell’attivismo LGBTQI si definirebbe donna transgender. Con trans inten-

do una donna transessuale, cioè un uomo originariamente biologico che, non riconoscendosi né nel genere maschile né nel corpo che si ritrova, decide di sottoporsi a un percorso di transizione che prevede operazioni di chirurgia pla- stica per aderire, oltre che al genere, anche al sesso a cui sente di appartenere. Anche in questo caso, la donna transessuale desidera essere riconosciuta come donna in senso biologico dagli altri.

Ho associato la categoria travestito e trans non perché ritenga che siano più o meno la stessa cosa (e la spiegazione qui sopra ne è una riprova), ma per- ché nel confronto con la categoria drag queen/travestita, balza all’occhio che un elemento in particolare le unisce: la non temporaneità del cambiamento. Un

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travestito e una trans aderiscono al genere e al sesso che socialmente non gli è attribuito sempre, nel loro quotidiano. Non c’è un andare e tornare:

Sei transessuale di giorno e poi diventi donna o diventi uomo. Travestitismo è... una rappresentazione, nel senso che, appunto, ti puoi travestire... Rovyna si può travesti- re una sera da... androgina, una sera può essere la femme fatale, ma non è nessuna di queste. La transessuale è se stessa, nel senso che è, come si immagina e come si vede, quello che vuole essere. (Intervista a Rovyna Riot, p. 301)

Nel caso della drag queen/travestita, il cambiamento di sesso non è previsto e quello di genere (o la commistione dei generi) è temporaneo, e ha pure delle condizioni ben precise. La drag queen esiste nello spazio di luoghi pubblici di aggregazione sociale quali bar e discoteche – quindi al chiuso, e nel contesto dell’intrattenimento – ed il suo tempo è la notte. Più volte durante il mio cam- po, mi è stato detto: “La travestita e il sole non vanno d’accordo”. C’è di più: la travestita non va d’accordo nemmeno con la pioggia, come mi disse LaZelma:

C’è sempre in ballo di fare un pomeriggio da travestite in centro e prima o poi ci riu- sciremo, compatibilmente cogli impegni di tutti. E col tempo, perché magari smet- tesse di piovere! La travestita e la pioggia non vanno molto d’accordo. (Intervista a LaZelma, p. 32)

Nonostante la separazione sia postulata come sempre operante, pratica- mente tutti i miei interlocutori che facevano performance in drag mi rac- contarono di momenti di sovrapposizione o “interazione”, ovvero quando la persona e il personaggio, di solito distinti, tendevano ad accavallarsi. Me ne parlò Fellatia:

Il personaggio è il personaggio, io sono io. Ora, è vero che può capitare di mescolare le due-, i due ambiti, è normale. Può capitare di fare il discorso serio in versione bat- taglia come può capitarmi di fare il cretino da uomo. (Intervista a Fellatia Addams, p. 254)

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È un attimo. Relazionalità, performance e politica tra le drag queen di Milano

Io per me così, nel senso che... sì, persona e personaggio – poi c’è sempre un po’ di en- trambi, no? Però io come persona non sono così... sono molto più timido di Rovyna, e sono molto più, cioè... mi imbarazzo molto più facilmente di Rovyna, sono molto meno aggressivo di Rovyna. È ovvio che i miei amici ti diranno, se dico qualcosa: “Ecco, questa è proprio da Rovyna”, perché è ovvio che mi scappa. Allo stesso modo quando sono Rovyna ho una sensibilità che mi porto dietro dalla persona che sono, quindi non è che, c’è un’interazione. (Intervista a Rovyna Riot, p. 307)

E anche LaZelma mi riportò la sua opinione a riguardo:

Non che da travestita sono maleducata, semplicemente me ne frego un po’ di più e metto l’etichetta dove è giusto che stia. Nelle mutande e dietro. […] e invece da uomo, la metto un attimino più in altro, tipo il colletto della camicia, quindi cerco di essere un po’ meno. Ecco poi la cosa divertente è che i due, i due lati caratteriali collima- no quando sono arrabbiato. Quando sono arrabbiato divento la Zelma, comunque, anche senza la parrucca, anche senza trucco. Cioè acida rognosa, assolutamente ag- gressi-, arrogante a caso, anche. A sproloquio. (Intervista a LaZelma, p. 8)

Nancy, durante la sua intervista, mi mostrò come crearsi un personaggio possa avere un impatto sulla persona nel momento in cui non capita che una parte venga alla luce senza il controllo dell’altra, ma che una scelga attivamente le quella modalità non usuale perché in essa vede una risorsa strategica per au- mentare le proprie possibilità di successo:

Tu ti comporti in questo modo con me, adesso. Vado a truccarmi, cambierai. Mi strucco […] e tornerai a essere come prima. E sei la stessa persona. Lo ero anch’io prima. Ma la maschera fa veramente tanto. E questo passaggio di cose, ti rafforza. […] Che ne so, dico la cazzata: c’è uno, un figo che ti piace, non hai mai il coraggio di dirglielo. Vai lì con la spavalderia di una drag, questo ride anche, magari ci sta an- che. Però al di là del messaggio, magari ci ride anche. La volta dopo, capisci qual è la chiave di volta, o magari come dire certe cose. Come comportarti in certe situazioni. (Intervista a Nancy Posh, p. 358).

Per tornare al “pomeriggio da travestite”, il fatto stesso che fosse “in ballo” non indica che sia una pratica comune. Al contrario, andarsene in giro di giorno diventa la sfida massima della travestita/personaggio, poiché osa uscire dallo spazio-tempo attribuitole, cioè la notte dei locali, per entrare nello spazio-tem- po del mondo “reale” della persona, cioè il giorno e il “centro”, inteso come il

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luogo di aggregazione in senso borghese per eccellenza. La travestita, dunque, è posizionata in un non-tempo e in un non-luogo al di fuori della vita quoti- diana, per come viene percepita dal resto della società. Restare in quella posi- zione, però, non è solo una questione di oppressione sociale. La travestita non è banalmente ghettizzata in senso passivo, ma in una certa misura si ghettizza da sola. Uno dei motivi, a mio parere, di questa auto-ghettizzazione sta nel carattere temporaneo della travestita: anche la travestita ha un suo alter-ego “in borghese”, che vive una sua quotidianità, ha un lavoro, una casa, magari un compagno o un animale.

Come ho già mostrato, esiste una quotidianità, uno spazio-tempo del personaggio della drag queen, e questo è lo spazio-tempo delle serate, con i preparativi e gli scherzi e le performance. Il performer in drag vive non solo una vita ma due vite intrecciate, e decide quali tempi e quali spazi dedicare a una e quali all’altra. Una vita è quella della persona, ovvero quella che è vissuta prima dell’inizio della seconda, quella del personaggio.

La persona occupa uno spazio preciso che non spetta al personaggio e vi- ceversa. Non ci sono zone grigie perché l’uno viene posto in opposizione all’al- tro per costruire un’immagine del sé. Da quello che ho potuto notare durante il mio campo, questa coppia si è rivelata comportarsi come una coppia di termi- ni relazionali: per un performer in drag, persona si costruisce nel rapporto con

personaggio, ma uno senza l’altro non esisterebbe. Persona e personaggio sono

parte di un unico calderone, il sé, e dentro ad esso convivono. Ma, come disse Rovyna “non siamo fatti a compartimenti stagni”.

Sostenere che la persona e il personaggio sono due entità perfetta- mente e ontologicamente separate, e che per studiare un performer pos- sa bastare studiare solo una parte tralasciando l’altra va contro ai dati che ho qui sopra esposto. Piccola parentesi aggiuntiva: è vero che le parole non sono mezzi neutri, che provare qualcosa presentando solo parole in qualità di prove non porta lontano, e che di pericolose paraetimologie è piena la storia delle scienze umane – ma bisogna pur ammettere che non è possibi- le non notare come le parole persona e personaggio siano strettamente impa- rentate per via di un processo di derivazione. E che ciò sarà forse una spia

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della direzione da prendere riguardo al tema. Perché le parole non mentono nemmeno.

5.2 Il senso di una drag queen

Un’altra serie di dati da me raccolti mi ha portato a mettere in discussione l’i- dea di una separazione netta e definita tra persona e personaggio, a favore di una visione non esclusiva che contempli il dialogo continuo tra le parti. Potrei arrivare a dire che addirittura questo dialogo non è solo un accidente, ma spes- so è uno degli elementi fondanti del fare-performance in drag.

Durante le interviste, ho fatto la seguente domanda ai miei interlocutori: “Come definiresti ciò che fai?”. Quello di cui andavo in cerca io era una risposta molto concisa, delle definizioni spicce, o anche solo dei termini. Quello che ho raccolto, invece, sono delle vere e proprie dissertazioni sul senso di essere di una drag queen. Perché una persona decide di fare la drag queen.

Questa fu la discussione che ebbi con Erik (e LoZelmo) a proposito:

Marcello: Come definiresti quello che fai, quando diventi la Fosca? Zelmo: Batte!

Erik: Ahah! […] Mah, la Fosca batte ben poco, nel senso che, voglio dire: ‘na vecchia rincoglionita. Quindi, boh. Come definirei quello che faccio? Bah, è una bella do- manda.

Z: Schifo!

E: Ahahah! […] Mah, Non lo so, vabbè, è quella sorta di intrattenimento […] lo scopo è quello di far divertire la gente. È un po’... come, che ne so?, il personaggio... personag- gio che, non so, va a Zelig, uno bene o male, sa le caratteristiche di quel personaggio, però alla fine, sì, è come se fosse un personaggio comico che fa la sua apparizione e lo scopo è quello di far ridere, cioè. Quella è, cioè, l’autoironia sempre e comunque. Sotto quel punto di vista, lì, sì. Cioè, la Fosca è questo. Un personaggio totalmente ironico. Non si prende sul serio. Anche se a volte si vede molto seriosa eccetera, ma quello è a causa di quello che-, del mio carattere vero, cioè. Nel senso: sono una per- sona […] iper-timida. E... però mi rendo conto che quando faccio quel personaggio è un po’ violentarmi [farmi violenza] e la cosa mi piace, perché, nel senso: riesco ma- gari a fare cose che se fossi io nei miei panni non farei. Invece quel personaggio mi legittima a poter fare la mattata. E quindi tutte le volte che c’è, è fondamentalmente una performance. (intervista a Erik Deep, pp. 9-10)

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Quello che mi disse Lady Violet riguardo a quale senso per lei aveva il suo fa- re-perfomance certo risentiva del suo background più teatrale ma si rivelò mol- to interessante:

Non ci ho mai pensato più di tanto, a dir la verità. Diciamo che è un modo per-, pro- babilmente, per vivere una mia parte che esiste e che però non... non trova altri-, o comunque non... non vivo nella mia vita normale, nella vita quotidiana. Come vabbè, vale per tanti che fanno gli attori, è una modalità di esplicare certe componenti che uno ha e che non sempre trovano altri canali nella propria quotidianità. E... be’, di- ciamo che poi è un modo per lavorare su-, sulle emozioni proprie, su... sulle modalità espressive di certe emozioni che vengono veicolate dal personaggio, dalla musica, da tutto quello che compone insomma quella-, quella figura e che... e che poi sono cose che mi appartengono, alla fine. Quindi è una modalità di...è un tramite per esprimere... ciò che comunque da qualche parte ho e che si esplica in quella forma-, in una forma che mi è consona per tanti aspetti e che quindi mi risulta efficace. Poi definirla in altri modi non saprei, anche perché non è che una cosa su cui ho mai più di tanto... riflettuto, no? Perché comunque rimane un... un divertimento che faccio, le volte che lo faccio, quel paio di volte al mese, metti, no? Ma non è che poi diventa un-, una componente quotidiana o una componente più forte della mia vita, per cui magari ci rifletterei sopra ulteriormente. In sostanza, è un gioco. Un gioco luccican- te, un gioco di... […] Di lustrini e di musica e di... così, di espressione di una natura, di una parte di me altrimenti sotterranea. (Intervista a Lady Violet, p. 17)

Il termine che usò Mirco per descrivere il suo fare-performance, aveva ben poco a che fare con il suo personaggio e basta:

Mirco: Un’espressione giocosa, nel senso che ti ritrovi a, come ti dicevo prima, e anche tirare fuori determinati o comportamenti – cioè, […] non è rimanere trop- po chiuso dentro a quell’esp??? -, a magari a quelle regole, a quei comportamenti, a quelle credenze, eh?, che crediamo di essere. […] E... e semplicemente invece, proprio stamattina lo dicevo a un’amica, è anche una specie di, sorta di... recitazione o co- munque è sempre un tirare fuori altri aspetti che magari rimangono più latenti se tu ti […] ti metti una maglietta...

Marcello: È un’esplorazione..?

Mi: Esplorazione è un po’... è più una sperimentazione. […] è uno scoprire, un gioco... sì. Ok. Forse è anche un’esplorazione, perché no? A livello di... di-, sto verificando come dirtelo, aspetta che ti dico. È un modo per, a parte scoprirsi, è anche distaccarsi troppo da quello che si crede di essere […]. E quindi automaticamente, lo fai anche come? Creandoti una situazione che non sei solito comunque affrontare perché non è che tutti i giorni giro con i tacchi, con gli abiti... E vedere […] come ti comporti. Poi