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dICAR - Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura Email: francesca.calace@poliba.it

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Adriano Spada

Politecnico di Bari

dICAR - Dipartimento di Scienze dell’Ingegneria Civile e dell’Architettura Email: adrianospada@gmail.com

Tel: 340.476.17.01

Abstract

Si discute oramai da tempo sul modo in cui possano e debbano essere sviluppate infrastrutture per la mobilità sostenibile o su come possano essere riconvertite quelle esistenti mantenendone la funzione, ma scarsa o nulla attenzione è dedicata alle azioni di retrofitting di sistemi di mobilità sostenibile in contesti consolidati e fortemente storicizzati, possibile incipit per azioni di rigenerazione di ambienti urbani degradati.

Mutato il modo in cui devono essere guardate le infrastrutture stradali, emblema di un modello di mobilità in via di trasformazione, si vuole riflettere sul legame di reciproca influenza che esiste tra trasporti e organizzazione dello spazio urbano. Citando Jah Gehl: «prima diamo forma alle città – poi loro danno forma a noi» e «le città dovrebbero essere disegnate per le persone e non per le automobili»; si vuole delineare un sintetico quadro di interventi di riconversione in chiave sostenibile delle infrastrutture con operazioni di riqualificazione urbana nelle quali le infrastrutture stradali sono state rimodellate in funzione di un cambiamento di prospettiva: da «quante auto possiamo è possibile far passare lungo la strada» a «quante persone è possibile far muovere lungo la strada» esplorando attraverso alcuni casi esemplari lo stato dell’arte e le esperienze più innovative di riconversione delle infrastrutture in chiave sostenibile, con una particolare attenzione alle ricadute sulla qualità e sulla capacità rigenerativa di tali interventi nella città.

Parole chiave: infrastructures, sustainability, mobility. 1 | Lo stato dell’arte

Si discute oramai da tempo sul modo in cui possano e debbano essere sviluppate infrastrutture per la mobilità sostenibile o su come possano essere riconvertite quelle esistenti mantenendone la funzione. Il dibattito attuale racconta la riconversione di vecchie infrastrutture ferroviarie, di aeroporti storici o di vecchi tracciati stradali che, persa la loro funzione primaria, sono stati riutilizzati per scopi prettamente turistici o ricreativi quali, ad esempio: la High Line di New York trasformata in parco lineare; le ferrovie abbandonate del Trentino Alto Adige trasformate in piste ciclabili; lo storico aeroporto di Temphelof a Berlino trasformato in parco pubblico; l’uso combinato di infrastrutture esistenti e funzionanti in chiave 'ecologica', quale è la ciclovia dell’acqua realizzata utilizzando la strada di servizio dell’Acquedotto Pugliese.

Da un punto di vista urbanistico, di identificazione dei caratteri e delle qualità urbane degli spazi per la mobilità, l’attuale dibattito fornisce interessanti spunti critici (Næss, 2001; Banister, 2005), con una serie di indicazioni e soluzioni pratiche per il disegno urbano (York, I., Bradbury, A., Reid, S., Ewings, T., Pradise R., 2007), ma scarsa o nulla attenzione viene dedicata alle azioni di retrofitting dei sistemi di mobilità sostenibile in contesti consolidati e fortemente storicizzati e alla declinazione, possibile incipit per forme di rigenerazione sociale e ambientale di ambienti urbani degradati, del problema dell’ “ultimo miglio” in termini urbanistici.

Definito in termini trasportistici come «l’offerta di sistemi di spostamento dal più vicino nodo del trasporto pubblico alla destinazione finale dei suoi utenti» (Wang & Odoni, 2012) esso definisce, urbanisticamente, lo spazio, prevalentemente urbano, che 'gli utenti', quindi 'le persone', quotidianamente vivono, attraversano e fruiscono.

2 | Il problema della mobilità e dell’accessibilità

La mobilità del ventesimo secolo è stata caratterizzata dall’uso massiccio dell’automobile, a tal punto da richiedere lo sviluppo e la costruzione di reti stradali sempre più fitte e capienti, quasi non vi potesse essere altra via che l’automobile. Tali scelte infrastrutturali hanno finito per produrre cesure e lesioni nei tessuti urbani più delicati, quali le città storiche a ridosso dei porti e delle stazioni e le parti di città ancora in formazione. Sono sorte, prevalentemente nel continente americano (Stati Uniti e Canada in testa, ma nessuna parte del mondo è stata esente) highway, freeway ed expressway che, attraverso i flyover, evitavano di toccare il suolo sottostante per non rompere il mito della velocità, identificata come essenza della modernità. Questi giganti, insieme ad un aumento esponenziale del traffico che, non pago delle capacità offerte, aumentava sempre più, hanno contestualmente prodotto dei non-lie, dei non luoghi, (Augé, 1996) o, nella migliore delle ipotesi, ulteriori spazi per la mobilità, quali parcheggi e spazi di servizio, che, molto spesso degradati, non dialogavano in alcun modo con la città.

La fine del ventesimo secolo1, insieme ad una crescente coscienza ambientalista, ha portato un mutamento

nel modo in cui venivano pensate le infrastrutture in generale – e stradali in particolare – perché emblema di un modello di mobilità in via di trasformazione, con maggiore attenzione al loro inserimento paesaggistico, soprattutto nell’ambiente urbano. Le infrastrutture non erano più un qualcosa da esibire, come avvenuto tra gli anni ’60 e ’80 con i flyover, ma diventavano un qualcosa da celare e mitigare – utilizzando opportune modellazioni del suolo o filtri verdi –, per non ripetere le cesure operate in precedenza e come, per esempio, realizzato con la Gran Vía de les Cortes Catalanes a Barcellona da Andreu Arriola e Carmen Fiol.

Oggi, come ampiamente dibattuto e riconosciuto, tra trasporti e organizzazione dello spazio urbano esiste un legame di reciproca influenza che, ancorché non in grado di determinare specifici comportamenti di viaggio, è una delle condizioni in grado di orientare la mobilità (Næss & Jensen, 2002). La mobilità, in quanto elemento fondamentale dell’accessibilità, è una forma di opportunità irrinunciabile per l’essere umano − la cui esistenza è legata al rapporto con l’ambiente (Fonzone, 2005) −, alla quale, oltre all’utilità delle attività compiute a destinazione o durante lo spostamento – intesa come domanda derivata (Mitchell & Rapkin, 1954) – è possibile associare un’utilità intrinseca legata alla natura stessa dell’uomo e quindi innata in esso (Mokhtarian & Solomon, 2001). L’utilità tratta dall’uomo, in quanto necessità innata, non è legata solo al raggiungimento della sua destinazione finale, ma è insita nel movimento stesso, in quanto bisogno originario dell’uomo (Colonna, 2003). Basti pensare come, nel 1847, Søren Kierkegaard scrivesse alla nipote Henriette2: «Sopra a tutto, non perdere il tuo desiderio di camminare; ogni giorno,

camminando, conduco me stesso in uno stato di benessere e mi allontano da ogni malattia; ho condotto me stesso nei miei migliori pensieri, e so che non c’è pensiero gravoso dal quale ciascuno non possa allontanarsi camminando».

1 L'11 dicembre 1997, in occasione della Conferenza COP3 della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti

climatici (UNFCCC), è stato sottoscritto, nella città giapponese di Kyoto, l’omonimo Protocollo, un trattato internazionale in materia ambientale riguardante il riscaldamento globale che prevede l'obbligo di operare una riduzione delle emissioni di elementi di inquinamento in una misura non inferiore all'8,65% rispetto alle emissioni registrate nel 1985 – considerato come anno base – nel periodo 2008-2014.

Mutatis mutandis, ne deriva che una città sostenibile3, deve garantire sistemi di «mobilità verde» (Gehl,

2002), quali il trasporto pubblico, quella ciclabile e soprattutto pedonale, che rappresenta il livello base della mobilità in quanto naturale, democratica e universale. L’attrattività del trasporto pubblico, da parte sua, è rafforzata se 'le persone' si sentono al sicuro e a loro agio durante gli spostamenti, a piedi o in bicicletta, nel loro ultimo miglio del viaggio.

3 | I casi studio

Ripensando a quanto scritto da Jah Gehl: «prima diamo forma alle città – poi loro danno forma a noi» e che «le città dovrebbero essere disegnate per le persone e non per le automobili», quello che si vuole tentare qui è descrivere alcune delle azioni sperimentate in vari contesti urbani, con particolare attenzione a quelli storicizzati o comunque consolidati, nei quali le infrastrutture esistenti, prevalentemente stradali, costruite a partire dalla metà del secolo scorso ed emblema di sviluppo e crescita, sono state 'ripensate' per lasciare spazio alla città. Tutto questo per delineare un sintetico quadro di good practice, in chiave sostenibile, di interventi di riconversione delle infrastrutture, che abbiano tentato, volontariamente o meno, di risolvere il problema dell’ultimo miglio; quindi di comprendere come tali good practice abbiano tentato di rifunzionalizzare e riqualificare quello spazio che, prevalentemente urbano, 'le persone' quotidianamente vivono, attraversano e fruiscono.

Alla risoluzione del problema dell’ultimo miglio si è provveduto, nel tempo, non solo con l’uso di soluzioni tradizionali (quali l’uso di bus di feederaggio, la realizzazione di infrastrutture ciclabili, l’implementazione su scala urbana di programmi per il car sharing, l’uso di pod cars e di sistemi di bike sharing (questi ultimi di successo in Europa e Asia e in via di implementazione su larga scala nel Nord America), ma anche con la sperimentazione di forme di pianificazione urbanistica volte alla soluzione strutturale del problema, come ad esempio fatto a Copenhagen a partire dall’ormai storico Fingerplanen, con operazioni di riqualificazione urbana nelle quali le infrastrutture stradali sono state rimodellate in funzione di un mutamento di prospettiva: da «quante auto possiamo è possibile far passare lungo la strada» a «quante persone è possibile far muovere lungo la strada» (Copenhagenize Design Co., 2014).

Il contributo, attraverso quattro casi esemplificativi, vuole esplorare lo stato dell’arte e le esperienze più innovative di riconversione delle infrastrutture in chiave sostenibile con particolare attenzione alle ricadute sulla qualità e sulla capacità rigenerativa di tali interventi nella città. I due casi americani, dove l’automobile è ritenuta 'l’unico' mezzo possibile: la Embarcadero Freeway a San Francisco e la Claiborne Expressway a New Orleans; e i due casi europei: la Gran Vía de les Cortes Catalanes di Barcellona e l’Åboulevarden ad Aarhus raccontano, raffrontandole, le maniere in cui il problema della riconversione è stato affrontato nel Vecchio e nel Nuovo Continente e come, in futuro, si pensa debba essere affrontato sfruttando al meglio le opportunità e le difficoltà proprie del nostro tempo.

3.1 | La Embarcadero Freeway di San Francisco negli Stati Uniti

La Embarcadero Freeway (Figura 1) era una autostrada urbana a due livelli, parte della State Route 480, aperta nel 1959, che correva lungo il waterfront orientale di San Francisco e doveva collegare il Bay Bridge, da Oakland, con il Golden Gate Bridge, a nord di San Francisco. Il 5 novembre 1985, una sempre crescente opposizione alla sua ingombrante presenza, portò il San Francisco Board of Supervisors a votarne la demolizione; tuttavia nel 1986 gli elettori di San Francisco respinsero tale proposta per timore delle conseguenze sul traffico automobilistico; la maggiore opposizione fu opposta dal quartiere di Chinatown e da altri, posti a nord del centro cittadino, i cui commercianti temevano le conseguenze economiche sulle sorti dei rispettivi quartieri. Quattro anni dopo, tuttavia, il terremoto di Loma Pietra rimise in discussione tale scelta, danneggiando seriamente la struttura della freeway che, chiusa al traffico, iniziò ad essere demolita il 27 febbraio 19914, per riaprire la città al suo waterfront.

I terreni subito a sud di Marked St., dove la freeway disegnava un anello dal Bay Bridge fino all’Embarcadero furono destinati alla costruzione di 3.000 nuove case, 185.000 mq di uffici e 35.000 mq di negozi − il Terminal Separator − e gli utili ricavati dalla vendita dei terreni vicini al Transbay Bus terminal furono usati per ricostruirlo più moderno: un nodo multimodale per ferrovie, autobus e tram.

3 Ricordando la definizione di 'sviluppo sostenibile' data dal Rapporto Brundtland: «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che

soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri» (WCED,1987)

4 Il sindaco Arthur Christ Agnos assestò il primo, simbolico, colpo di demolizione della freeway. Al momento di lasciare l’incarico

di sindaco commentò tale scelta dicendo: «La migliore decisione che ho preso come sindaco è stata la demolizione di quella

I suoli immediatamente a nord, invece, furono usati per ingrandire il parco esistente in modo da dotare la parte più densa della città di ulteriori spazi aperti.

Contemporaneamente l’Embarcadero, fino ad allora dominato dai due piani della freeway, fu trasformato in un boulevard costeggiato da palme e ampi marciapiedi, servito a partire dalla fine degli anni ’90 da tram d’epoca che collegavano il centro cittadino al Fisherman’s Wharf − il pontile dei pescatori −, degno spazio di relazione a servizio dello storico Ferry Bulding.

3.2 | La Claiborne Expressway di New Orleans negli Stati Uniti

Altro interessante progetto − attualmente in fase di studio − è quello che prevede la rimozione della Claiborne Expressway che, posta nel cuore di New Orleans, ha stravolto quello che una volta era un fiorente distretto commerciale pieno di caffè e ristoranti, negozi e spazi per la musica che si affacciavano sulla North Claiborne Avenue. Impreziosita da querce giganti e da vegetazione, la North Claiborne Avenue era uno spazio vibrante che stimolava le passeggiate, un luogo di aggregazione tra le due parti della città. Un luogo tanto integrato con i quartieri circostanti da aver ospitato le prime grandi sfilate del Martedì Grasso di New Orleans, il massimo uso che si possa pensare per uno spazio pubblico.

Il decentramento di alcune attività presenti nell’area e il conseguente disinvestimento, fattori comuni ad altre città americane nel periodo successivo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, portarono ad un suo graduale abbandono e alla conseguente costruzione della Claibrone Expressway, un’imponente autostrada elevata che, a partire dal 1968, tagliò la città in due e che nel tempo ha causato non solo la distruzione della struttura e del carattere urbano esistenti, ma anche della vitalità dei quartieri circostanti, popolati da una delle più vecchie comunità afro-americane degli Stati Uniti che non ebbero le risorse economiche e politiche per opporsi alla sua costruzione o per ottenere di modificarne il tracciato. Le querce giganti furono così rimosse e spostate in altre parti della città e cinquecento abitazioni demolite per lasciar posto ad una striscia di asfalto e cemento che ha cambiato permanentemente il paesaggio urbano. La successiva decadenza e abbandono del Distretto Commerciale provocò un ulteriore peggioramento nella qualità della vita dei residenti, che si ritrovavano oramai con un centro di vicinato inutilmente e vanamente disintegrato.

Come per San Francisco anche per New Orleans è stata una calamità naturale, l’uragano Katrina – che il 29 agosto 2005 impattò New Orleans con una forza tanto devastante da raderla quasi completamente al suolo – a produrre un mutamento di prospettiva sulla maniera di pensare la mobilità urbana e sul segno che questa autostrada aveva lasciato e continuava a lasciare, quarant’anni dopo la sua costruzione, sulla struttura urbana.

Nel 2012 il Department of Housing and Urban Development (HUD) e il Dipartimento dei Trasproti (USDOT) hanno stanziato 2 milioni di dollari per condurre studi e sviluppare tre alternative per la risoluzione del Claiborne Corridor a cui, nell’ottobre 2013, ha fatto seguito la presentazione di quattro scenari che, differenziati tra loro, prevedono nell’ordine (Figura 2):

• rimozione di due rampe di accesso all’autostrada, completamento della tramvia parallela, servizio di bus lungo Caliborne Avenue, costruzione di case e uffici per 3.500 nuove famiglie e 600 nuovi posti di lavoro; • rimozione di tre rampe di accesso all’autostrada, completamento della tramvia parallela, servizio di bus

lungo Caliborne Avenue e di tram da Poydras Street fino ad Elysian Fields Avenue, costruzione di case e uffici per 4.500 nuove famiglie e 1.070 nuovi posti di lavoro;

• completa rimozione dell’autostrada da Tulane Avenue a St. Bernard Avenue e dei sistemi di accesso, completamento della tramvia parallela, servizio di bus lungo Caliborne Avenue, costruzione di case e uffici per 6.000 nuove famiglie e 1.270 nuovi posti di lavoro, realizzazione della nuova Università di Medicina e dell’ospedale per veterani;

• completa rimozione dell’autostrada da Tulane Avenue a St. Bernard Avenue e dei sistemi di accesso, completamento della tramvia parallela, servizio di bus lungo Caliborne Avenue, costruzione di case e uffici per 6.000 nuove famiglie e 2.470 posti di lavoro, realizzazione della nuova Università di Medicina e dell’ospedale per veterani.

Obiettivi dell’intervento quindi sono quelli di riconnettere i quartieri circostanti l’autostrada, un tempo in contatto tra di loro e attualmente separati, di riutilizzare la rete stradale attualmente sottoutilizzata e, cosa più importante, di ricostruire la North Caliborne Avenue, un tempo conosciuta per le sue querce, riconferendone il valore identitario.

3.3 | La Gran Vía de les Cortes Catalanes di Barcellona in Spagna

Tra gli esempi europei di ripensamento di grande infrastrutture stradali urbane un ruolo importante è rivestito dal progetto della Gran Vía de les Cortes Catalanes a Barcellona che, dalla Plaça de les Glòries Catalanes fino al suo termine nella Ronda Litoral, è una vera e propria autostrada urbana. La Gran Vía de les Corts Catalanes, o più semplicemente Gran Vía, è uno dei principali viali di Barcellona e, con i suoi 13 chilometri, è la più lunga strada di Catalogna – seconda in Spagna alla Gran Vía de la Manga –, parte essenziale del Pla Cerdà. Il progetto di ripensamento di tale strada, iniziato nel 2001 e concluso nel 2012, ha migliorato le condizioni della Gran Vía attribuendo maggiore peso ai pedoni grazie, anche, ad una nuova sezione stradale (Figura 3) che si proietta sulle corsie centrali. Questa soluzione, studiata dagli architetti Andreu Arriola e Carmen Fiol, ha permesso di ridurre in maniera notevole l’inquinamento acustico e ambientale, nonché di risolvere il problema della mancanza di relazioni tra mare e montagna e di spazi aperti. La costruzione di barriere acustiche verdi ha permesso di proteggere i fronti che si affacciano sulla Gran Vía dall’inquinamento acustico prodotto dal traffico che scorre, ad una quota più bassa, nelle corsie centrali. Le passerelle trasversali, invece, hanno permesso di rafforzare le relazioni tra i due fronti stradali e la linea del tram, nello spazio sottostante la passeggiata pedonale e adiacente le corsie centrali, con quattro fermate dal lato del mare e due parcheggi interrati dal lato della montagna, ha permesso di spostare il peso della mobilità urbana dalla sfera privata a quella pubblica.

3.4 | L’ Åboulevarden di Aarhus in Danimarca

Ultimo caso di rilievo è quello dell’Åboulevarden ad Aarhus in Danimarca. L’ Åboulevarden è stato un viale urbano ottenuto coprendo il fiume Aarhus, da cui prende il nome la seconda città danese per numero di abitanti, nel corso degli anni ’30 del novecento a seguito della crescente necessità di dotare la città di una arteria per il traffico pesante diretto alle industrie portuali (Figura 4). Nel 1989 il Consiglio Comunale di Aarhus decise di riaprire il fiume al fine di creare, nel centro della città, degli spazi attraenti e liberi da macchine (Figura 4). L’intervento, realizzato per fasi a partire dal 1996, è in fase di ultimazione (Figura 5) con la realizzazione, sul rivitalizzato waterfront urbano, dell’Europaplads & Mediaspace. Questo è, indubbiamente, il più interessante tra i progetti fin qui osservati per l’ambiente urbano in cui è stato realizzato, il tessuto storico della città di Aarhus che, grazie alla riapertura del fiume, alla creazione delle passeggiate pedonali lungo le sue rive, di spazi verdi e di spazi di relazione per 'le persone', ha permesso di riportare alla sua funzione inziale, quello di 'spazio per le persone', uno spazio che era stato votato al traffico veicolare al punto da stravolgerne non solo la funzione originale ma anche la morfologia dei luoghi.

4 | Conclusioni

Pur nella limitatezza dei casi qui analizzati, per rilevanza ed esemplarità essi si prestano a delineare alcune tracce di lavoro sul tema delle riconversione in chiave sostenibile delle infrastrutture; su una di queste, in particolare, si vuole riflettere.

Fatta eccezione per il caso della Gran Vía – caso in cui la funzione di grande arteria rimane viva, ma viene robustamente mitigata attraverso opere innovative ed estese – negli altri casi si opera una vera e propria rinuncia a tale funzione. Ciò sia quando un agente esterno, quale l’evento calamitoso, fornisce l’occasione per un ripensamento sul modello di mobilità, sia quando deliberatamente, come nel caso danese, si smantella l’infrastruttura per far posto allo spazio per 'le persone'. E ciò non avviene a causa dell’abbandono – come nei casi di altre dismissioni, in cui il disuso funzionale precede e provoca l’obsolescenza fisica – ma per scelta consapevole di voler rinunciare alla velocità, a quel tipo di velocità, in favore della qualità dello spazio anche per la mobilità.

Si tratta quindi di una inversione di rotta nella concezione dello stesso modello di mobilità; lezione, questa, che in teoria potrebbe essere applicata anche in molti casi, anche italiani (si pensi all’alterno dibattito sulla