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Generazione Kifaya Si può dire “basta!”?

Le disparità sociali, l’enorme gap tra ricchi e poveri, l’elevata disoccupazio- ne e la conseguente mancanza di prospettive future – di trovare un lavoro e formare una famiglia – anche o soprattutto tra i giovani diplomati o lau- reati, si scontrano con la corruzione e il malgoverno radicati, con i privilegi per pochi che generano senso di esclusione e marginalità tra le generazioni più giovani. Inoltre, per molti di loro, il principale contatto con lo Stato è avvenuto soprattutto tramite le temute forze di polizia e oggi avviene con i militari dell’esercito, i quali hanno sempre goduto di grande reputazione, scalfita solo in parte dalla loro recente ostilità e violenza. L’apparato coer- citivo della polizia in modo particolare è divenuto, in effetti, un braccio amministrativo dello Stato perché ha esteso il suo potere di controllo, abu- sandone, a quasi tutti gli ambiti della vita quotidiana. Con l’arrivo al mini- stero dell’Interno, nel 1997, del generale Habib al-’Adli – anche lui cacciato dalla rivolta popolare del 2011 e arrestato –, è stato rafforzato enormemente il ruolo della polizia nello spazio politico (El-Chazli, Hassabo, 2013, p. 189; El-Ghobashy, 2011).

Viene spesso sottolineato come i giovani, quale categoria sociale, rap- presentino un fenomeno urbano in Egitto, degli attori collettivi “manipola- ti” da un sistema educativo “moderno” che serve a produrre e prolungare il periodo della giovinezza. Si tratta perlopiù di single che hanno difficoltà a risparmiare per sposarsi, ma che sono più liberi delle donne nell’attivismo, frequente dentro le università pubbliche e private dove hanno spesso stu- diato (Onodera, 2009).

I campus universitari rappresentano gli spazi tradizionali per la mobili- tazione giovanile in Egitto, seppur con fasi alterne. Nel periodo coloniale i giovani egiziani erano in testa nelle battaglie nazionaliste per l’indipenden- za, già durante la rivolta popolare contro gli Inglesi nel 1919. In particolare, gli studenti di sinistra furono poi al centro dei movimenti di protesta nelle università durante gli anni Sessanta e Settanta (cfr. il saggio di Patrizia Man- duchi), specie dopo la guerra dei Sei giorni del 1967 e quella del 1973 contro Israele. Gli anni Ottanta hanno mostrato la crescita dell’attivismo islamico presso i giovani, mentre gli anni Novanta segnano una fase di smobilita- zione, coincidente peraltro con le severe restrizioni imposte dal governo ai gruppi islamici. Una strategia che non ha lasciato indenni i movimenti più secolarizzati, poiché ha ristretto lo spazio d’azione politica e di espressione del dissenso più in generale.

L’attivismo giovanile dei primi anni Duemila sarebbe però emerso fuori dai campus, chiedendo spazi pubblici dove potersi organizzare e manifesta- re liberamente il proprio dissenso politico. I giovani si mobilitano in quegli anni per la causa palestinese, durante la seconda Intifada (come fecero per

la prima nel 1987), contro la guerra in Iraq (2003) e nella corsa alle elezioni presidenziali e parlamentari nel 2005, in particolare col nuovo movimen- to per le riforme e il cambiamento, Kifaya. Proprio allora, secondo Sarah Ben Néfissa (2008, p. 24), il voto islamista, che premia ben 88 candidature “indipendenti” nel 2005 (i fm entrano così nell’opposizione legale), pur inserendosi nella logica clientelare anche se con modalità originali, avrebbe avuto il vantaggio di dare senso e significato all’azione politica perché por- tatore di un progetto, per quanto discutibile. Sarebbe stato un voto di scelta e di opposizione – laddove di scelta si può propriamente parlare –, non (o non solo) un voto identitario, come è stato anche semplicisticamente eti- chettato da certa analisi politologica o mediatica.

Ma, nonostante il ruolo importante che la religione può occupare nella vita di molti giovani attivisti intervistati (negli studi qui citati e durante la mia ricerca sul campo nel novembre 2013), questi provengono soprat- tutto da un’opposizione secolarizzata che è stata spesso trascurata negli studi sull’opposizione politica nei paesi arabi. C’è da evidenziare come il conflitto sia nuovamente entrato nelle università, investite anche dall’atti- vismo islamista dei fm, ma come abbia già subito una battuta d’arresto con la perdita delle più recenti elezioni studentesche e dopo il rovesciamento del governo Morsi.

Esiste comunque un’esperienza giovanile comune di solidarietà e condi- visione dei temi caldi rivendicati dalla società civile; non di rado attivisti lai- ci e di sinistra si sono ritrovati fianco a fianco, magari in carcere, con membri

3. Dopo il giovedì nero (25 maggio) del 2005, quando le forze di sicurezza hanno sferrato un violento attacco ai manifestanti, inclusi donne e passanti, presso il sindacato dei giornali- sti al Cairo. Cfr. El-Chazli, Hassabo (2013, pp. 50-1).

dei fm durante la loro detenzione. Il movimento Kifaya ha tessuto legami diretti con partiti politici non autorizzati e gruppi associati, come il Partito socialista trotzkista rivoluzionario, il neo-nasserista Karama (Dignità) e altri partiti di sinistra, il liberale Ghad (Domani), l’islamista Amal (Lavoro) e in minor misura il partito centrista islamista Wasat (Centro). La maggioranza dei membri del movimento erano generalmente istruiti, perlopiù uomini non sposati sui 20 anni, appartenenti a famiglie delle classi medie urbaniz- zate, e si conta anche una discreta partecipazione femminile. Nei primi anni l’affiliazione era stimata dagli stessi attivisti intorno ai 500 membri, con 50- 100 militanti di punta al Cairo (Onodera, 2009, p. 49). Il gruppo è emerso come un potente attore collettivo dopo le proteste, seguite da numerosi ar- resti nel 2005-06, quando Kifaya cantava l’inno nazionale trasformandolo in «paese mio, paese mio, hai bisogno di una rivoluzione»3.

Aparte queste esperienze, è prevalsa poi per molti la disillusione, an- cora riscontrabile tra molti attivisti da me incontrati al Cairo e ad Ales- sandria nel novembre 2013, oltre alla contestazione dell’organizzazione interna al gruppo, tra giovani partigiani e non partigiani. Il settore più militante si sarebbe comunque ricompattato tramite precedenti network e contatti personali. Alcuni hanno invece raggiunto o sono tornati in altri partiti politici e gruppi, come Karama, il Partito del lavoro o quello dei socialisti rivoluzionari.

A fine dicembre 2006 il primo sciopero nazionale dei lavoratori, seguito da diversi scioperi e mobilitazioni in ambito operaio, a partire dall’impian- to tessile di Mahalla al-Kubra nel 2008, danno il via all’intensificazione di forme di azione collettiva, con scioperi del lavoro, della fame, con petizioni e sit-in davanti ai ministeri o alle sedi amministrative e governative, coin- volgendo anche nuovi gruppi professionali (insegnanti, medici, avvocati, guide turistiche ecc.). La strategia delle proteste rapide, secondo tattiche di guerriglia urbana, ha spostato inoltre i luoghi più classici, quelli normal- mente scelti dagli oppositori di “sistema”, nei diversi quartieri, nei luoghi di lavoro o in ambito associazionistico.

La gestione politica del dissenso si è in parte dovuta adeguare, con l’at- tenuazione della repressione e la pressione sui dirigenti delle società private per rispondere alle richieste dei loro dipendenti. Può darsi che di fronte al rischio e al timore che si rafforzasse il legame tra queste mobilitazioni e i movimenti di protesta politica, il regime abbia tentato di mostrarsi più conciliante (Ben Néfissa, 2008, pp. 21-2).

Ma la facciata di una conclamata apertura degli spazi di espressione non ha nascosto l’irrigidimento dell’autoritarismo politico, che dovrà a sua volta fronteggiare nuove proteste. La stessa generazione di attivisti ha visto na- scere nel 2008 un altro noto movimento, denominato 6 Aprile (Shabāb 6 april). Inizialmente il gruppo si era mobilitato su facebook, raggiungendo almeno 70.000 membri in poche settimane (oggi moltiplicati per dieci), prima e dopo lo sciopero. La maggioranza era comunque nuova alla politi- ca: fondamentalmente studenti universitari, giovani professionisti e disoc- cupati; nonostante i legami con altri gruppi d’opposizione, il movimento ha proclamato la sua autonomia dai partiti e da rigide ideologie. Certi gruppi di sinistra in particolare hanno mostrato perplessità su questo nascente mo- vimento, argomentando che l’urbana “gioventù facebook” (shabāb fiisbuk)

non potesse avere un impatto reale senza un più ampio supporto dal movi- mento dei lavoratori in sciopero (tra gli altri). Questi ultimi sono stati invece coinvolti da un’altra iniziativa basata sul network, il movimento Solidarie- tà (Tadāmun), nato nel febbraio 2008, raggiunto dai giovani attivisti per il cambiamento, specie quelli di orientamento trotzkista e marxista, che non si richiamavano specificamente a un’identità giovanile, convinti che le istanze democratiche siano complementari alle condizioni sociali ed economiche di base (Onodera, 2009, pp. 53-5).

L’attivismo giovanile per sé, senza un vasto supporto di base e conse-

guenti coalizioni da mettere in rete, difficilmente basta per costruire un movimento di massa che porti a reali cambiamenti storici. Ovviamente ci sono anche dei vincoli interni sulle “politiche di coalizione” tra gli stessi attivisti. Secondo Onodera, le azioni collettive dei membri della kifaya ge- neration possono difficilmente essere descritte come un movimento sociale

nel senso convenzionale, anche per gli impegni simultanei e multidimen- sionali che perseguono quotidianamente.Kifaya ha comunque costituito

un esperimento originale e significativo nella galassia del dissenso egizia- no, forse più una dichiarazione d’intenti e propositi politici che una reale organizzazione, ma è riuscita a catalizzare l’ansia e la frustrazione diffuse, insieme alla volontà di partecipazione in nome del cambiamento. In tal senso Onodera si riferisce a una nuova generazione di attivisti politici, la

kifaya generation appunto, la cui azione, dall’inizio del 2000, ha beneficiato

dell’incoraggiamento della società civile, dalle ong (sempre più numerose in Egitto) ai giornali indipendenti (come “al-Masri al-Youm”, “al-Shorouk” o “al-Dustur”) e a molti sindacati, che hanno agito da cassa di risonanza delle rivendicazioni avanzate sui mezzi di comunicazione come sulle strade.

Se l’esperimento Kifaya non ha protratto l’onda lunga dell’opposizione politica, ciò sembra dovuto anche all’occupazione di troppi ruoli chiave e

di direzione – delle istituzioni private e pubbliche, dei sindacati, delle orga- nizzazioni della società civile e dell’opposizione politica esistente – da parte delle vecchie generazioni. La critica giovanile, infatti, si rivolge alle strutture gerontocratiche e alle loro pratiche e si esprime all’interno dell’opposizione laica come nella nuova giovane generazione dei fm e di vari partiti. C’è chi si sente pronto alla contestazione interna al fine di preservare la struttura, partitica o del movimento, attraverso la quale continuare a lottare per i di- ritti e la giustizia sociale. Questa era l’opinione diffusa presso i militanti incontrati durante la mia ricerca sul campo, fossero attivisti laici, socialisti o tesserati in partiti liberali (dal Wafd al nuovo partito di destra al-Masriyyin al-Ahrar, fondato dal magnate Naguib Sawiris). Il divario generazionale viene percepito nelle modalità del fare politica, e secondo Hassan, giovane avvocato alessandrino, tale divario si amplifica con l’inesperienza della sua generazione e la corruzione di quella precedente, considerata più “esperta”. Iscritto al partito Wafd, si dice pronto, come altri suoi compagni, a militare in quanto “giovane” per i comuni obiettivi di cambiamento della società, sottolineando che è importante superare la frammentazione ancora diffusa nell’attuale fase di grande instabilità (mia intervista del 15 novembre 2013).

7.4