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Ora, la domanda è: come possiamo contrastare tutto questo? Quali risposte possiamo

Taking Care of the World Elena PULCINI

2. Ora, la domanda è: come possiamo contrastare tutto questo? Quali risposte possiamo

dare alle patologie e alle sfide del nostro tempo?

La prima risposta consiste a mio avviso nel provare a sanare la scissione tra la sfera cognitiva e la sfera emotiva, nel ristabilire un contatto con le nostre emozioni, per riappropriarsi della capacità di immaginare il futuro. Si tratta in altri termini di attivare la facoltà dell’immaginazione come ciò che, come ci ricorda Hannah Arendt, ci consente di emanciparci dal presente10: rendendoci capaci sia di concepire i possibili scenari apocalittici del futuro, sia di pensare una diversa immagine del mondo e scenari alternativi per le generazioni future, la cui vita dipende da ciò che noi siamo in grado di fare, qui ed oggi.

Questo richiede però, non solo di ricomporre la scissione che ci attraversa interiormente, ma anche, per accennare ad un tema che non a caso assume sempre più rilievo nella riflessione contemporanea, di ritrovare la nostra capacità di empatia: vale a dire quella capacità di capire e soprattutto “sentire” l’altro11, che è stata erosa dall’individualismo utilitaristico e cieco dell’homo oeconomicus. Un’empatia che oggi peraltro non può limitarsi al prossimo e al vicino, ma deve essere inevitabilmente estesa all’altro distante nel tempo, alle generazioni future: a coloro che non hanno volto né voce, e non hanno la possibilità di rivendicare i propri diritti.

Ci confortano in questo senso alcune proposte attuali, come quella di Jeremy Rifkin, François de Waal e Peter Singer12 che vedono l’età contemporanea come un’epoca di rinascita del legame empatico tra gli uomini, se non altro in virtù del fatto che la globalizzazione ci rende tutti, per la prima volta, un’unica umanità, posta di fronte alle stesse sfide e allo stesso destino. L’età globale in altri termini consentirebbe di valorizzare pienamente le recenti scoperte delle neuroscienze relative alla oggettività del legame empatico tra gli esseri umani (alludo, evidentemente, alla nota teoria dei neuroni-specchio): se è vero che non siamo solo animali “economici”, unicamente preoccupati del nostro interesse egoistico, ma anche capaci di sentimenti come la simpatia, la generosità, la compassione, ciò dovrebbe valere ancor più nel momento in cui ci riconosciamo simili, membri di uno stesso genere umano; tutti resi vulnerabili, potremmo aggiungere, dalle inedite sfide che abbiamo di fronte.

10

H. Arendt, Lectures on Kant’s Political Philosophy, Chicago University Press 1982; trad. it. Teoria

del giudizio politico, Il Melangolo, Genova 1990. 11 L. Boella, Sentire l’altro, Cortina, Milano 2006.

12 J. Rifkin J., The Empathic Civilization, Penguin Books 2009; trad. it. La civiltà dell’empatia,

Mondadori, Milano 2010, F. De Waal, L’âge de l’empathie, Payot, Paris 2010; trad. it. L’età dell’empatia, Garzanti, Milano 2011; P. Singer, The Expanding Circle. Ethics, Evolution and Moral Progress, Princeton University Press, 2011.

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Possiamo insomma individuare una speranza nel fatto che, in virtù dell’interdipendenza degli eventi e delle vite che la caratterizza e che crea inedite connessioni tra gli individui del pianeta, l’età globale possa configurarsi come l’età dell’empatia, nella quale gli esseri umani riscoprono l’irriducibilità del legame reciproco e della comune appartenenza.

Tuttavia, mi preme aggiungere subito, constatare la realtà dell’empatia, come dato biologico e naturale, non è sufficiente. Se è vero che oggi, anche attraverso le acquisizioni scientifiche, si dà la possibilità di ripensare la struttura stessa del soggetto, ipotizzando un individuo capace di riconoscere l’altro come dimensione costitutiva, è vero anche che questo non si traduce immediatamente in azione e impegno. C’è bisogno dunque di un ulteriore passaggio che è essenzialmente etico: in quanto presuppone il momento attivo della decisione e della scelta. L’empatia in altri termini è la condizione necessaria per rendersi conto dell’esistenza dell’altro e degli effetti che il nostro agire può avere sull’altro, ma non è di per sé sufficiente, perché non è mobilitante. Abbiamo bisogno dunque di compiere una scelta responsabile.

Era appunto orientata in questo senso la proposta avanzata da Hans Jonas già nella seconda metà del secolo scorso: la proposta di un’etica del futuro come etica della

responsabilità13. Di fronte allo spettro della “perdita del mondo”, non possiamo che farci carico del futuro e agire responsabilmente restituendo senso e scopo al nostro agire. Responsabilità vuol dire infatti non solo rendere conto del proprio agire, ma anche “rispondere a”, al muto appello che proviene dalle generazioni future, dai non- ancora-nati e dal mondo vivente, minacciati nella loro stessa sopravvivenza. “Rispondere a” vuol dire riconoscersi all’interno di una relazione, pensarsi, diversamente dall’homo oeconomicus, come un soggetto in relazione con l’altro, indipendentemente dal fatto che questo altro sia il vicino e il familiare, o il distante nello spazio e nel tempo. E soprattutto vuol dire agire, mobilitarsi, impegnarsi.

Ma questo richiede, anche rispetto a Jonas, un ulteriore e decisivo passaggio: che vorrei definire come uno slittamento dalla responsabilità alla cura. Se non vuole infatti rischiare di fermarsi ad un astratto appello al dovere, il principio responsabilità deve tradursi in una prassi, in una pratica concreta e capillare: vale a dire nella capacità di

prendersi cura dell’altro, di calarsi nell’esperienza.

A partire dal suo significato etimologico, l’idea di cura contiene in sé questo momento attivo, pratico, fattuale. Cura vuol dire infatti, allo stesso tempo,

preoccupazione e sollecitudine: vuol dire cioè in primo luogo saper cogliere le urgenze

e le priorità che abbiamo di fronte, e farle oggetto di attenzione. Perché l’attenzione è il contrario appunto dell’incuria e dell’indifferenza, è ciò che ci spinge a vedere il male dietro l’innocenza, come nel caso dei piccoli gesti quotidiani, a riconoscere i responsabili dietro la maschera dell’anonimato, a smascherare i pericoli celati dietro eventi che i poteri forti globali (economico, politico) tendono a spacciare come innocui. E in secondo luogo, vuol dire contemporaneamente attivarsi, mobilitarsi per dare una risposta, mettendosi in gioco e investendo energie per rispondere ai rischi che incombono sull’umanità e sul pianeta.

Prendersi cura di qualcuno o di qualcosa, della persona amata o dell’ambiente, dei propri figli o delle generazioni future, implica l’assunzione di un impegno, quotidiano e costante. La cura non può essere solo qualcosa di episodico che si riserva a circostanze particolari o addirittura eccezionali, come l’attività assistenziale (a bisognosi e malati) o l’aiuto volontario alle vittime di una catastrofe, di una guerra, di un’epidemia. E’

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questo a mio avviso il messaggio, sia pure ancora non del tutto esplicito, che pertiene all’etica della cura, che è nata dalla riflessione femminile e femminista, per correggere le patologie dell’individualismo e colmare le carenze e le astrazioni dell’etica liberale14. E’ necessario spingere questo messaggio fino alle sue più radicali conseguenze, e concepire la cura come un atteggiamento che vorrei definire olistico: capace, cioè, di investire tutte le sfere della vita, dal privato, alla sfera professionale, alla politica, all’ambiente.

Non si tratta tuttavia, vorrei subito precisare, di auspicare un banale altruismo: è tempo di superare la contrapposizione egoismo/altruismo, tra l’essere per sé e l’essere per l’altro, per riconoscere piuttosto la realtà e la necessità dell’essere con l’altro, a partire dal riconoscimento della nostra stessa vulnerabilità, della fragilità dell’umano15 e della costitutiva interdipendenza. La cura presuppone un diverso modo di sentire e di agire che si cala nelle piccole cose, che scaturisce dalla consapevolezza che, in quanto umani, siamo esseri vulnerabili, tanto più in un mondo, come quello globale, che ci espone appunto a sfide inedite. In questo senso, si tratta senza dubbio di una prospettiva molto esigente; ma non nel senso che si debba agire come soggetti di cura 24 ore su 24, bensì nel senso che la cura deve diventare uno stile di vita, un preciso sguardo sul mondo che privilegia la condivisione e la cooperazione; e che, soprattutto, si fa carico di quella difficile arte che è l’essere-in-comune per garantire alle generazioni future non solo una vita, ma una vita degna di essere vissuta.

14 C. Gilligan, In a different voice, Harvard University Press, Cambridge MA 1982; trad.it. Con voce di donna, Feltrinelli, Milano 1987; J. Tronto, Moral Boundaries, Routledge, London-New York 1995; trad. it. Confini morali, Diabasis, Reggio Emilia 2006; V. Held, The Ethics of Care: Personal, Political, and Global,

Oxford University Press, 2006.

15 Sulla vulnerabilità, rinvio al mio La cura del mondo (Terza Parte); mi limito inoltre a citare M.

Nussbaum, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge Univ. Press, 2001; trad. it.

L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004; J. Butler, Precarious Life, Verso, London-New York

131 Scienza, genere e società. Prospettive di genere in una scienza che si evolve

A cura di S. Avveduto, M. L. Paciello, T. Arrigoni, C. Mangia, L. Martinelli CNR-IRPPS e-Publishing, 2015

doi 10.14600/978-88-98822-08-9-18