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Riciclare, rigenerare ed innovare infrastrutture e territorio Alessandro Bove

Università degli Studi di Padova

Dipartimento di Ingegneria Civile, Edile ed Ambientale - ICEA Email: [email protected]

Abstract

L’infrastruttura da sempre è stata riconosciuta quale strumento volto a rendere competitivo un territorio e, soprattutto, ad essa è stata associata la capacità di portare la modernità: essa è risultata essere quasi una precondizione essenziale per lo sviluppo del territorio e sinonimo di progresso. In particolare nella storia della montagna veneta e bellunese, oggetto di osservazione di questo paper, la costruzione dell’infrastruttura è stata strumento capace di trainare l’ammodernamento in un momento in cui questi territori necessitavano di costruire relazioni sia trasversali, tra le diverse vallate che strutturano il sistema insediativo, che verso la pianura, con la quale sostanziare un rapporto biunivoco di scambio. Così le linee ferroviarie prima e l’autostrada poi, il sistema idroelettrico del bacino del Piave e le molte piccole centraline idroelettriche diffuse sul territorio hanno consentito di superare l’isolamento locale (si pensi ad esempio che il paese di Soverzene prima della costruzione della diga sul Piave negli anni ’30 del secolo scorso era raggiungibile solo attraversando il fiume sulle spalle di una persone che svolgeva il compito di traghettatore). Oggi alcune di queste infrastrutture sono dismesse o in via di dismissione perché incapaci di autosostenersi (come le ferrovie Bribano-Agordo o Calalzo-Cortina) o, a seguito dell’ottimizzazione delle reti di trasporto elettrico, permangono come attività redditizia, ma anziché garantire una sorta di rivincita della montagna sulla pianura, vengono a sostenere di più lo sviluppo di quest’ultima rispetto a quello locale.

Parole chiave: montagna, rigenerazione, innovazione. Premessa

Riciclare, rigenerare ed innovare. Questi termini sembrano riferirsi generalmente alle sole infrastrutture dismesse. Infatti la letteratura raccoglie e analizza una molteplicità di casi in cui l’infrastruttura (sia essa centrale elettrica, rete ferroviaria, caserma o fabbrica, ecc.), persa la primaria funzione, ritrova una nuova funzionalità attraverso interventi di rigenerazione che, partendo dalla forma architettonica e/o dalla funzione oramai obsoleta, vanno ad associare nuove funzionalità con lo scopo di trasmettere, attraverso proprio la conservazione degli aspetti formali dell’infrastruttura, la testimonianza (memoria) di quel carattere che è proprio del paesaggio culturale.

Si tratta di un processo che, attraverso la continua trasformazione propria del pánta rêi di Eraclito, pone alcuni aspetti, per lo più formali e percettivi, al centro delle politiche di conservazione, valorizzazione e rigenerazione. Quindi la rigenerazione delle infrastrutture, qualora prevalgano gli approcci sopra elencati, sembra configurarsi esclusivamente come fatto culturale: le destinazioni d’uso proposte (soprattutto se ascrivibili ad uno sfruttamento turistico) ci propongono una sorta di atemporalità del bene che va al di là del suo essere spazio di vita. Il suo valore estrinseco viene a dipendere solamente dalla sua capacità di evocare/ricordare una funzione specifica, un momento di storia; si rimodula e viene trasformato in relazione alle mutate esigenze al contorno. In tal senso si verifica una sorta di perdita dei legami esistenti

tra il bene ed il luogo, un insieme di inadeguatezze che ci portano a proporre quale assioma fondamentale “rigenerazione uguale area di riserva per la sostenibilità sociale, economica ed ambientale”.

In realtà le infrastrutture per la produzione e la mobilità, in Veneto come in molte altre zone italiane e non, sono l’esito ultimo di una continua stratificazione: attraverso sovrapposizioni di strutture e funzioni, in apparenza disuguali e discordi, vengono a creare un equilibrio, una coerenza ed organicità che la rigenerazione, se solamente puntuale, non riesce a valorizzare. In questo modo la campagna agricola, la fabbrica, la casa, il quartiere operaio e, addirittura, il grande nucleo urbano diventano parti di uno stesso spazio e si integrano per creare il genius loci: il paesaggio culturale della produzione e del lavoro (Bove, Manoli, 2010). Così, se da un lato individuiamo i grandi nuclei produttivi, connessi ai principali sistemi infrastrutturali e capaci di costituirsi come nodi urbani dotati di servizi di alto livello, dall’altro anche le realtà periferiche, spesso legate ad ambiti specialistici ed alla vicinanza diretta a risorse naturali, hanno saputo organizzarsi in centralità di servizio a favore dei lavoratori. Questi due modelli, contrapposti nelle dinamiche di sviluppo territoriale, ma assai vicini nell’evoluzione insediativa, sono gli elementi che nel tempo sono andati a costituire le realtà locali così come noi le conosciamo. Sono questi i legami che la semplice conservazione dell’involucro non riesce a garantire.

La domanda che ci si pone è dunque se sia sufficiente conservare la memoria dei beni attraverso interventi per lo più formali o sia necessario un cambiamento di passo per cui la rigenerazione torni ad avere un valore di rete di significati, di conoscenze, di funzioni, le cui ricadute spazino dal luogo puntuale al sistema di area vasta.

Riciclare e rigenerare le infrastrutture dovrebbero perciò configurarsi come una sorta di innovazione del sistema insediativo a cui esse fanno riferimento, andando non solo a coinvolgere gli aspetti formali che ne caratterizzano la riconoscibilità percettiva, ma proponendo soprattutto progetti di territorio capaci di intervenire a livelli differenti, così da individuare nuove identità sulla base dei rinnovati legami tra oggetto e luogo.

Mobilità e produzione idroelettrica nel bellunese

Il ragionamento sopra proposto discende direttamente dalla valutazione di alcuni casi particolari di infrastruttura riferiti al territorio bellunese: le ferrovie Bribano-Agordo e Calalzo-Cortina ed il sistema di produzione idroelettrica.

Entrambe le tipologie scelte fondano la propria valenza territoriale sul fatto che sono state strumenti di sviluppo sociale, economico ed insediativo ora indirettamente (in qualità di supporto alla produzione come nel caso della ferrovia), ora direttamente (in quanto strumento di produzione come nel caso delle centrali idroelettriche). Inoltre si caratterizzano il superamento del legame tra luogo di reperimento delle materie prime e loro utilizzazione ultima (trasformazione, sfruttamento): l’infrastruttura di trasporto e di produzione è diventata spesso strumento per raggiungere aree maggiormente favorevoli al mercato senza lasciare in loco quel supporto necessario allo sviluppo locale. Sia il trasporto dell’energia a distanza che lo sfruttamento del materiale di estrazione delle miniere agordine hanno storicamente comportato non tanto una rivincita della montagna sulla città di pianura, quanto una sua aumentata dipendenza, sicuramente economica e finanziaria, ma anche politica, poiché la speranza di poter sfruttare tali materie prime in loco e svilupparvi attività produttive è stata delusa a causa della mancata strutturazione della domanda locale. Così se da un lato le miniere dell’agordino, sfruttate già attorno al 1417 per estrarre pirite cuprifera, hanno potuto generare in età recente (prima metà del Novecento) caratteristici insediamenti dotati di servizi minimi (dormitorio, sala riunioni, infermeria, CRAL1, edifici isolati per abitazioni e uffici) oltre ad essere

promotrici della realizzazione della ferrovia Bribano-Agordo (dismessa nel 1955 per la chiusura dell’impianto minerario della Valle Imperina e la progressiva diminuzione dei passeggeri), allo stesso tempo, pur avendo generato innegabili seppur minime ricadute economiche locali, hanno sempre partecipato allo sviluppo di attività in aree diverse rispetto alla localizzazione delle materie prime: a Venezia prima (dove il materiale estratto veniva utilizzato sia per la monetizzazione che per la produzione di cannoni) e poi più generalmente in Italia, quando la dimensione locale della produzione ha assunto una progressiva indipendenza dalla rendita di posizione (Von Thunen) e dalle variabili del vantaggio localizzativo di Weber. Possiamo quindi sostenere che è stato proprio lo sviluppo delle infrastrutture di trasporto in senso ampio a determinare il definitivo abbandono delle miniere e, di conseguenza, della

ferrovia (1962), quando sul mercato è entrata pirite, i cui costi erano notevolmente inferiori rispetto a quelli generati per l’estrazione ed il trasporto dal territorio bellunese.

Più critica è stata poi la questione dello sfruttamento idroelettrico. Se in Veneto le centrali idroelettriche inizialmente erano state sviluppate in prossimità dei principali centri abitati o delle attività industriali più importanti, soprattutto nel settore tessile (si pensi, ad esempio, alle centrali costruite dai Marzotto nella valle dell’Agno e a quelle dei Rossi in Val Leogra), soddisfacendo così le esigenze locali, in un secondo tempo, grazie all’intuizione di Giuseppe Volpi, fondatore della SADE2, esse hanno assunto la funzione di

vera e propria attività produttiva, producendo energia per la prima grande area industriale veneta (Venezia Marghera) e fungendo così da traino per lo sviluppo produttivo regionale. Infatti si può sostenere che esista un rapporto stretto di interdipendenza tra la produzione elettrica e lo sviluppo industriale in quanto l’una è indicatore e sussidio integrativo dell’altro. Il sistema delle centrali elettriche diventa così una forma di fabbrica diffusa sul territorio: la fabbrica non è più un corpo solido, un agglomerato fisico e tecnico con i suoi magazzini, capannoni e servizi, ma assume una dimensione territoriale, in cui in diversi luoghi ed in modalità diverse avviene la produzione dei beni e di qui viene diffusa capillarmente attraverso la rete di approvvigionamento. Si tratta di un modo di produrre legato a tre assiomi fondamentali: la produzione elettrica è legata indissolubilmente a realtà ricche di acqua (in particolare in montagna), in cui è possibile sfruttare la conformazione dei luoghi sia per la costruzione di bacini di raccolta delle acque, sia per utilizzare i salti d’acqua naturali per mettere in moto le turbine; la produzione elettrica si caratterizza come attività ad alta intensità di capitale e bassa intensità di lavoro (i lavoratori delle centrali e quelli che le costruirono vennero reclutati con contratti a termine e presto restituiti alle attività agricole); l’energia è prodotta laddove esistono le materie prime per produrla, un po’ come accadeva per le miniere, da cui discende la necessità di dotare almeno alcuni centri, là dove mancano completamente le condizioni necessarie e sufficienti alla vita degli operai (abitazioni in primo luogo, ma poi anche servizi di genere vario), di piccoli villaggi operai o di poche abitazioni per alloggiare la poca manodopera. Il risultato nel territorio bellunese è un sistema produttivo capillare che ha visto la costruzione delle centrali di Fadalto (1913-14), Nove vecchia e nuova (1915 e 1924), S. Floriano (1919), Castelletto (1923), Caneva (1927), Livenza (1930), la costruzione degli impianti dell’Isonzo, del medio Cordevole (con le centrali di Cencenighe, Agordo e La Stanga della potenza complessiva di 90.000kW) e dell’Adige (1936-1943) e del Piave - Boite - Maè - Vajont (1936-1963, anno del disastro del Vajont). Accanto al sistema produttivo si era formato un sistema insediativo complesso atto ad ospitare in prossimità del luogo di lavoro le maestranze, le famiglie e consentire loro di avere condizioni di vita almeno paragonabili con quelle dei centri di pianura. Così, accanto alle abitazioni costruite direttamente o fornite tramite convenzione con Enti Immobiliari3, alle colonie alpine e marine, si sono create strutture ricreative e sociali che hanno

portato allo sviluppo anche di veri e propri villaggi: il villaggio operaio di La Stanga in Comune di Sedico, quello di Soverzene e quello di Arsiè, i quali risultano legati rispettivamente ai bacini idrografici del torrente Cordevole, del fiume Piave e al bacino imbrifero del Brenta-Cismon.

Un ultimo caso è quello della ferrovia Calalzo-Cortina. Era già inserita in un progetto complessivo per l’accessibilità in area montana di epoca austro-ungarica, il cui intendimento era connettere Villach, Dobbiaco e Cortina ed aggiungeva una propaggine verso Pieve di Cadore (non realizzata). La porzione Calalzo-Cortina sarà però completata solo successivamente al primo conflitto mondiale, ad opera del genio militare italiano, andando a costituire un sistema di trasporto ferroviario a scartamento ridotto tra la rete nazionale e Cortina stessa, proseguendo da qui verso Dobbiaco. La sua funzione, al di là del periodo bellico, era proprio quella di favorire la permeabilità del territorio montano, inserendo Cortina in un sistema complessivo di relazioni che ne avrebbe dovuto supportare lo sviluppo economico, soprattutto in chiave turistica. Così, in occasione delle Olimpiadi invernali del 1956, la ferrovia è stata uno dei punti di forza per l’aggiudicazione dei Giochi da parte del Comune ampezzano, oltre a costituire un sistema di trasporto ideale per i materiali e per la popolazione che durante il periodo tra gli anni cinquanta e settanta aveva portato ad incrementi considerevoli di popolazione proprio in Val Boite. La dismissione (1964) è avvenuta quando la diffusione dell’automobile, la forte stagionalizzazione dell’attività turistica con relativo accorciamento del periodo di sfruttamento e, ancora una volta, la mancata domanda di mobilità locale connessa alla produzione di beni (per lo più concentrata nei fondo valle che hanno agito da attrattori permanenti essendo difficoltosa la mobilità sistematica) non hanno più alimentato la domanda di trasporto.

2 Società Adriatica Di Elettricità

Tra produzione e dismissione

I casi sopra descritti ci mostrano due tipologie di infrastrutture di rete, che sono state motore di sviluppo insediativo per il territorio, supportandone lo sviluppo economico e sociale, ma che, allo stesso tempo, rappresentano modelli differenti di strutturazione: ora si sono sviluppate in forma dispersa (reti lunghe ed elementi di accumulazione puntuali di dimensioni limitate), ora si sono giustapposte ad ambiti insediativi già esistenti, di cui sono state quindi la fonte di sviluppo ulteriore e perciò hanno generato espansioni compatte, a supporto di specifiche attività svolte nel territorio ospitante.

La dismissione è avvenuta chiaramente per alcuni motivi comuni.

Il primo elemento comune riguarda direttamente il modello di sviluppo, per cui la mancanza di utilizzatori locali (sia per l’energia che per le infrastrutture) ne ha definito la dismissione.

Nel caso delle ferrovie se ne è persa completamente la funzione, mentre è ancora possibile riconoscerne il tracciato, lungo il quale avevano trovato posto stazioni e caselli che ancora oggi permangono con differenti gradi di conservazione. Alcuni sono stati trasformati in abitazioni e quindi conservati, altri sono utilizzati come seconde case ed hanno così perso la funzione di nodi del sistema insediativo; altri, laddove il tracciato è stato recuperato a fini turistici (ferrovia Cortina-Calalzo), hanno conservato la funzione di nodi di riferimento della rete pur modificandone la funzione intrinseca (non più stazioni e caselli, ma strutture di servizio al turismo). Il tracciato, quando è recuperato, ne mantiene alcuni elementi caratteristici come la larghezza, il rapporto con gli elementi circostanti (recinzioni, attraversamenti, ecc.); se dismesso, risulta riconoscibile per contrasto rispetto al restante ambiente in quanto si riconosce per essere incolto e degradato sia rispetto agli ambiti urbani che, forse in maniera maggiormente visibile, rispetto alle aree agricole.

Il caso delle centrali elettriche è differente. Da un lato, l’attività idroelettrica provinciale risulta ancora essere importante (producibilità media annua di 2.225 GWh ovvero il 5% della produzione idroelettrica italiana), ma, allo stesso tempo, è cambiata completamente la sua funzione territoriale. L’elevato livello di automazione degli impianti ha portato ad un progressivo abbandono dei villaggi sorti a compendio delle centrali idroelettriche e conseguente cancellazione del rapporto tra realtà insediativa ed infrastruttura produttiva. Questo assume particolare rilievo laddove i villaggi sono in posizione isolata e scarsamente attrattiva paesaggisticamente per cui la loro appetibilità turistica è praticamente nulla. Allo stesso tempo la mancata capacità di sfruttare l’energia in loco per svilupparvi attività produttive, l’utilizzazione dell’acqua non tanto a scopi idroelettrici quanto per l’agricoltura di pianura, hanno portato ad una sorta di dismissione dell’intero territorio montano.

Il secondo elemento riguarda l’incapacità/impossibilità del governo locale di assumere decisioni in merito ai beni ubicati all’interno del proprio territorio.

Se da un lato è stato possibile recuperare la Calalzo-Cortina in quanto percorso in continuità con la ciclabile Cortina-Dobbiaco, la Bribano - Agordo, non interessando zone ad altrettanta vocazione turistica e non essendo stata proposta alcuna funzione alternativa, è stata completamente abbandonata. La funzione turistica sembra quindi essere subita dal territorio e non tanto sviluppata o per lo meno manca una visione strategica complessiva del tema.

Nel caso degli insediamenti sorti a ridosso dei centri per la produzione idroelettrica la dismissione ha riguardato gli edifici con funzione sociale (abitativa, ricreativa, ecc.) e non tanto quelli produttivi ancora perfettamente funzionanti. Così le strutture residenziali sono state cedute e sono tuttora utilizzate laddove sono inserite all’interno di un centro urbano consolidato (vedi Soverzene o Cencenighe). Spesso restano chiuse le strutture di servizio vero e proprio (mense, sale riunioni, edifici per uffici, posti medici, colonie, ecc.), la cui proprietà è rimasta al produttore elettrico per mancanza di capacità contrattuale e/o economica delle comunità locali. Quindi, ora in ambito urbano, ora dispersi sul territorio, esistono dei manufatti in attesa di nuove funzioni la cui utilizzazione però non può semplicemente riferirsi ancora una volta alla sola opzione turistica.

Il terzo riguarda la questione della funzione residuale degli elementi costituenti il sistema infrastrutturale. La perifericità di questi beni, l’eccesso di offerta insediativa dei Piani Regolatori che fino ad oggi hanno fatto di tutto per poter insediare all’interno del proprio territorio strutture turistico ricettive, la mancanza di informazioni chiare e la scarsa comunicazione attorno a questi beni, fanno sì che essi, perso il loro legame con l’infrastruttura (intesa come prodotto), rimangano solo come involucri. In realtà essi dovrebbero rappresentare l’opzione prima nelle scelte di sviluppo in quanto sono porzioni di territorio che, persa la propria funzionalità primaria, costituiscono una sorta di riserva di territorio, il quale, essendo già stato compromesso e considerando la sua rinaturalizzazione un costo eccessivo, attraverso un'adeguata

visione strategica (che ne deve definire le nuove funzioni ed il supporto economico) dovrebbe costituire la prima scelta su cui puntare nelle politiche di limitazione del consumo del suolo.

Innovare per rigenerare

Il processo di rigenerazione delle infrastrutture sembra quindi necessitare di un rinnovamento dei propri cicli di vita (Carta, 2013). Si tratta di individuare le modalità di riattivazione dei territori attraverso una immissione di questi beni nei nuovi/innovati cicli di vita delle città, dei tessuti insediativi, dei reticoli paesaggistici.

La rigenerazione deve puntare quindi sulla valorizzazione dei propri punti distintivi, tendenzialmente unici e non replicabili. Per le infrastrutture si tratta perciò di stabilire delle nuove specializzazioni e, attraverso la loro messa in rete, puntare sulla valorizzazione dei beni stessi in funzione dei propri tratti distintivi e peculiari. La sua capacità dovrà di conseguenza essere quella di portare su scala locale le istanze di una scala globale e viceversa.

Urbanisticamente parlando, ciò si realizzerà se, intervenendo su scala locale, accanto alla riqualificazione dell’oggetto infrastrutturale si svilupperà il sistema delle relazioni tra forma e funzione, luogo e innovate esigenze di sviluppo. Su scala territoriale, si realizzerà attraverso azioni di rafforzamento, riqualificazione, razionalizzazione e, dove necessario, di disegno delle reti funzionali e delle trame di relazione che connettono l’infrastruttura su scala locale con i sistemi produttivi a livello di reti territoriali integrate. Si può dunque pensare di costruire reti di luoghi o luoghi di rigenerazione a rete.

Essi saranno costituiti, in relazione alle tipologie specifiche di infrastrutture, in nodi caldi, quando la rigenerazione è facilitata dal fatto che le aree o le infrastrutture hanno ancora un valore residuale rispetto ai propri caratteri (come ad esempio le stazioni della Calalzo-Cortina o gli edifici connessi alle centrali ubicati all’interno degli ambiti urbani), e nodi freddi, se scarsamente appetibili (edifici ed infrastrutture isolati o in aree senza chiara vocazione).

Di qui si andranno a valutare le relazioni tra i diversi nodi della rete, verificando se c’è la possibilità di supportare lo sviluppo intervenendo proprio nella ricostruzione delle relazioni (link) tra domanda ed offerta, tra destinazioni d’uso possibili, tra tipologie di beni differenti da rigenerare.

Ecco quindi che l’innovazione risiede nel fatto che la rigenerazione dell’infrastruttura non si limiti tanto a rimodellare/ricostruire un involucro, quanto piuttosto a favorire l'incontro tra domanda e offerta di territorio, migliorando le capacità di management (catturare la domanda per attuare i cambiamenti e in funzione della qualità delle informazioni disponibili) per garantire processi di rigenerazione diffusi in quanto capaci di essere trasversali tra le diverse funzioni ed alle diverse scale.

Riferimenti bibliografici

AA.VV. (2012), Libro bianco sulla montagna veneta, Unione artigiani e piccola industria di Belluno, Belluno. Bove A., Manoli G., (a cura di, 2010), Paesaggi del lavoro nel Veneto. Le modalità di intervento nei luoghi della

produzione e del lavoro, pp. 1-252, Regione del Veneto, Venezia.

Bove A., (2008), Qualità delle trasformazioni per nuove forme di ospitalità in montagna, in Territorio e Ambiente