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Lorenza PERINI1

Sommario. Il difficile dialogo tra pratiche di housing e teorie del planning nel corso della storia della città e dell’abitare ha prodotto delle aree grigie, in cui il sapere delle donne sulla casa è entrato e lì è scomparso dalla scena. Gli studi di Dolores Hayden riportano alla luce queste esperienze di progettazione della città e delle relazioni di vicinato affidate alle donne nell’America di fine Ottocento. In uno scenario in cui alla città è richiesto di rinnovarsi in tutti i sensi, il recupero di questi saperi dimenticati e sottovalutati può essere d’aiuto oggi per nuove riflessioni e nuovi sguardi più ampi, più completi, più in grado di ragionare in maniera nuova sulla sostenibilità del vivere la dimensione urbana.

Parole chiave: Città, Pianificaizone, Abitare, Donne, Sostenibilità.

Abstract. The difficult dialogue between housing practices and theories of planning throughout the history of the city has produced a sort of gray area, in which women’s knowledge on the house was surrounded in, and then disappeared from the scene. At the end of the Seventies, some important studies by the American architect and historician Dolores Hayden brought to light experiences of designing the city and neighborhood relations assigned to women in the America of the late Nineteenth century. In a scenario in which nowadays the city is required to be renewed in every sense, the recovery of these forgotten and undervalued knowledge can help to re-think the urban planning and broaden the horizons and the chance of action in a more comprehensive sense.

Keywords: City, Planning, Housing, Women, Sustainability.

1. Abitare con / abitare socievole / abitare socializzante

Un’ipotetica “città della parità” rispetto ai diritti e alle possibilità di accesso di cittadine e cittadini a tutte le dimensioni della vita pubblica, è stata immaginata e rappresentata spesso da studiosi con assai poca fantasia come un luogo in cui l’abitare si risolve in grandi falansteri per la convivenza di più nuclei familiari e in una promiscuità di spazi 1 Dipartimento di Ingegneria dell’Informazione (DEI), Università degli Studi di Padova.

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erroneamente associata alla condizione di eguaglianza di diritti. Il disegno secondo cui assenza di confini tra spazio pubblico e spazio privato coincide con assenza di discriminazioni tra uomini e donne è ciò che sorregge le teorie del socialismo utopico di fine Ottocento, che consideravano la costruzione di comunità per l’abitare collettivo l’unica vera risposta ai mali della città industriale e alle diseguaglianze sociali e di genere che in essa albergavano.

Abbandonati definitivamente questi modelli all’inizio del XX secolo, oggi si tratta piuttosto di immaginare cittadini e cittadine inseriti in una prospettiva in cui “vivere mettendo in comune” piuttosto che “vivere in comune” possa essere la strada per giungere a soluzioni abitative “intelligenti” nel segno della sostenibilità e di una progressiva modificazione dei contesti in cui si dispiega vita quotidiana in ambito urbano. L’esperienza dell’utopia socialista tuttavia non è del tutto trascurabile. Il suo recupero ha messo in luce il ruolo delle donne nell’immaginare una città nuova e diversa, edificata sul principio di non discriminazione tra i sessi, principio che nel loro ragionamento avrebbe dovuto realizzarsi con i mezzi della pianificazione urbanistica.

Alcuni tra gli studi più importanti in questa direzione appaiono in area nordamericana a metà degli anni settanta, grazie alle ricerche di Dolores Hayden che, in un articolo dal titolo “What a non sexist city be like?” apparso sulla rivista “Sign” nel 1978, e quindi nel volume “The Grand Domestic Revolution” del 1982, riprende le teorie ottocentesche sull’abitare nella città industriale e le adatta alla città contemporanea valorizzando non tanto le pratiche più estreme dell’abitare in comune in un disegno di costruzione di un’anti-città per sfuggire ai mali del capitalismo, quanto piuttosto le pratiche riformiste di un abitare socievole/socializzante che si svolge tutto dentro il tessuto stesso della città, lavorando non sugli elementi architettonici che la compongono ma sulle relazioni che la sostanziano – da quelle tra cittadini e istituzioni a quelle di grana più sottile come quelle che legano tra loro i “vicini di casa”2. Gli studi di Hayden hanno portato un contributo altamente innovativo in questo campo, evidenziando la partecipazione attiva delle donne sulla scena pubblica della pianificazione urbana già nell’Ottocento e ricostruendo per loro una presenza non casuale né sporadica, ma con radici storiche profonde3. In “The Grand Domestic

Revolution” Hayden delinea la storia di due generazioni di donne che, investite del

ruolo di interpreti di un progetto politico e filosofico, cioè costruire dal nulla una comunità abitativa, riescono ad inventare letteralmente di tutto, dando vita ad una storia di immensa creatività e fecondità di idee, la cui origine era data dalla semplice quanto immediata constatazione di quanto le donne fossero effettivamente “diverse” dagli uomini nel fruire gli spazi del quotidiano e, per questo – per la sola ragione del sesso –, in quegli spazi e rispetto a quelle pratiche esse fossero discriminate.

La tecnologia, le soluzioni innovative e ardite, il design, l’automazione: per le pioniere americane della pianificazione del XIX secolo la creatività era la via di fuga da mettere in atto rispetto ad una condizione di inferiorità e costrizione nello spazio domestico cui le donne erano costrette dalla Storia e che si rivelava senza senso, dettata dagli stereotipi di un pensiero retrogrado e stereotipato. Il valore del contributo delle

2 Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane,(Milano: Edzioni di

Comunità, 1961) (riedito da Einaudi nel 2009 con prefazione di Carlo Olmo). L’autrice introduce il concetto di “neighborhood planning”.

3 Dolores Hayden, The grand domestic revolution. A history of feminist designs for American homes, neighborhoods and cities, (Cambridge (Ma): Cambridge University Press, 1982). Gli studi di Hayden

spostano l’origine delle pratiche di vicinato socializzante dalla Danimarca di metà anni settanta del Novecento all’America di fine Ottocento.

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architette “pioniere” alle teorie della pianificazione, come sottolinea Hayden, non è tuttavia misurabile in termini di soluzioni utili proposte né di progetti effettivamente realizzati. Esso ha valore come elemento discorsivo nuovo che rompe la narrazione tradizionale e quindi in termini di presa di coscienza che la società compie nel momento in cui decide di affidare proprio ad una donna le decisioni relative alle forme e ai modi della costruzione e dell’organizzazione dell’abitare.

2. Le progettiste di Utopia. Costruire case senza cucina

Nel sistema comunitario socialista ottocentesco le donne sono riconosciute “competenti in materia di urban planning” perché viene attribuito loro un sapere della casa “per esperienza” che agli uomini non è invece storicamente attribuito. Ecco che quindi appare naturale nelle comunità socialiste affidare ad una donna la pianificazione della “città nuova”, opposta alla città esistente che ha dimostrato secondo la loro visione di “non funzionare”. Il compito, tuttavia, appare improbo, poiché i luoghi prescelti per dare forma alla nuova città di Utopia non di rado si rivelano degli anfratti inaccessibili, luoghi non privi anche delle risorse più elementari per installarvi strutture atte alla vita. Utopico si rivelerà pensare che per liberare il tempo delle donne, oppresse dalla cura della famiglia, sia possibile e auspicabile costruire una casa senza cucina (Hayden 1978, 2004)4, in cui rifornimenti di cibo siano affidati ad un sistema di cucine comuni e quindi di catering oppure avvenga tramite fantasiosi sistemi di tubi sotterranei direttamente collegati ad appositi depositi comuni (è il caso di Alice Austin che progetta e in parte realizza all’inizio del Novecento la comunità di Llano Del Rio, nei pressi di Los Angeles); utopico si rivelerà pensare che orti rigogliosi per l’auto- sostentamento di una comunità di migliaia di persone possano crescere dal nulla in mezzo al deserto, o che nel clima torrido del sud della California sia plausibile costruire edifici di pietra con muri spessi come nella vecchia Inghilterra (è il caso di Marie Stevens Hawland e del progetto per la comunità di Topolobampo nel Nuovo Messico).

Nonostante la scarsissima percentuale di realizzazione concreta di questi progetti, agli occhi dei comunitari il ruolo delle donne pianificatrici non ne esce tuttavia compromesso, anzi gran parte di loro progetti si fa occasione di discussione pubblica presso le stesse comunità e presso altre vicine, fertile terreno su cui innestare nuovi ragionamenti su un abitare che contempli le relazioni tra “vicini di casa”. Nessun architetto uomo si era posto prima le domande che le donne architetto andavano ponendo allora alla società: a) Nella città le donne vivono come gli uomini l’interscambio tra spazio pubblico e spazio privato o c’è qualche differenza che può essere utile evidenziare, sottolineare e/o nel caso provare ad eliminare? b) Quello che le donne fanno nello spazio domestico della casa è lavoro vero e proprio: perché non viene considerato come tale, al pari del lavoro fuori casa svolto dagli uomini? c) Quante possibilità hanno le donne di fruire realmente dello spazio pubblico della comunità inteso in termini di liberazione di spazio per sé se sono oberate dal lavoro domestico e se la gestione di quello spazio pubblico alla fine le vede ancora una volta uniche protagoniste sotto forma di lavoratrici?

4 Dolores Hayden, Redisigning the American Dream. Gender, Housing and Family Life, (New York-

London: Norton&Company, 2004); Id, What would a non sexist city be like? Speculation on housing, urban

design and human work, in Feinstein, S. S., Servon, L. (a cura di), Gender and planning. A reader, (New

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Domande semplici che le progettiste formulano con grande forza proprio nel pieno della rivoluzione industriale, in un momento della storia in cui, se da un lato evolvono velocemente i contesti produttivi, gli ambiti e i rapporti di lavoro, le fortune economiche, gli standard di vita, i sistemi di trasporto che rendono più evidenti le differenze tra città e campagna mutando la forma stessa delle città, dall’altro le donne, nel nuovo così come nel vecchio mondo, sono invece ancora profondamente lontane dal veder riconosciuti i loro diritti di cittadine. Pur lavorando e faticando alla pari degli uomini, esse non votano, non rappresentano, non hanno personalità giuridica, non contano socialmente, non hanno voce.

E se le pianificatrici mettono in campo il loro sapere tecnico-scientifico e, come soluzione alle discriminazioni sociali, immaginano scenari che prefigurano l’automazione quasi completa della scena domestica, lo fanno con lo spirito di chi sa che non basterà, ma vuole mettere comunque a tema un problema, rendere feconda un’utopia, cogliendo l’accezione per cui l’utopia è certamente qualcosa di immaginario e proiettato in un futuro dai contorni vaghi, ma nel suo formarsi intercetta anche il presente, ha una parte di razionalità al suo interno che segnala un problema, è potente strumento di ragionamento se non di azione concreta (Choay 2008)5.

In questa prospettiva, l’organizzazione scientifica dello spazio abitativo e del lavoro domestico diviene il fulcro dei progetti delle “utopiche” e la soluzione che propongono è la più provocatoria e simbolica possibile: per liberare le donne dalla schiavitù della cura bisogna eliminare dalla casa l’elemento responsabile primario dell’oppressione, vale a dire la cucina. E questo faranno nei loro progetti. Le case di Utopia nasceranno tutte senza cucina. Secondo il loro ragionamento in questo modo si compirebbe uno slittamento e portare nello spazio pubblico (e quindi rendere “comune”) una serie di funzioni che prima erano rigorosamente individuali e rinchiuse nel privato della casa, cosa che pone la necessità di attribuire a tali funzioni di cura un nuovo significato e quindi ridiscutere i ruoli. Come organizzare la riproduzione in termini di “tempo di lavoro” senza dare per scontato che siano le donne a compierla? Non si tratta solo di ridistribuire i compiti, si tratta di organizzare le azioni della cura in termini diversi, di risparmio non solo di materie prime e di denaro, ma di tempo, di tempo che viene così liberato per sé.

Poiché storicamente le donne hanno sempre occupato lo spazio domestico ventiquattro ore al giorno, nessuno ragionevolmente si era mai posto il problema di come esse organizzassero le loro vite e di quanto potesse valere il loro tempo di cura in termini di una sua traduzione in salario.

Dal momento in cui però parte consistente di queste funzioni – e la nutrizione è una fetta importante del lavoro riproduttivo – viene socializzata nello spazio pubblico, il lavoro domestico diviene un lavoro come gli altri, è produzione di beni tanto quanto costruire utensili o coltivare i campi e non più esclusivo campo di azione delle donne, ma a rigor di logica possono farlo tutti, anche gli uomini.

3. Le riformiste di Utopia. Hull House e altri modi di abitare la città

Al di fuori dell’esperienza delle comunità socialiste, il cui fine sostanzialmente era di de-costruire e negare la città industriale, intesa sia dal punto di vista delle relazioni umane che dal punto di vista delle realizzazioni spaziali, a favore di un’ipotetica città