codificata dai CIAM tra le due guerre. Ribellandosi alla civiltà occidentale che non è stata in grado di trarre dalla meccanizzazione e dal progresso quella felicità di cui sarebbe dovuta essere dispensatrice, per rinnovare e riscattare l’Occidente e rispondere alle istanze di comfort e di comunità, il Team X produce ricerche su civiltà primitive e su esempi di architettura informale (…)» (Rossi, 2017: 133). Tale ricerca disciplinare si condensa nello studio e nell’analisi dei processi che gli spazi altri esprimono ritenendoli efficaci nel descrivere la realtà di dimensioni al-ternative nello sviluppo urbano. In risposta alla definizione razionalista di una co-difica dello spazio di vita e relazione che non può sfuggire alla regolamentazione normativa e matematica della misurazione e configurazione dello spazio (Abalos, 2009), la dimensione spontanea rappresenta una ribellione alla macchina per abitare (Le Corbusier, 1923) «Gli interstizi e gli spazi informali della città esistente sono, in quest’ottica, vere aree di impunità in cui prendono vita le più intense forme di socializzazione.» (Abalos, 2009: 83).
In questo contesto si articolano, tra gli altri1, i lavori di sull’aggregazione abita-tiva declinata da Smithson nel Cluster (1957) e nel Mat Building (1959) e la ricerca condotta da Aldo van Eyck che durante il suo intervento al CIAM espone l’im-magine di un villaggio informale posto al confine tra Stati Uniti e Messico. Il suo rilevante lavoro sulle dinamiche socio-spaziali nei villaggi Dogon nello stato del Mali (1960) risulterà poi fondamentale per la descrizione di uno spazio condivi-so di comunità, che si struttura a seguito di un’esigenza collettiva e si trasporta spazialmente sul territorio. Il “prolungamento dell’alloggio” e la concezione della “soglia” come connessione fisica e concettuale tra spazio privato e spazio pub-blico sono un apporto significativo all’immaginario di nuovi strumenti di costru-zione urbana sulla base delle relazioni sociali e informali «Ciò che è importante in questo tipo di habitat è la dimensione sociale, l’economia dei mezzi, la maniera di trascendere i materiali e soprattutto la matrice dello spazio.» (Klein, 2006: 213).
L’esperienza sviluppata da van Eyck e dagli altri studiosi è inoltre rilevante per l’introduzione di un concetto che ben rappresenta la dimensione
stratifica-1 Altre esperienze connesse sono il Nid D’Abeille (Candilis, 1954) del gruppo ATBAT di Candilis,
Woods e Bodianski e il Terraced Crescent Housing (1956) di Peter e Alison Smithson.
I “Cerchi di Otterlo” presentati da Aldo van Eyck durante il CIAM XI e rappresentanti i tre caratteri del progetto architettonico e urbano in rapporto con la realtà umana, un processo in continua trasformazione.
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ta e complessa della realtà spontanea degli interventi e degli spazi informali in un confronto disciplinare «I sistemi dovrebbero impratichirsi l’uno dell’altro, il loro impatto combinato e la loro interazione dovrebbe potersi apprezzare come un unico sistema complesso – polifonale, multi ritmico, caleidoscopico, eppure comprensibile in ogni luogo e in ogni momento. Una singola configurazione omogenea composta da molti sottosistemi, tutti occupanti la medesima area ge-nerale e dotati di uguale validità, ma ciascuno con una sua grana, una propria sca-la di movimento e distinte potenzialità associative. I sistemi dovrebbero evolversi l’uno dall’altro, far parte l’uno dell’altro. Il significato specifico di ciascun sistema deve reggere il significato dell’altro. Le qualità strutturali devono contenere quali-tà texturali, e viceversa – in termini di esperienza- luogo contigui, struttura e tex-ture devono risultare ambivalenti. Solo così si potrà evitare la qualità amorfa della texture. In altre parole questo è l’unico modo per stabilire il mutuo significato di piccolo e grande, molto e poco, parte e tutto, unità e diversità, semplicità e com-plessità, garantendo una giusta misura.» (van Eyck, 2009: 96)2. Gli spazi definiti da van Eyck sono dunque dei fatti urbani densi, complessi e socialmente rilevanti (van Eyck, 2009), che ben si prestano ad una rappresentazione degli interventi attivati dai soggetti terzi. La relazione tra strutture sociali e spazio costruito si trasferirà poi anche nel grande progetto “interstiziale e flessibile” dei Playgrounds per Amsterdam (1947-1978) che van Eyck stava già definendo (Strauven, 2007), così efficace nel descrivere nuove possibili relazioni tra la dimensione sociale e spaziale nella città. Un approccio collettivo al progetto definito principalmente attraverso una collaborazione con i fruitori3.
In merito all’approccio disciplinare e istituzionale con la dimensione sponta-nea dello sviluppo spaziale, come si è descritto nel precedente capitolo, la defini-zione del lessico dell’informale è di difficile codifica. Si tratta di un fenomeno
di-2 Aldo van Eyck, “Passi verso una disciplina configurativa”, contenuto in M. Biraghi e G. Da-miani (a cura di), Le parole dell’architettura. Un’antologia di testi e critici: 1945-2000, Torino, 2009.
3 Un’esperienza di ricerca successiva, volta alla conferma delle teorie espresse da van Eyck, è rappresentata dal progetto per un sistema di spazi aperti in alcuni sobborghi di Rotterdam. Lo strumento di progetto delineato dalla ricerca è definito dalle sue tre caratteristiche: Policentrico, Interstiziale, Partecipativo, il P.I.P. Model (Lefaivre e Döll, 2007).
Plaza Dijkstraat ad Amsterdam, prima e dopo il progetto di Aldo van Eyck per i Playgrounds della città (1954).
namico e negli anni non affrontato in maniera univoca con il risultato che queste differenziazioni negli approcci (dualistico - legalista - strutturista/dialogico) han-no portato a fraintendimenti e difficoltà nel comprendere, governare ed affronta-re la questione, anche e soprattutto da un punto di vista spaziale. Un esempio, tra gli altri, si ritrova nel caso di Rio de Janeiro, così approfonditamente analizzato da Janice Perlman (2010). Nel contesto descritto i piani di sviluppo abitativo e più in generale l’interesse da parte dell’amministrazione pubblica rispetto alle favelas non si sono articolati a partire dalla situazione di difficoltà e indigenza in cui gli abitanti vivevano da quasi tre generazioni, ma a seguito della progressione di violenza contestualizzata in quei territori. Si assiste, dunque, ad una gestione emergenziale del problema e non ad una prospettiva coerente di lungo termine.
La difficoltà nell’interpretare la questione degli slum non può che aumentare la distanza fisica e culturale con la popolazione lì residente, in rapida crescita4, con le conseguenti problematiche legate alla riproduzione continua di disuguaglianze sociale ed economiche in simili contesti (Harvey, 2003). Se inizialmente ci si rife-riva ad una suddivisione dualistica tra poveri nelle baracche e ricchi nelle abitazioni consolidate per descrivere il fenomeno (Singer, 1970; Moser, 1979; Bromley e Gerry, 1979; Peattie, 1980), nell’attualità questa stigmatizzazione non può essere sufficiente in quanto non comprensiva di tutte le variabili che quei contesti pos-sono esprimere.
L’ingrandimento esponenziale che continua a caratterizzare le metropoli del pianeta determina un fenomeno diverso dall’iniziale periodo di migrazioni verso le città. Alla relativa rilevanza delle realtà urbane nel sistema di integrazione socia-le della popolazione (Saunders, 2010) si contrappone una dinamica in cui «(…) la popolazione locale non deve più migrare verso la città: è la città a migrare verso di loro.» (Guldin, 2001: 9) con un conseguente stravolgimento non solo dell’eco-sistema urbano ma anche dell’ambiente vasto in cui questi processi si strutturano. Questo nuovo tessuto periurbano e urbano, liminare e interstiziale è quindi il tea-tro della nascita di nuove forme di riappropriazione della città, nuove dimensioni creative di costruzione di uno spazio condiviso e partecipato.
Sono quindi queste nuove borderlands (Sassen, 2005) che testimoniano lo svi-luppo non solo di nuove pratiche, ma anche dei nuovi attori che questi processi attivano. In questi “nuovi” territori si riscontra il fermento dinamico più rilevante nei processi di accrescimento urbano e il contesto da osservare con maggiore attenzione per il futuro.
I soggetti che in quei contesti si stanno “accreditando” sempre con maggiore rilevanza come gli attivatori di nuovi processi di produzione di città sono dunque l’insieme vasto delle organizzazioni non governative: ONG. In questo senso è indicativo riprendere un report sviluppato dalla Banca Mondiale nel 19955 in cui si descrive come sin dalla metà degli anni ’70 del novecento l’apporto delle ONG nell’ambito dello sviluppo delle comunità sia drasticamente in crescita. In un precedente report della stessa Banca Mondiale (Cernea, 1988) intitolato NGO and local development si anticipa come «Anni recenti hanno testimoniato l’esplosivo emergere delle organizzazioni non governative (ONG) come i maggiori attori collettivi in attività di sviluppo.» (Cernea, 1988: iii). Questa premessa è utile al fine
4 Si stima che la popolazione urbana del Global South cresca ad un ritmo 5-10 volte superiore rispetto a quanto rilevabile nelle città del global north (LSE Cities, 2012).
5 M. Carmen, Working with NGOs : a practical guide to operational collaboration between the World Bank and nongovernmental organizations (1995).
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di inquadrare un fenomeno non nuovo e in evoluzione costante da diverse decine di anni, con modalità d’azione e caratteristiche diversificate (Nelson e Dorsey, 2003, Ahmed e Hopper, 2014).
La cittadinanza attiva nelle pratiche delle ONG
Alla luce del contesto di crescita urbana globale e della rilevanza dell’analisi di questi ambiti di confine, questi “spazi grigi” (Sassen, 2005), occorre immaginare quale possa essere la dimensione teorica e fisica in cui le associazioni operano e attivano i nuovi processi creatori di “urbanità alternative”. In considerazione dell’impegno profuso da questi soggetti altri nel gestire le vertenze della popola-zione residente sullo sfondo del diritto alla città appare utile ricercare la dimensio-ne teorica del loro spazio di aziodimensio-ne a partire dalle teorie già citate del sociologo e filosofo francese Henri Lefebvre, così attuali nel panorama disciplinare contem-poraneo.
Nonostante il rinnovato interesse che le opere di Lefebvre stanno riscontran-do in anni recenti (Gorgens e Van Donk, 2011) e la conseguente larga diffusione dei temi sollevati, è utile inquadrare una delle questioni maggiormente rilevanti e attinenti alla ricerca svolta: la cittadinanza attiva. Gli interventi attivati e promossi dalla ONG indagata nel caso studio di Posadas hanno, infatti, come questione rilevante il tema della partecipazione degli abitanti non solo come beneficiari dei progetti di sviluppo urbano, ma come cittadini attivi all’interno della propria comunità di quartiere. Il lavoro svolto dall’organizzazione come stimolo per tale senso di comunità e appartenenza è stato importante tanto quanto gli interventi strutturali di modifica urbana: la creazione di un movimento di cittadinanza attiva promuove oggi il ruolo del barrio nel contesto socio-spaziale della città stessa.
In merito a questa tematica è rilevante sottolineare come una delle questioni centrali nel pensiero sulla città di Lefebvre sia relativo alla declinazione della cit-tadinanza e delle sua diverse dimensioni: una citcit-tadinanza umana, attiva e a matrice spaziale (Purcell, 2003) «I concetti di Lefebvre pongono una sfida radicale non solo all’attuale ordine della cittadinanza, ma anche alle relazioni sociali capita-listiche e il loro sempre maggiore controllo sulla vita sociale.» (Purcell, 2003: 564-565)
Una prima questione da sottolineare è dunque relativa alla definizione e alle caratteristiche che la cittadinanza assume nei contesti oggetto della ricerca, quale quello del caso studio di Posadas. Si tratta indubbiamente di una cittadinanza umana. in cui l’obbiettivo sono le vertenze e i bisogni dei cittadini, ma è sulle altre due caratteristiche che si costruisce in maniera efficace la descrizione della cittadinanza rilevabile nei territori oggetto degli interventi dei soggetti terzi: è una cittadinanza attiva e inevitabilmente a matrice spaziale. Ecco dunque che l’effetto di un diritto facilmente identificabile come la cittadinanza viene da Lefebvre po-sto in tensione con una dimensione di ricaduta urbana di tale diritto. La matrice spaziale della cittadinanza è l’aspetto più rilevante nella considerazione degli spazi entro cui si articolano i processi e le pratiche operate dalle organizzazioni non governative, in quanto «Il diritto alla città non ha una prescrizione spaziale (…) ma ha certamente un effetto spaziale.»6 (Boniburini, 2016).
6 Intervento tenuto durante la conferenza internazionale Urban Age (LSE Cities) intitolata
Una seconda rilevante questione riscontrabile nelle teorie del sociologo fran-cese ed utile a individuare lo spazio di azione teorico per le ONG, è relativa alla natura dello spazio urbano stesso. In Lefebvre questo concetto si struttura attra-verso il rapporto tra opera (che si può far corrispondere al concetto di valore d’uso)
e prodotto (assimilabile al valore di scambio). L’opera è in questo caso intesa, quindi,
in quanto produzione collettiva di un elemento originale, irripetibile: «(…) la ca-pacità creativa è sempre riferita ad una comunità o collettività» (Lefebvre, 1976a: 128). Le diverse idee, strategie e pulsioni della collettività si esprimono, pur con le loro differenze, in un progetto unitario e definiscono, con questa azione, la na-scita di una dimensione urbana partecipata ed efficace espressione del percorso svolto. A questo concetto si contrappone la considerazione del prodotto, inteso come il risultato di un rapporto di interazioni non orizzontale ma gerarchico, tecnico e ripetibile: un’attività meccanica che produce simulacri sostituibili, ben diversi dall’unicità dell’opera collettiva.
La città di Lefebvre è dunque un contenitore di diversità, che viene da queste arricchita: «[lo spazio urbano] È una forma mentale e sociale, quella della simulta-neità, della riunione, della convergenza, dell’incontro (o piuttosto, degli incontri). È una qualità che nasce da quantità (spazi, oggetti, prodotti). È una differenza, o piuttosto un insieme di differenze» (Lefebvre, 1970: 101). Da qui il naturale collegamento al tema centrale del diritto alla Città inteso come diritto alla parte-cipazione a questo insieme di differenze e più in generale a far parte dell’organismo città: «La differenza è incompatibile con la segregazione, che le fa da caricatura. Chi dice differenze, dice rapporti, dunque prossimità-rapporti percepiti e concepi-ti, dunque inserzione di un ordine spazio temporale duplice: prossimo e lontano. La separazione e la segregazione rompono il rapporto» (Lefebvre, 1973: 149). L’esclusione e la marginalizzazione sono, quindi, tanto più gravi se li si considera come azioni di esclusione dalla dimensione urbana dei diritti, oltre che degli spa-zi: «(…) Escludere dall’urbano i gruppi, le classi, gli individui, equivale a escluderli dal processo di civilizzazione, se non dalla società.» (Lefebvre, 1976b: 30).
Il raggiungimento del Diritto alla Città individuato dal sociologo francese, il diritto a partecipare alla vita e crescita dello spazio urbano e sociale della città, passa indissolubilmente attraverso la partecipazione e la diversificazione. Una città diversificata è di per se crogiolo di interazioni e partecipazioni allargate, distanziandosi dalla città segregata e uniformata, entro cui non può svilupparsi, non avendone fisicamente gli spazi, il diritto alla città.
La dimensione spaziale dell’azione delle ONG
Dopo aver sottolineato il legame presente tra Città e Diritti nel pensiero di Lefebvre è utile riportare l’attenzione sulla dimensione spaziale del diritto alla vita urbana e alla modifica della città (Harvey, 2008). È infatti questa una delle eredità più importanti delle teorie del sociologo francese, soprattutto per chi si occupa dello studio sulla Città a partire dalla sua dimensione architettonica e urbanistica. Come già riportato, si intende utilizzare lo “spazio di vita” individuato da Lefeb-vre come quadro teorico di riferimento per lo scenario di intervento per le ONG nei contesti descritti. Questa dimensione urbana proposta si delinea a partire dall’individuazione di una dialettica triplice dello spazio che suddivide, in Lefebvre, l’ambito della città in tre realtà contemporanee: spazi percepiti, spazi concepiti e
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spazi vissuti (Soja, 1996).
Questa fondamentale suddivisione aiuta a definire un’analisi dello spazio ur-bano applicabile a quanto affrontato nelle discipline urbanistiche. Il primo livello descritto sono gli spazi percepiti, la dimensione quotidiana della città, delle prati-che prati-che si strutturano sul territorio dando significato e forma agli spazi privati e collettivi. È questo lo spazio delle diverse forme sociali della città e della loro dimensione plastica, è il luogo delle pratiche spaziali che attraverso la vita degli abitanti producono e riproducono lo spazio stesso (Lefebvre, 1976a). Questa è dunque la dimensione della vita urbana e della percezione della città da parte di chi la frequenta attivamente, modificandone le caratteristiche spaziali con la sem-plice pratica del suo utilizzo.
I secondi, gli spazi concepiti, sono a tutti gli effetti quelli del Piano, del segno e della costruzione geometrica della città, sono gli spazi degli urbanisti e dei piani-ficatori. Rappresentano la dimensione progettata dello spazio urbano, spesso non aderente alla realtà attiva della città, ma in ogni caso legata ad un approccio molto preciso al territorio. Sono infatti questi gli spazi delle rappresentazioni spaziali che riproducono, in qualche modo, una visione dominante del territorio urbano. Gli spazi così definiti risultano, quindi «(…) legati ai rapporti di produzione, all’ordine che impongono e quindi alla conoscenza, ai segni, ai codici» (Lefebvre, 1976a: 54). A questa dimensione si può far risalire lo scenario di intervento delle isti-tuzioni, che agiscono in ambiti sia consolidati che informali con un’attenzione spesso superficiale rispetto al contesto sociale interessato.
L’ultima definizione fornita si riferisce agli spazi vissuti, quelli che più di tutti sono in grado di descrivere la variabilità insita nella crescita urbana. Sono gli spazi degli abitanti e degli utenti, uno spazio «(…) vissuto attraverso le immagini e i simboli che l’accompagnano. (…) È lo spazio dominato, dunque subìto, che l’immaginazione tenta di modificare e di occupare.» (Lefebvre, 1976a: 59). È que-sta la dimensione degli spazi della rappresentazione, vissuti attraverso le immagini e i simboli utilizzati quali strumenti di appropriazione di tale spazio della città. È questo indubbiamente il luogo privilegiato per tutti i fenomeni di sviluppo di
nuove urbanità, il luogo del fermento creativo, della modifica della città (Harvey, 2008) e della sua nuova creazione. Quest’ultimo contesto descritto racchiude gli elementi di entrambe le definizioni precedenti, è uno spazio disegnato, fisico, ma allo stesso tempo connesso alla dimensione viva e fluida della quotidianità dei suoi abitanti.
Quella appena descritta rappresenta la dimensione spaziale ripresa e analizza-ta successivamente dal geografo Edward W. Soja nel suo saggio Thirdspace (1996). In questo testo, tra gli altri, Soja riclassifica la suddivisione tripolare operata da Lefebvre in spazi percepiti, concepiti e vissuti dotando questa ripartizione di un ordine gerarchico ben preciso. Gli spazi percepiti diventano dunque il primo spa-zio, la dimensione quotidiana della percezione e della dimensione fisica della vita urbana all’interno della città; gli spazi concepiti, con il loro retaggio di norme e di segni, divengono invece il secondo spazio. La riflessione più attinente è però quella dedicata agli spazi vissuti, così definiti in quanto comprendenti sia l’esperienza umana all’interno dello spazio urbano sia la concezione pianificatoria di tale di-mensione: Soja definisce questo livello come il terzo spazio.
Il terzo spazio diviene dunque il luogo del vissuto, dell’esperienza vitale all’in-terno di una realtà mutevole e cangiante. È questa la dimensione in cui Soja mette in relazione le teorie espresse da Lefebvre e gli spazi altri definiti da Foucault come eterotopie. Lo spazio dinamico qui analizzato è descritto e inquadrato da Foucault nel suo saggio Des Espaces Autres (1984) in cui si ritrova una concezione eterogenea dello spazio reale, delineabile come il luogo delle relazioni: «(…) non viviamo in una sorta di vuoto, all’interno del quale si possono individuare indi-vidui e cose. (…) viviamo all’interno di un insieme di relazioni che definiscono le posizioni irriducibili tra loro e assolutamente non sovrapponibili.» (Foucault, 1984: 46-47). Le eterotopie rappresentano dunque delle utopie reali o realizzate, dei luoghi fisici in cui però la dimensione relazionale è prominente e diviene caratte-ristica fondamentale di tali spazi.
È questa dunque la dimensione in cui si attivano i nuovi processi di modifica delle città contemporanee, in quanto lo spazio concettuale (il progetto di piano) e lo spazio empirico (la realtà urbana) sono messi in tensione attraverso lo spazio sociale: il terzo spazio, «(…) uno spazio concreto e astratto allo stesso tempo,
l’habitus delle pratiche sociali (…)» (Soja, 1989: 18) e più in generale uno spazio
per la «(…) resistenza attiva e il dialogo critico.» (Soja e Hopper, 1993: 199). Proprio in questa dimensione di terzo spazio descritta da Lefebvre e Soja oltre che da Foucault si può individuare il luogo delle azioni e delle pratiche attivate e proposte dai soggetti altri. È sicuramente questo lo spazio teorico (e naturalmen-te anche fisico) entro cui si può includere la dimensione creativa del fenomeno legato alle “urbanità alternative” descritte nella ricerca. Un luogo che trova la giusta dimensione tra la componente geometricamente definita del territorio e la rete di esperienze e relazioni che quel territorio esprime. Questo in quanto la trasformazione etica della città passa necessariamente attraverso gli spazi della partecipazione. La città giusta (Fainstein, 2010; Ischia, 2012), dunque, si fonda su un sentimento collettivo di miglioramento spaziale, un percorso di crescita civile radicato a scala urbana con una rilevante ricaduta sullo spazio fisico dell’abitare cittadino. Un processo attivo e continuo che si pone come alternativa alle prati-che istituzionali di modifica della città e del territorio. La “nuova” organizzazione