• Non ci sono risultati.

La globalizzazione ha mutato profondamente lo scenario antropologico e sociale,

Taking Care of the World Elena PULCINI

1. La globalizzazione ha mutato profondamente lo scenario antropologico e sociale,

ponendoci di fronte a sfide inedite ed aprendo necessariamente nuove prospettive sul piano etico e politico2. Si potrebbe legittimamente affermare che le due sfide fondamentali che siamo chiamati ad affrontare sono prioritariamente due: la sfida sociale, vale a dire l’emergere della figura dell’altro come diverso; e la sfida ecologica, che coinvolge il destino dell’umanità e del pianeta.

In questo contesto, concentrerò la mia attenzione sul secondo aspetto, vale a dire sulla crisi ecologica, le cui manifestazioni sono sempre più evidenti: dal riscaldamento climatico, all’impoverimento della biodiversità, dall’erosione delle risorse all’uso indiscriminato dei beni comuni. Non posso qui, ovviamente, entrare nel merito delle cause di tutto questo. Mi preme però, richiamare, sia pure brevemente, due momenti della riflessione novecentesca in cui questo tema emerge con forza:

1. la denuncia di quell’inedito problema che già negli anni 60 il biologo Garrett Hardin chiamava la “tragedia” dei beni comuni; tema successivamente ripreso dal

1 Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università di Firenze. elena.pulcini@unifi.it.

2 Il testo pionieristico su questo tema è senz’altro U. Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine

andere Moderne, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1986; trad. it. La società del rischio, Carocci, Roma 2000. Per

uno sviluppo dei temi trattati qui rinvio al mio La cura del mondo. Paura e responsabilità nell’età globale, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

126 Pulcini / Prendersi cura del mondo

premio Nobel Elinor Olstrom3 che ha dato origine alla rinascita di un ampio e acceso interesse da parte di vari approcci disciplinari;

2. le diagnosi filosofiche riconducibili alla grande stagione della filosofia della tecnica di origine heideggeriana. Alludo a filosofi come Hans Jonas, Günter Anders ed anche Hannah Arendt4 che, nella seconda metà del 900, riflettevano sulle cause di tutto questo, denunciando gli effetti negativi prodotti dallo sviluppo della tecnica (dal problema ambientale alla minaccia nucleare, alle conseguenze indesiderate delle biotecnologie)5. L’origine del problema, essi suggeriscono, non sta nella tecnica – che è di per sé asimbolica e non ha il compito di produrre senso – quanto piuttosto nel soggetto, cioè nella vocazione all’illimitatezza del soggetto moderno: un homo faber, un soggetto pur sempre prometeico, che ha tuttavia smarrito quella foresight, quella stessa capacità di previsione e di progettazione che lo caratterizzava all’origine della modernità6. Anders in particolare ci restituisce un’immagine molto efficace: le patologie del soggetto moderno sfociano in una scissione tra il fare e il prevedere, tra il sentire e l’immaginare (ciò che egli chiama il “dislivello prometeico”) la quale si traduce nella perdita del senso e dello scopo dell’agire. In altri termini, noi agiamo, facciamo, produciamo senza più porci il problema delle conseguenze del nostro agire. E da questo derivano rischi inediti che riguardano l’umanità intera e il destino stesso del mondo: dalla minaccia nucleare alla crisi ecologica. Per la prima volta nella storia, l’umanità ha creato le condizioni per la propria autodistruzione. Per la prima volta l’idea stessa di futuro, che costella la nascita stessa della modernità, non è più data, non è più scontata, poiché è minacciata, nostro malgrado, da prospettive apocalittiche che purtroppo non fanno più parte solo di un immaginario millenaristico o della science

fiction americana.

Ora, l’aspetto sconcertante è che, ancor oggi, di tutto questo si parla pochissimo, o se ne parla con eccessiva enfasi solo in occasione dei sempre più ricorrenti disastri ecologici, per poi riconsegnarli di volta in volta ad un rassicurante oblio. I mass media ci mostrano ciclicamente le immagini di paesi devastati da tsunami e inverni glaciali, di terre inaridite e di ghiacciai polari che si sciolgono, di inondazioni improvvise ed estreme che causano danni gravissimi all’equilibrio del pianeta e alla vita delle popolazioni. Ne deriva indubbiamente una condizione di angoscia diffusa, che tuttavia non produce risposte e tantomeno una vera e propria mobilitazione. Il problema non compare nell’agenda politica degli Stati se non in una posizione residuale, come testimonia il fallimento dei vari summit sul clima; sebbene qualche tenue speranza ci venga dagli ultimi e recentissimi vertici, nel 2014, di New York e di Parigi. C’è comunque una scarsissima informazione massmediale sia sui summit stessi che sui vari Forum mondiali, quali unici soggetti sociali sensibili al problema.

3

G. Hardin, “The tragedy of the commons” in Science, 1968, n. 162; E. Ostrom, Governing the

Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University Press, Cambridge 1990;

trad.it. Governare i beni collettivi, Marsilio, Venezia 2006.

4 H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung. Versuch einer Ethik für die technologische Zivilisation, Insel,

Frankfurt a. M. 1979; trad. it. Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1990; H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, 1958; trad. it. Vita activa. La

condizione umana, Bompiani, Milano 1964; G. Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, Beck, München

1956; trad.it. L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, Torino 2007.

5 Resta molto valido su questo aspetto l’ormai classico J. Ellul, La technique ou l’enjeu du siècle, Colin,

Paris 1954; trad. it. La tecnica rischio del secolo, Giuffré, Milano 1969.

6

Per la figura del soggetto prometeico moderno è imprescindibile Th. Hobbes, Leviathan, 1651; trad. it.

Pulcini / Prendersi cura del mondo 127

Il silenzio e la disattenzione, però, non caratterizzano solo la politica e i mass media, che ovviamente seguono la logica strumentale dei loro interessi, ma sembrano regnare anche tra noi, individui e cittadini di un mondo rispetto al quale ci poniamo sempre più come passivi spettatori. Sembriamo incapaci di comprendere che anche noi, e non solo i poteri economici globali e locali, facciamo la nostra parte e contribuiamo a quanto sta accadendo con le nostre piccole e, apparentemente insignificanti, azioni quotidiane. Sembriamo inconsapevoli del fatto che piccoli gesti, di per sé innocenti, causano grandi mali: per esempio, c’è forse un gesto più innocente di quello che ci spinge a cercare refrigerio, rientrando in casa, dall’immersione nell’insopportabile calura estiva della nostra città? Eppure, quel gesto innesca un circolo vizioso, per il quale se accendo il condizionatore, aumento di conseguenza la temperatura dell’aria esterna, rendendo la calura ancora più insopportabile e trasformando la città in una camera a gas. E questo vale anche per molti altri gesti che compiamo ogni giorno: come innaffiare il nostro giardino con l’acqua potabile, lasciare rifiuti su una spiaggia, preferire la macchina all’autobus per piccoli spostamenti, trascurare la raccolta differenziata dei rifiuti.

Con un passaggio forse un po’ ardito, si potrebbe applicare oggi alla sfida ecologica il concetto di “banalità del male” con cui Hannah Arendt aveva avuto una delle grandi intuizioni del ‘9007: l’idea cioè che il male nasce da azioni apparentemente innocue, che compiamo magari distrattamente, in modo automatico e inconsapevole.

Ma dove risiede, oggi, la ragione di questa inconsapevolezza? La risposta a questa domanda ci rimanda di nuovo alla struttura del soggetto, o meglio alla cecità di quella figura egemone e rappresentativa del soggetto moderno che è l’homo oeconomicus: orientato unicamente al perseguimento dell’interesse individuale, motivato dalla passione acquisitiva e indifferente a tutto quello che riguarda il bene comune. La nostra

cecità, per usare l’eloquente termine di José Saramago8, deriva dalla sia pur confusa percezione del fatto che affrontare queste sfide significa rimettere in discussione quelle che consideriamo le nostre conquiste, i privilegi consolidati, gli stili di vita, il benessere materiale; o peggio ancora, la ricchezza e il profitto illimitati.

Per lo più mettiamo dunque in atto potenti meccanismi di difesa: come il diniego e

l’autoinganno. Il diniego, seguendo la definizione che ne da Freud9, è un meccanismo più sottile e diverso dalla rimozione, la quale implica di fatto l’oblio di un contenuto scomodo o doloroso. Noi oggi, invece, siamo consci di ciò che accade, siamo informati sui rischi globali, noi sappiamo, conosciamo la realtà che ci circonda. D’altra parte, come potrebbe essere altrimenti quando siamo circondati da protesi informatiche di ogni tipo che ci tengono up to date, aggiornati in tempo reale sugli eventi? Tuttavia, allo stesso tempo, deneghiamo la realtà, impediamo cioè che questo sapere, che questa conoscenza arrivino al nostro sentire, alla nostra sfera emotiva; forse anche perché la nostra psiche è incapace di concepire un evento enorme e surreale come la distruzione dell’umanità e del pianeta.

Sia detto per inciso, forse solo l’arte e l’immaginario artistico sono in grado di rappresentare quella che i filosofi del ‘900, di cui parlavo prima, chiamavano la “perdita del mondo” (si pensi al romanzo The Road di Cormac McCarthy del 2006, denso di scenari apocalittici, da cui è stato anche tratto un bellissimo film). Ma al di fuori dell’arte, ciò che prevale è, una scissione tra la dimensione cognitiva e quella

7 H. Arendt, Eichmann in Jerusalem, 1963; trad. it. La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2001. 8 J. Saramago, Cecità, Feltrinelli, Milano 2013 (tit. orig. Ensajo sobre a cegueira).

9

Sul concetto di “diniego” a cui Freud torna più volte nelle sue opere, cfr. S. Cohen, States of Denial, Polity Press, Cambridge 2001; trad.it. Stati di negazione, Carocci, Roma 2002.

128 Pulcini / Prendersi cura del mondo

emotiva: quel “dislivello prometeico”, a cui accennavo sopra, che impedisce una piena consapevolezza del problema. E se il diniego funziona soprattutto rispetto alla minaccia nucleare, l’autoinganno, che è una particolare forma di diniego, è un meccanismo di difesa più attivo, che funziona in particolare rispetto alla sfida ecologica. Esso consiste infatti nel voler credere ad ogni costo qualcosa che contrasta con le informazioni di cui disponiamo, perché, in maniera simile al meccanismo dello whishful thinking, si desidera che non sia vera; perché riconoscerla come vera significherebbe appunto rimettere in discussione i privilegi e lo stile di vita a cui siamo abituati. Come avviene, per fare un caso esemplare, con la tendenza a ignorare o minimizzare gli effetti del

global warming, di cui pure vediamo ogni giorno segni sempre più inquietanti.