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Questa soggettività non può essere evitata se si considera il tradizionale processo foto- grafico, ma una soluzione può essere trovata nell’evoluzione digitale di una tecnica tradi- zionalmente usata nell’ambito del rilievo architettonico e cartografico: la fotogrammetria analitica.

La fotogrammetria è una tecnica fotografica finalizzata alla creazione di un rilievo grafico che permette di acquisire dei dati metrici di un oggetto (forma e posizione) trami- te l’acquisizione e l’analisi di una coppia di fotogrammi stereometrici4.

L’evoluzione moderna della fotogrammetria analitica, la fotogrammetria 3D «structure

from motion», si slega dalla finalità della creazione di un disegno. È, infatti, una tecnica

nata nell’ambito della computer grafica per applicazioni nel cinema e nei videogiochi, che permette, sfruttando la base matematica della fotogrammetria analitica, di indivi- duare i punti omologhi tra coppie di fotogrammi di uno stesso oggetto e stabilire la loro posizione nello spazio tridimensionale costruendo una geometria epipolare ai cui vertici si trovano il punto reale sull’oggetto fotografato e due punti omologhi, proiezioni del punto reale su due differenti fotogrammi. L’insieme dei punti dell’oggetto reale (DSM), la cui posizione nello spazio è determinata dal procedimento appena descritto, forma una nuvo- la (pointcloud) che descrive la superficie dell’oggetto nelle tre dimensioni.

Dal momento che il DSM dell’oggetto è assimilabile all’oggetto reale in ogni suo punto, la versione digitale del Bene fotografato è perfettamente proporzionata ed è caratterizzata da una scala di rappresentazione uniforme. Di conseguenza, se viene imposto al modello un vincolo dimensionale rilevato direttamente sull’oggetto reale, tutta la superficie verrà scalata di conseguenza.

Oltre a varie applicazioni di fruizione o modifica virtuale del Bene, è possibile ot- tenere dal modello referenziato una ortoimmagine, ovvero un’immagine perfettamente ortogonale dell’oggetto fotografato. Per comprendere la differenza tra una comune im- magine fotografica e una ortoimmagine bisogna considerare il modo in cui queste sono generate. Una normale fotografia è creata a partire da un unico punto di vista, ovvero quello dell’osservatore che, posto dietro la fotocamera, individua al massimo un singolo punto perpendicolare ad esso. In una ortoimmagine, invece, tutti i punti della superficie dell’oggetto risulteranno perfettamente ortogonali all’osservatore che si trova, in questo caso, in un punto così lontano da rendere i suoi raggi di proiezione (raggi visivi) tra loro paralleli e ortogonali all’oggetto. In questo modo viene evitata ogni aberrazione provocata dalla convergenza dei raggi di proiezione verso un unico punto di fuga. L’ortoimmagine così ottenuta può essere importata in un programma di disegno vettoriale e utilizzata come base per un rilievo grafico. Da questo si potranno poi ottenere informazioni dimen- sionali per tutto l’oggetto, misurandone la distanza tra i punti.

Se si confronta il procedimento appena illustrato con l’elenco delle quattro scelte cri- tiche che devono guidare la realizzazione di una fotografia di un Bene Culturale, si può notare come la maggior parte di esse siano già soddisfatte o non più necessarie.

Dal momento che il modello tridimensionale è ruotabile ed è possibile ricavare una ortoimmagine da qualsiasi angolazione, la scelta dell’inquadratura diviene del tutto irrilevante. È importante sottolineare che la possibilità di ricavare un’immagine dal mo-

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MUSINT II

delloin un momento successivo all’acquisizione delle fotografie ribalta completamente il processo di studio critico del Bene: non è più necessario, infatti, scegliere a priori come e cosa fotografare, ma queste scelte possono essere compiute a posteriori. Questo risolve uno dei problemi comuni nello studio dei Beni Culturali: l’incompletezza della documen- tazione. Alcune esigenze di studio divengono palesi solo a posteriori rispetto alla rea- lizzazione della documentazione e spesso, soprattutto in ambito archeologico, quando il Bene non è più fotografabile, come nel caso di interventi distruttivi di restauro o di scavo.

La scelta dell’obiettivo o, per essere più precisi, della lunghezza focale, diviene anch’essa irrilevante, dal momento che è strettamente legata alla scelta dell’inquadratu- ra. Per sua stessa definizione, una ortoimmagine è svincolata, infatti, dalla prospettiva del punto di vista singolo che impone la scelta di una determinata lunghezza focale e, di conseguenza, di un determinato obiettivo fotografico.

Il tema della scelta dei riferimenti va trattato differenziando riferimenti metrici da riferimenti cromatici. La possibilità di ricavare misure attendibili dalle fotografie del Bene è il fine della fotogrammetria analitica e la presenza di un riferimento metrico per scalare il modello tridimensionale è essenziale. Se, tuttavia, è relativamente semplice riportare le misure dell’oggetto reale al modello quando questo è di dimensioni suffi- cienti (utilizzando, per esempio, misure topografiche), è meno intuitivo misurare oggetti di piccole dimensioni e senza punti notevoli precisi, come nel caso dei sigilli del Museo Archeologico di Firenze inseriti nel progetto MUSINT II, per i quali è stato necessario disegnare un reticolo di marker specifico (Fig. 1). Resta ferma l’importanza di inserire dei riferimenti cromatici nell’inquadratura durante l’acquisizione delle fotografie, che serviranno a generare il modello fotogrammetrico, in modo da garantire la verosimiglian- za cromatica della texture del modello.

L’aspetto della scelta dell’illuminiazione è di fondamentale importanza per ottenere una texture uniforme e con un’alta verosimiglianza cromatica, ma è in genere poco con- siderato durante le riprese fotogrammetriche, dal momento che questa tecnica è comune- mente applicata su oggetti di scala architettonica o monumentale dove l’illuminazione è vincolata alla posizione del Sole o, comunque, di difficile gestione. Comunemente, infat- ti, durante una ripresa fotogrammetrica, l’oggetto da fotografare e la fonte di luce vengono considerati fissi ed è l’operatore che si deve muovere attorno all’oggetto. In questo modo,

Fig. 1. Schema grafico dei riferimenti. Ogni mar- ker è descritto da coordinate note nello spazio tridimensionale ed è riconoscibile automatica- mente dal software

tuttavia, l’alternarsi di zone di luce e di ombra, imposto dalla posizione della fonte di luce al momento della ripresa, verrà registrato dalla fotocamera e riprodotto esattamente nella texture finale. Questo risultato, che non è di per sé un difetto della ripresa, è un limite all’applicazione del modello, dal momento che si potrà ruotare il modello e ricavare delle ortoimmagini dallo stesso, ma non si potrà modificare la posizione della fonte di luce per illuminare delle zone altrimenti in ombra e poco visibili, dal momento che queste om- bre sono parte integrante della texture stessa e non proiettate digitalmente dal modello stesso (Fig. 2). Per risolvere questo problema è necessario invertire il processo di ripresa e mantenere fissi il punto di osservazione rispetto all’oggetto e la posizione delle luci, mentre l’oggetto viene fatto ruotare su un asse. In questo modo, la posizione delle ombre cambierà da scatto a scatto. Questa metodologia, tuttavia, rischia di creare dei problemi durante la fase di costruzione della geometria epipolare, dal momento che il software trova i punti omologhi tra due fotogrammi accoppiando i pixel con un profilo radiometrico simile. I punti più facili da individuare dal software si trovano, quindi, proprio nei punti di maggior contrasto dell’immagine, come i bordi di ombre nette, che si troveranno in punti diversi da un fotogramma all’altro, dal momento che l’oggetto ruota sul suo asse mentre le luci restano ferme. Per non incorrere in questo problema, è importante allestire il set fotografico in modo che l’illuminazione sia molto uniforme, senza ombre, e priva di riflessioni speculari.

Il risultato finale è un modello con una texture priva di ombre proprie, in cui ogni dettaglio è ugualmente leggibile (Fig. 3). Un modello così generato rappresenta una do- cumentazione completa, che non si limita alla sola riproduzione della morfologia dell’og- getto, ma ne documenta anche il colore.

Ogni punto della superficie, infatti, è colorimetricamente corretto e fedele all’origina- le, dal momento che non è influenzato dal variare dell’intensità luminosa dovuta all’alter- narsi di zone di luce e ombra. Queste caratteristiche rendono il modello fotogrammetrico adattabile a qualsiasi uso.

Fig. 3. Oggetto d’esempio illuminato con il- luminazione diffusa. La texture generata du- rante la digitalizzazione sarà priva di ombre proprie

Fig. 2 Oggetto d’esempio fotografato con uno schema di illuminazione fisso. Lo schema di luci e ombre è memorizzato nella textu- re e non modificabile, limitando l’uso del modello

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il rilievo fotogrammetrico di sigilli del museo archeologico nazionale di