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D’Arch - Dipartimento di Architettura

Email: giorgio.danna@unipa.it

Abstract

L’attività estrattiva ha sorretto per lungo tempo la struttura economica di una consistente parte del nostro paese. La sua dismissione ha determinato un impatto disastroso sull’economia e i paesaggi che ha investito. L’immagine degli stessi territori è il risultato delle trasformazioni che l’industria mineraria ha apportato. Ha armato il territorio di una serie di infrastrutture – ferrovie, strade, bacini idrici - necessarie al suo funzionamento. L’ipotesi di riciclare tale sistema infrastrutturale per attività legate al turismo e alla fruizione del tempo libero è indotta dalle condizioni ambientali in cui versano attualmente la maggioranza dei siti minerari in abbandono e dal bisogno di prefigurare un nuovo orizzonte culturale e di sviluppo. Una simile ipotesi è già stata ampiamente sperimentata con successo nel Nord della Francia, presso il bacino minerario Nord Pas de Calais. La dismissione delle attività estrattive ha condotto a un lungo periodo di recessione. Il governo, in stretta collaborazione con la popolazione, ha reagito attuando una massiccia campagna di riuso, riciclo e valorizzazione delle infrastrutture industriali, trasformando i segni che avevano marcato negativamente il territorio nei tratti irrinunciabili del suo paesaggio. L’intento del paper è tracciare un prospetto delle strutture economiche e territoriali che avevano sorretto i due territori, nonché comprendere quanto esportabile sia in Italia il caso francese.

Parole chiave: landscape, local development, industrial sites. 1 | Introduzione

L’industria mineraria è stata tra le principali risorse economiche in Italia. La rapidità delle trasformazioni messe in atto durante il XX secolo ne ha determinato una crescita veloce e quasi incontrollata, seguita da una ancor più rapida dismissione avvenuta negli anni Ottanta. Le ragioni dell’abbandono di una così importante struttura economica sono da collegare essenzialmente alla delocalizzazione produttiva registratasi tra gli anni Settanta e Ottanta. Lo sviluppo degli scambi commerciali su scala planetaria ha infatti permesso lo spostamento delle attività in paesi in cui la manodopera costa meno. Il costante ammodernamento della rete infrastrutturale ha permesso e accelerato questo processo, determinando il crollo di buona parte dell’industria mineraria italiana. Con la chiusura degli impianti scompare non solo una considerevole fetta del sistema economico nazionale, ma sembra con essa estinguersi una struttura sociale e territoriale che aveva contribuito nel passato alla costruzione di una specifica identità locale. Nonostante, infatti, la storia dell’industria estrattiva, in cava o in galleria, abbia costituito una delle armature portanti del sistema economico e sociale, non si è registrata alcuna volontà politica di riciclo e riuso delle strutture fisiche a essa associate. È ancora evidente la difficoltà di riconoscere un valore al contributo che le miniere hanno dato allo sviluppo economico e alla storia sociale e urbanistica italiana (figura 1). Di conseguenza, il patrimonio di archeologia industriale presente sul territorio va progressivamente esaurendosi. Manca a oggi una legislazione nazionale che ne permetta la salvaguardia e il

riuso secondo precise linee guida. Le poche iniziative locali che hanno condotto all’istituzione di parchi minerari o geominerari vivono nell’isolamento istituzionale e senza un chiaro modello legislativo cui riferirsi (Zucconi, 2008). Solo nel 2004, il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio ha riconosciuto ai siti minerari un interesse storico e culturale1. Tale riconoscimento, senz’altro apprezzabile, arriva tuttavia in

modo tardivo, quando gran parte delle testimonianza storiche e architettoniche sono ormai scomparse. L’intento principale di questo contributo non è tuttavia proporre anacronistici processi di restauro e valorizzazione dei resti del passato minerario, quanto piuttosto capire quanto delle tracce materiali ancora esistenti sia possibile riciclare nell’ipotesi di un uso tale da produrre scenari e prospettive inedite. Quanto avvenuto negli ultimi anni nella regione francese del Nord Pas de Calais può, in tale ipotesi, suggerire proposte e strategie. In questo caso, l’eredità del passato industriale è stata posta a base di un uso innovativo del territorio. Lo sforzo compiuto dalle amministrazioni, pienamente appoggiato dalla comunità locale, ha permesso di ribaltare completamente la percezione del paesaggio minerario del Nord della Francia (Burzi, 2013). Il recupero delle strutture industriali dismesse ha avuto il doppio risultato di preservare una struttura territoriale e urbana di indiscusso valore e attivare quei processi economici da cui la regione era rimasta esclusa con l’abbandono delle attività estrattive. L’obiettivo principale del contributo è, quindi, proporre strategie di recupero dei luoghi trasformati socialmente e fisicamente dal passato minerario, indagando quanto esportabile sia in Italia il caso francese.

Figura 1|Miniera di Masua, Iglesias. Sito minerario per l'estrazione di piombo e zinco, attivo dal 1859 al 1991.

Fonte: http://maxxisearch.fondazionemaxxi.it/maxxi/collezionifoto/photo/IT-MAXXI-FT0002-0000000634 [Consultato il 3 maggio 2015].

2 | I contesti minerari italiani: sviluppo, crisi, dismissione, prospettive

Lo sviluppo del settore minerario italiano ha avuto il suo picco economico nel secondo dopoguerra. Gli anni Sessanta ne avviarono invece un lento declino, fino al definitivo abbandono compiutosi tra gli anni Ottanta e Novanta. Uno studio economico condotto sull’andamento produttivo dell’industria mineraria italiana (Salvadori & Zuffardi, 1991) mostra come questa sia stata tra le principali risorse del nostro paese. I dati prodotti, se confrontati con le tabelle e i grafici dei restanti paesi europei, rivelano un’assoluta corrispondenza tra la produzione italiana e quella estera. Alcuni fattori, oltre ai già enunciati nell’introduzione (delocalizzazione produttiva e potenziamento del sistema infrastrutturale), causarono la crisi degli anni Sessanta. In primo luogo, l’esaurirsi dei giacimenti più produttivi (Fornaro, 2008). Un prosieguo delle attività avrebbe richiesto l’ammodernamento del sistema tecnologico per permettere l’estrazione del materiale sempre più a fondo. Un simile sforzo non fu tuttavia intrapreso per via del vantaggio economico quasi nullo che avrebbe prodotto. Il settore minerario stava già infatti sperimentando la crisi che lo avrebbe condotto di li a poco alla definitiva chiusura. Negli stessi anni, una crescente coscienza ambientale stava inoltre sollevando dubbi sull’impatto di tali attività sul territorio. La stessa attenzione verso le tematiche ambientali diede avvio alle pratiche di riciclo di ferro, rame e metalli in genere tuttora in corso. La scarsa convenienza economica a proseguire le attività e il calo generale delle quantità di materiali richiesti furono allora alla base della diffusa chiusura degli impianti estrattivi in Italia. Dal punto di vista fisico, l’industria mineraria ha prodotto trasformazioni sostanziali ai sistemi urbani e territoriali che ha investito. L’organizzazione produttiva ha reso necessaria la costruzione di un complesso

1 Troviamo l’inserimento dei siti minerari tra i beni culturali da tutelare nella parte seconda del Codice, articolo 10. Si legge, infatti,

insieme di edifici e infrastrutture: ferrovie, bacini idrici, villaggi operai, industrie e raffinerie di vario genere. Ha dato vita a una organizzazione territoriale precisa e piegata al funzionamento del sistema tecnico. Strutture produttive e villaggi operai si insediarono, quasi necessariamente, nelle immediate vicinanze di infrastrutture per il collegamento veloce. La stessa rete ferroviaria è stata talvolta costruita per soddisfare le necessità espresse dal mondo produttivo. Si costruì allora un paesaggio tecnico, fatto di industrie, ferrovie, villaggi operai, piegato ai ritmi del sistema industriale (Trisciuoglio, 2008). In Italia, alcuni esempi declinano in modo fedele tale organizzazione territoriale. In Sicilia, ad esempio, la produzione dello zolfo rese necessaria la costruzione di una apposita rete ferroviaria. Serviva da collegamento tra i vari siti estrattivi e le aree portuali, da cui lo zolfo estratto partiva verso le maggiori potenze europee (Rebecchini, 1991). L’organizzazione territoriale disegnava allora un arcipelago di siti collegati da una fitta rete ferroviaria, in gran parte ancora in uso. La stessa cosa accadeva in Sardegna, in Trentino e in Toscana. L’ipotesi di riciclare una così complessa organizzazione territoriale produrrebbe effetti positivi a vari livelli. Permetterebbe prima di ogni cosa la bonifica e il recupero di territori drammaticamente trasformati dall’attività industriale. Metterebbe inoltre all’angolo una serie di questioni che notoriamente segue all’abbandono delle pratiche estrattive2. È chiaro tuttavia che la scala dei sistemi in

esame rende improponibile, quantomeno sul profilo economico, un recupero totale delle infrastrutture associate all’industria mineraria. Rende improbabile, ad esempio, il recupero degli spazi ipogei, sebbene alcune esperienze dimostrino la fattibilità di alcune pratiche3. Quel che appare interessante indagare è

invece la sostenibilità, economica e territoriale, di alcune esperienze tali da generare nuove forme di economia e organizzazione del territorio. La questione economica non è, in questa direzione, un aspetto secondario. La dismissione industriale ha attivato la recessione economica dei territori che ha investito. Riciclare il territorio potrebbe in questo caso dare avvio a processi economici inediti tali da superare la crisi causata dall’abbandono delle attività produttive.

3 | Il caso francese tra riciclo e innovazione

Figura 2|Localizzazione geografica bacino minerario Nord Pas de Calais. Fonte: Elaborazione propria.

Il Nord Pas de Calais ha condotto, tra Ottocento e Novecento, un’intensa attività industriale legata all’estrazione del carbone. Il suo distretto minerario corre lungo tutto il nord della Francia, proseguendo i filoni carboniferi della Ruhr ed estendendosi per 120 chilometri, dalle colline dell’Artois fino a raggiungere il Belgio (figura 2). Il suo territorio è stato totalmente trasformato dall’incedere delle attività produttive. L’impatto sul paesaggio è stato devastante. La stessa struttura orografica è stata manomessa e piegata alle logiche del sistema industriale. Il suo suolo, sostanzialmente piatto e privo di rilievi, è oggi occupato dai cumuli di detriti più alti d’Europa. Basta attraversare in treno il territorio per rendersi conto di quale sia stato l’impatto delle macchine sul nord della Francia. L’orizzonte, vasto e privo di impedimenti, è interrotto solo dallo svettare dei terrils, rilievi formatisi dall’accumulo costante di materiale di scarto.

2 Ciclicamente le maggiori testate giornalistiche italiane consegnano alla cronaca le inchieste condotte sulla scoperta di attività

illecite legate all’interramento di rifiuti tossici nei sotterranei di cave e miniere abbandonate. Una riconversione di questi spazi aggiungerebbe ai necessari processi di bonifica postindustriali la possibilità di evitare simili attività.

3 Esistono alcune pratiche in fase di sperimentazione proiettate verso un uso innovativo dei vuoti residui. Ricordiamo tra le altre la

coltivazione di funghi sfruttando le favorevoli condizioni climatiche degli spazi ipogei, alcuni processi di gassificazione in sotterraneo, lo stoccaggio di anidride carbonica prodotta. Tuttavia, lo scetticismo trasmesso da alcune esperienze del passato reclama prudenza nell’attuazione di questi pratiche.

Accanto alla modificazione della topografia del luogo, la costruzione sistematica di elementi e complessi industriali: pozzi per l’estrazione, strade ferrate, industrie, case operaie. Le Compagnie Minerarie che gestivano il territorio, mosse da spirito paternalistico, plasmarono il territorio secondo lo specifico sistema insediativo che oggi definiamo habitat minier. Declinava la forma urbana alternando quattro differenti modelli di città: la corons, la città giardino, la cité pavillonnaire, la città moderna (Mission Bassin Minier, 2006). Rispondevano tutte alla necessità di controllare le varie fasi che articolano la vita operaia: istruzione, religione, sistema sanitario. Il sistema insediativo, complesso e pianificato nei dettagli, viene tuttavia meno con la chiusura degli impianti estrattivi. Con esso viene anche meno la principale struttura economica che aveva sorretto il territorio e che aveva occupato il preesistente paesaggio rurale: l’Artois era stata una regione agricola fino alla Rivoluzione Industriale. Sul finire degli anni Ottanta, la chiusura degli ultimi impianti ancora attivi fece precipitare il territorio in una recessione economica senza precedenti. Il sistema economico legato al settore minerario non trovò infatti nell’immediato un modello economico con cui sostituire l’industria estrattiva in declino. Dai primi anni del duemila inizia però a registrarsi una massiccia opera di recupero dei resti della passata attività industriale. L’ipotesi posta a base di questo processo è il riciclo sistematico del territorio, attraverso la modifica del patrimonio industriale e il suo reimpiego a scopo culturale. Gli elementi che disegnano il paesaggio tecnico – edifici industriali, cavaliers4, terrils - sono stati recuperati e riabilitati a un tipo di fruizione legata alla cultura e al tempo libero (figura 3). L’istituzione di precise relazioni reciproche - fisiche e d’uso- tra i vari terrils che alterano la piatta orizzontalità della regione sta contribuendo alla costruzione di una rete ecologica che copre l’intero territorio (figura 4)(Burzi, 2013). I processi di recupero ancora in atto stanno operando la conversione degli scarti industriali in parchi per il tempo libero, trattandoli alla stregua dei tradizionali parchi a tema e ignorandone volutamente la natura. Studi preliminari indagano quali essenze vegetali impiantarvi, trasformando i terrils in laboratori di ricerca sulla biodiversità (Van Bost, 2012). La fruizione è assicurata dalla costruzione di percorsi e infrastrutture di vario genere, l’eco del processo dalla raccolta dei siti in un sistema che arma e orienta le ricerche in corso. La percezione negativa degli ambienti industriali ne esce totalmente ribaltata (Burzi, 2013). Elementi considerati fino a pochi decenni prima uno sfregio al paesaggio del nord della Francia ne diventano il tratto distintivo. Allo stesso modo, sono state recuperate parte delle strutture industriali a Lens, Lévin, Blanzy. Oignies, Valenciennes. Sono diventate musei della scienza e della tecnologia, testimonianza del passato industriale e tecnologico della regione, anch’esse raccolte in un unico sistema per accrescere il senso dell’intera operazione. Il 2013 è, inoltre, una data fondamentale per il Nord Pas de Calais. Viene accolta la candidatura, avanzata tre anni prima, per inserire il bacino minerario nella lista Unesco dei patrimoni dell’umanità. Viene iscritto sotto il titolo di Paesaggio Culturale, in quanto esito dell’opera combinata tra uomo e natura5 (Preite, 2008). L’inserimento all’interno della lista è un fatto

cruciale. Riconosce alla complessa organizzazione territoriale un valore che ne impone la tutela e la trasmissione alle generazioni future. Per chiudere il cerchio, nel 2012 si inaugura a Lens il Louvre II, succursale regionale del più celebre dei musei parigini. La scelta non è casuale. Lens costituisce il cuore del distretto minerario, centro geografico dell’intero complesso. È un segno altamente simbolico. Rivela la volontà di usare la cultura come lenitivo post-industriale (Jacob, 2013). La strategia sottesa all’operazione è la ricerca dell’effetto Gugghneim, essendo il museo un elemento in grado di aumentare il numero di visitatori. La posizione geografica della città aiuta questo obiettivo. È collegata con le maggiori capitali europee, a sole due ore di distanza massima venendo da Londra, Bruxelles, Parigi. È servita dalla rete infrastrutturale - stradale e ferroviaria - che ha armato e sorretto la passata e complessa organizzazione industriale. Il museo ha trovato spazio in un sito minerario in abbandono dismesso negli anni Settanta, sufficientemente grande da ospitare pure il parco. Non costituiva tuttavia una tabula rasa. Vi si leggevano ancora le tracce della trascorsa attività industriale. Cumuli di scarti disegnavano una nuova quota, sovrapposta a quella originaria del terreno. Sull’intero sito correvano le trame degli antichi percorsi ferroviari. Migliaia di alberi ne ricoprivano il suolo, piantumati dopo la chiusura per fissare gli sfabricidi e avviare i primi processi di bonifica. Il progetto, esito della collaborazione tra Sanaa e Catherine Mosbach, non è indifferente all’identità del luogo. Tutti gli elementi che compongono il sito concorrono alla sua definizione formale. Le due differenti quote articolano e definiscono il piano di imposta dell’edificio, le

4 Nella zona mineraria franco belga con il termine cavaliers ci si riferisce alle antiche strade ferrate che collegavano i pozzi tra di

loro. Dopo l’abbandono hanno attratto vegetazione spontanea, assumendo la funzione di fondamentali corridoi biologici. Oggi sono oggetto di studi e ricerchi mirati alla loro conversione in greenway e piste ciclabili.

5 Secondo quanto riportato dal dossier di candidatura per l’inserimento del distretto nella lista Unesco l’intero bacino è da

considerarsi come “une structure organique globale, exceptionelle par sa continuité et son homogéneité, et non comme une collection de sites ou de

tracce dei cavaliers si sovrappongono alla rete di percorsi disegnata da Catherine Mosbach, mentre le essenze vegetali già piantumate partecipano alla realizzazione complessiva del parco. Si sperimenta un’idea sottile di riciclo, nella quale non sono unicamente le tracce fisiche a essere riusate, ma lo è la stessa matrice insediativa, che genera nuovi elementi e produce nuove forme di paesaggio. Michel Desvigne, incaricato del progetto Eurolens nel periodo 2010-2016, sta sperimentando un processo simile. Il programma prevede la definizione di una strategia territoriale globale per assicurare la complessiva riuscita dell’operazione Louvre Lens. I percorsi tracciati da Desvigne riprendono quanto fatto nel progetto del parco. Ricalcano le tracce degli antichi cavaliers, riciclandone le trame per proporre una differente idea di mobilità che potremmo definire slow (Portelli, 2012). Trattazione a parte meriterebbe il ruolo che la popolazione ha avuto in una tale campagna di riuso e reinvenzione del territorio abbandonato. Associazioni e gruppi di cittadini hanno supportato, e in parte guidato, le campagne per giungere all’iscrizione alla lista Unesco e portare il Louvre nella regione. Hanno subito capito che invertire di senso il territorio, da giacimento minerario a giacimento culturale, costituiva l’unica via possibile per uscire dalla crisi che lo stava impoverendo. I processi partecipativi messi in moto sono stati la risorsa più valida per portare a compimento il percorso intrapreso. La stessa costruzione del Louvre a Lens è stata l’espressione chiara di un volere popolare che ha scelto la cultura come risposta alla recessione.

Figura 3|Parco delle Isole a Drocourt. Progetto di Ilex Paysage & Urbanisme, realizzato nel 2013.

Fonte: http://www.ilex-paysages.com/3846/realisations/le-parc-des-iles-drocourt-rouvroy-henin-beaumont-62/ [Consultato il 3 maggio 2015].

Figura 4|La rete dei cavaliers e terrils che caratterizza e struttura la regione.

4 | Conclusioni

La lettura critica di quanto avvenuto nel Nord Pas de Calais rende evidenti le questioni che stanno alla base del fallimento di buona parte delle iniziative italiane. La lacuna più grande è stata in alcuni casi l’incapacità di raccogliersi in sistemi. La presenza di più parchi minerari autoreferenziali e isolati è stata probabilmente la causa, per citare un caso, del fallimento del complesso delle miniere siciliane6. Un

modello di gestione simile si è rivelato inadeguato a gestire una così ampia struttura territoriale, esaurendone rapidamente la capacità di costituire risorsa, economica e culturale. Altra questione, peraltro rilevata in altri paesi europei, è la diffidenza nel riconoscere questi spazi quali potenziali attori economici (Perelli C., Pinna P., Sistu G., 2011). Probabilmente perché ancora troppo vivo il ricordo dello sfruttamento del lavoro in miniera, o più semplicemente perché l’Italia possiede un patrimonio culturale così vasto da fare apparire superflua e priva di fondamento l’ipotesi di un loro riuso sistematico. Altro aspetto è la questione ambientale che vi si associa. Si registra nel nostro paese un ritardo, e una fatica, delle discipline legate all’archeologia industriale. L’immagine degli spazi industriali rimane ancora associata agli stereotipi con cui spesso tali ambienti si identificano (Conesa H., Schulin R., Nowack B., 2007). La loro scala ne rende inoltre costoso un riuso e un recupero. La stessa tendenza italiana alla musealizzazione e al congelamento di alcuni luoghi a una data epoca gioca a svantaggio. Ripensare questi spazi impone una riflessione su cosa possono diventare, sul tipo di paesaggio che possono produrre, sulla struttura economica che possono generare. Riciclare in modo innovativo le tracce dei vecchi siti minerari potrebbe dare forma a modalità inedite di fruizione del territorio, aprendo prospettive nuove e avviando nuove forme di economia. Il caso francese declina le buone pratiche che possono condurre a processi di riciclo maturo e sostenibile. L’aggruppamento in un unico grande sistema ha permesso di rendere riconoscibile ogni sito in quanto parte di un più ampio complesso territoriale. Aver riciclato gli scarti dell’industria estrattiva per produrre nuovi paesaggi e attrarre nuove forme di economia ha senza dubbio ribaltato il punto di vista da cui questi spazi venivano osservati.

Riferimenti bibliografici

Burzi I. (2013), Nuovi paesaggi e aeree minerarie dismesse, Firenze University Press, Firenze.

Conesa H., Schulin R., Nowack B., (2008), “Mining landscape: A cultural tourist opportunity or an environmental problem? The study case of the Cartagena–La Unión Mining District (SE Spain)”, in