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FORMALE vs INFORMALE: DALL’APPROCCIO DUALISTICO

A QUELLO DIALOGICO

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L’approccio dualistico

Il concetto di informalità è stato utilizzato con caratteristiche diverse durante lo sviluppo delle ricerche sulle società urbane e sulle economie da esse determi-nate. La modificazione nel rapporto con la dimensione spontanea dello sviluppo ha reso tale terminologia di difficile inquadramento e definizione. Il termine è dall’inizio degli anni ‘70 utilizzato prettamente in ambito economico-lavorativo1

e per diversi decenni la “questione informale” è principalmente una questione di capitale finanziario e di diritti legati alla sfera economica. I diversi studi (ILO, 1972; Hart, 1973) sono, infatti, indirizzati ad indagare quale fosse il rapporto tra dimensione formale e informale nelle economie locali dei paesi in via di svilup-po e quali effetti questa avesse determinato nello svilupsvilup-po delle società umane da queste sostenute. A partire, dunque, dalla prima definizione di “informale”2

l’ambito di indagine privilegiato ha riguardato prevalentemente contesti propri

del Global South. Questi rapporti e gli studi ad essi contemporanei e conseguenti

hanno dunque individuato come la non-formalità attribuita ad un contesto, sia esso sociale, economico o urbano, presuppone in ogni caso un confronto con la corrispettiva componente formale.

Da questo contesto nasce uno degli approcci che maggiormente ha condi-zionato i successivi studi sviluppati e che ancora oggi è presente all’interno del dibattito disciplinare sulla città con il suo carattere dicotomico: l’approccio dualistico (Singer, 1970; Bromley e Gerry, 1979). Dallo studio della produzione letteraria scientifica che a partire dagli anni ’603 ha descritto la società urbana e la sua evolu-zione nello spazio urbano, infatti, si possono enucleare diversi periodi o momenti scientificamente rilevanti per il rapporto con l’informalità. Pur in una suddivisio-ne non suddivisio-netta e in cui le teorie spesso si sovrappongono in pratiche e concetti, l’impronta dicotomica impostata dall’approccio dualistico ha determinato una chiara modalità di considerazione della suddivisione tra formale e informale.

Questo iniziale approccio descrive l’informalità come una realtà ai margini della più strutturata componente economica formale. La concezione della di-mensione spontanea la individua approssimandola come la somma delle pratiche lavorative ed economiche marginali rispetto al mercato principale, attività che sostengono insiemi di popolazione che si posiziona, di conseguenza al margine della società consolidata. Un contesto rappresentato da una “facilità d’entrata” (ILO, 1972) reso possibile unicamente dal non completo sviluppo del settore for-male, che successivamente ingloberà anche quella componente. Si tratta quindi di un contesto limitato se ne si considera la dimensione e non la distribuzione assoluta, in quanto riguarda principalmente singoli artigiani, imprese familiari, venditori ambulanti (Nafziger, 2006) e tutte le altre attività economiche che de-finiscono non un’economia informale, quanto un settore informale (Moser, 1979;

1 I primi rapporti a citare esplicitamente la definizione di “economia informale”, riguardanti due casi studio in Ghana e in Kenya, sono stati stilati dalle Nazioni Unite e in particolare dall’ILO (International Labour Organization) i cui temi principali sono legati ai Diritti umani e sociali, in particolare legati al lavoro.

2 Termine utilizzato dall’antropologo Keith Hart durante una conferenza nel 1971.

3 Oltre ai testi di seguito riportati, ci si riferisce in particolare all’evoluzione disciplinare in meri-to ai temi della pianificazione e dello sviluppo partecipati trattati nel capimeri-tolo precedente.

Peattie, 1980).

Nella limitatezza concettuale delineata dall’approccio dualistico, che conside-rava la dimensione formale e quella informale come due contesti ben distinti e non interconnessi, oltre che quasi esclusivamente parte della dimensione econo-mica dello sviluppo, simili presupposti hanno comportato lo sviluppo di ricerche legate necessariamente ad una visione parziale del fenomeno. La definizione di un approccio così fortemente dualistico ha, infatti, condizionato in maniera ri-levante numerose tra le teorie e le metodologie successivamente sviluppate (Sin-ger, 1970; Moser, 1979; Bromley e Gerry 1979; Peattie, 1980), racchiudendo il discorso disciplinare sull’informalità su binari rigidi e che difficilmente riescono a cogliere la complessità del fenomeno.

L’approccio legalista

A partire dall’approccio dualistico, relativo agli studi sull’informalità urbana (che dagli anni ’70 approfondisce quasi esclusivamente un punto di vista econo-mico), il contatto con questa dimensione sociale e lavorativa subisce una impor-tante ridefinizione grazie al lavoro di Hernando De Soto4 e alla proposizione di una concezione potenzialmente dirompente: l’approccio legalista.

La corrente che può ascriversi alle teorie di De Soto è individuabile come un approccio positivista in cui si riconosce come “eroica” l’intraprendenza di quanti vivono e lavorano all’interno del settore informale producendo nuovi modelli imprenditoriali in risposta alle condizioni difficili cui il contesto li sottopone: «I poveri non sono il problema ma la soluzione. (…) Ciò che manca ai poveri è un sistema di proprietà legalmente integrato che possa convertire il loro lavoro e i loro risparmi in capitale.» (De Soto, 2000: 246-247). Nella descrizione del poten-ziale inespresso racchiuso nella dimensione informale delle città dei paesi in via di sviluppo l’economista si spinge a scrivere di «(…) triliardi di dollari, tutti pronti all’uso se solo potessimo sbrogliare il mistero di come i beni si trasformano in capitale.» (De Soto, 2000: 301).

La descrizione individuata dall’economista peruviano come prospettiva per il settore informale si trova in diretto contrasto con altre ricerche sviluppate negli anni immediatamente seguenti e che descrivono come il settore informale, generi lavori «(…) non per l’elaborazione di nuove suddivisioni del lavoro, ma attraver-so la frammentazione dei lavori esistenti e frazionamenti del guadagno.» (Davis, 2006: 181). In questi termini, dunque, la visione di De Soto sembra apparire su-perficialmente scollata dalla realtà oggettiva del settore informale e dalla sua con-dizione, ambito che nelle sue teorizzazioni viene affrontato in maniera imprecisa e poco definita (Portes e Schauffler, 1993).

La dimensione economica, descritta da De Soto, pone poi in maniera rile-vante la questione della proprietà della terra, sostenendo come «(…) una volta che i beni del settore informale saranno formalmente e legalmente riconosciuti, la prosperità capitalistica scorrerà entro ogni angolo del mondo.» (Roy, 2005: 148). Indubbiamente la questione della proprietà della terrà è un tema che ri-mane trasversalmente rilevante e attuale nel discorso sopra l’informalità urbana (Krueckemberg, 1995), ma la visione proposta da De Soto pare presentare alcune

4 Economista e teorico peruviano che sviluppa la sua tesi a partire dal testo The Other Path

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fragilità. In particolare si fa riferimento alla valutazione che una legalizzazione dei diritti e una formalizzazione del settore abitativo informale porterebbe indub-biamente a un ulteriore livello di controllo statale sulla proprietà degli abitanti (Davis, 2006). Il rischio è rappresentato, inoltre, dalla considerazione di come tali provvedimenti siano rivolti più alla mitigazione della critica sociale e per minare la solidarietà tra i residenti dei quartieri informali, piuttosto che per un fondato sentimento di miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti. In riferimen-to a quesriferimen-to vedasi il caso di Città del Messico, rilevariferimen-to dal geografo Peter Ward (1998) in cui si evidenzia come gli abitanti degli slum, non coinvolti nei program-mi governativi «(…) sono probabilmente più radicali e disposti alle dimostrazioni antigovernative di quelli che sono stati, in effetti, comprati dal governo attraverso politiche abitative successive». La frammentazione del territorio informale, tra legalizzato e non, corre il rischio di comportare, inoltre, una suddivisione dei residenti tra beneficiari e non beneficiari del diritto sulla terra con le conseguenze già documentate, tra gli altri, nel caso di San Paolo5 (Taschner, 1995).

L’approccio strutturista/dialogico

Parallelamente alle teorie sviluppate da De Soto (1989, 2000) e a partire dal lavoro portato avanti da Castells e Portes (1989), dalla fine degli anni ‘80 si de-finisce un diverso orientamento rispetto alla questione dell’informalità urbana: l’approccio strutturista.

È questo probabilmente l’orientamento che più si distanzia da quanto ini-zialmente definito dall’approccio dualista e in seguito variato da quello legalista: entrambe le teorie, infatti, consideravano la dimensione informale come separata e/o parallela alla componente formale. Nel caso dell’approccio strutturista, di-versamente, la realtà spontanea e alternativa viene considerata come una parte integrante del sistema urbano, economico e sociale che ricomprende anche la cit-tà consolidata. La rilevanza dell’approfondimento di queste teorie risiede dunque nell’individuazione e nella definizione del rilevante numero di relazioni che inter-corrono tra la sfera informale e quella formale. Attraverso lo studio empirico dei fenomeni urbani interessati da questi processi, più che avvalendosi di statistiche e dati ufficiali, gli strutturisti chiariscono la flessibilità del fenomeno, la sua adat-tabilità e la sua non esclusività per quanto riguarda un’identificazione geografica con il sud del mondo. La comprensione di come le due realtà non siano scindibili, ma abbiano un legame profondo, aiuta a comprendere la complessità del feno-meno informale all’interno del processo evolutivo della città contemporanea. A questo si aggiunge la rilevante novità nel non considerare unicamente i paesi in via di sviluppo come scenari possibili per la nascita e sviluppo si simili fenomeni, molto più diffusi capillarmente anche in altri contesti.

Questo approccio è quello che più si avvicina alla concezione attuale della questione informale, come “prodotta” dall’apparato formale stesso (Roy, 2005) e dalla sua componente normativa. La realtà così rappresentata descrive dunque un sistema strettamente interconnesso da un fitto sistema di relazioni che non sono

5 Nel 1989 il Partito dei Lavoratori (PT) inizia la legalizzazione della città dei poveri: il risultato è la creazione di un ulteriore livello di povertà. I nuovi proprietari delle case popolari che avevano sostituito le baracche affittano le singole stanze a chi è ancora più povero di loro. Si viene dunque a creare uno slum all’interno della favela (Taschner, 1995).

definite da un confine netto, quanto da un territorio grigio, di transizione, su cui dette relazioni si strutturano: «Si tratta di spazi che si costituiscono in termini di discontinuità (…). Nella loro definizione come aree di confine, piuttosto che come semplici linee di divisione, le discontinuità offrono un terreno con ampie possibilità di azione.» (Sassen, 2005: 83).

La dimensione contemporanea del dibattito disciplinare in merito all’infor-malità urbana si sviluppa, dunque, anche a partire da una nuova considerazione del legame che intercorre tra la sfera informale e quella formale. La definizione delle borderlands di cui scrive Saskia Sassen (1994, 2001, 2005, 2006), queste terre di confine in cui si struttura il rapporto continuo tra una dimensione e l’altra, ha contribuito ad abbandonare il retaggio del vecchio rapporto dicotomico per sviluppare un approccio dialogico alla questione informale.

Una necessaria ridefinizione dell’approccio disciplinare al tema è quanto mai necessaria alla luce della rilevanza globale del fenomeno informale e della sua diffusione in processi e pratiche sviluppate quali alternativa ai tradizionali sistemi di mercato e governo del territorio. La dinamicità del fenomeno ben si presta alla variabilità di situazioni che lo sviluppo urbano contemporaneo, nella sua inar-restabile crescita e incrementata velocità, pone per la società che abita le città a tutte le latitudini.

L’approccio dialogico appare quindi un ottimo punto di partenza per descri-vere le possibilità insite in un’analisi approfondita del fenomeno. Abbandonare i preconcetti del passato, che consideravano le due realtà della città come sepa-rate e inconciliabili, aiuta a porsi in maniera più costruttiva anche rispetto alle pratiche che questi territori di confine esprimono. Il recente rinnovato interesse disciplinare, teorico e pratico, per l’informalità in tutte le sue forme ne dimostra l’assoluta attualità anche oltre i rischi di una passeggera moda. L’impegno delle ricerche in questo senso dovrebbe utilizzare quanto già analizzato e decodificato nel percorso qui brevemente illustrato per proiettare il dibattito sul futuro del-la città contemporanea a partire proprio daldel-la sua componente imprescindibile, quella fluida e informale, sia sociale che urbana.

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Alla luce dell’evoluzione disciplinare descritta nel precedente paragrafo, ri-spetto alle pratiche socio-spaziali spontanee nella città, è emerso come la defini-zione di ‘informalità’ abbia per molto tempo individuato unicamente un carattere economico all’interno delle dinamiche della città e della sua società. L’aspetto di sviluppo spaziale del fenomeno informale trova, infatti, un posto marginale nelle teorizzazioni esposte (Singer, 1970; Peattie, 1980; De Soto, 1989, 2000), nono-stante la sua rilevanza nei processi di sviluppo urbano. L’odierna diffusione del fenomeno a livello globale e il suo rientro nel dibattito disciplinare ne dimostra sia l’attualità che l’importanza. Le pratiche alternative di modifica e riappropria-zione della città sono, infatti, spesso centrali nel confronto in merito a nuove modalità di approccio al progetto urbano in contesti fragili e marginali, in quanto la dimensione sociale degli abitanti, che la caratterizza, ricopre un ruolo primario in tali fenomeni (Harvey, 2008, 2012). La volontà del presente capitolo è dunque quella di riportare la questione sul tema delle urbanità alternative sviluppate negli interventi delle organizzazioni non governative, inquadrandone anche a livello teorico la dimensione urbana e di impatto spaziale sul territorio sociale della città.

In un rapporto (2009) UN-habitat rileva come circa 1 miliardo di persone viva in insediamenti informali: il 32% della popolazione urbana mondiale, al momen-to della rilevazione, è coinvolta in processi e fenomeni alternativi di approccio al disegno della città e al suo sviluppo. La prospettiva attraverso cui si guarda all’in-formalità non riguarda unicamente la forma della città, ma anche la sua organiz-zazione culturale, sociale ed economica (Hernández e Kellett, 2010), trattandosi di fenomeni che si sviluppano oltre gli ambiti pianificati, regolati e al di fuori dei processi formali (Roy, 2005). È dunque questo un fenomeno rilevantissimo e che deve essere preso in considerazione nel momento in cui si affronta il tema della città contemporanea sia da un punto di vista teorico che di pratiche.

Negli anni ’60, in contrapposizione all’approccio razionalista dei CIAM, è il gruppo del Team X a ricorrere all’immagine dell’informalità e dello “spontaneo” come esemplificativo di un ordine alternativo a quello codificato «(…) l’esigenza di cambiare modalità emerge con forza. Nel 1959 il sovversivo Team X dichiara al CIAM XI di Otterlo la fine del moderno come sviluppo meccanicistico indu-striale e focalizzato sul concetto di uomo standard, opponendosi all’architettura

IL “TERzO SPAzIO” COME DIMENSIONE