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Giovani a tempo indeterminato

Secondo il professor Hussein Mahmud, docente di italianistica all’Univer- sità privata 6 ottobre (Cairo), «la popolazione egiziana è al 90% conserva- trice. Ignoranza, povertà e malattie caratterizzano il paese, ma i governanti non hanno voluto né vorranno risolvere la questione» (mia intervista del 13 novembre 2013). Nonostante un certo ottimismo del professor Mahmud rispetto alla svolta inaugurata dal generale al-Sisi nel luglio 20131, la situa-

zione sociale, economica e politica del paese non è stata rivoluzionata dopo la scossa del 2011, e la “transizione lunga” verso la democratizzazione del si- stema egiziano continua a suscitare grande scetticismo per quanto riguarda le prospettive future.

Hassan Nafaa, docente di scienze politiche all’Università del Cairo e opinionista della stampa indipendente (vicino a El-Baradei durante la sua campagna politica ma successivamente critico), è piuttosto pessimista di fronte a un paese dove «il 40% della popolazione vive in povertà, in peri- ferie degradate, il 30-40% della popolazione è analfabeta, mancano servizi come istruzione e sanità» (intervista del 19 novembre 2013).

Le analisi scientifiche e l’osservazione sul campo possono aiutare a for- nire delle risposte, ancorché temporanee; è tuttavia fondamentale, anche per il presente studio, ricercare le cause storiche del malcontento esploso nelle rivolte degli ultimi anni. Cause che si sono stratificate nel tempo e

aggravate sotto il regime di Hosni Mubarak, che ha finito per essere cac- ciato dai suoi concittadini: l’incapacità di avviare uno sviluppo economico equilibrato e l’abbandono di una via socialista allo sviluppo; l’autoritari- smo e la repressione; il sistema del partito unico (denunciato con forza dal 2005); la diminuzione dei diritti individuali e di cittadinanza; il divario tra classe ricca e massa di poveri prodotto dalla globalizzazione finanzia- ria imposta dall’esterno e attuata spudoratamente all’interno; la pressione demografica: queste e altre concause hanno infine provocato quella che ha tutta l’aria di essere una “rivoluzione generazionale” (Béchir Ayari, Geis- ser, 2011, p. 124), di rottura col passato.

Partiamo dal constatare la rilevanza del fattore demografico nei paesi arabi, dove la popolazione è per la maggior parte giovane, ovvero sotto i 25 anni. Come nelle nostre società, ci troviamo di fronte a un’eterna giovinezza e a politiche inadeguate che diluiscono la categoria ormai tra i 15 e i 40 anni.

Da varie analisi sociologiche emerge la figura stereotipata del giovane di- soccupato, diplomato o laureato, che non può sposarsi, a partire dalla quale si arriva a denunciare politicamente una vera e propria “crisi della gioventù”. La gioventù come categoria sociale, come stato durevole in Egitto, è quindi rappresentata soprattutto nelle sue frustrazioni attuali. Tale gioventù in crisi d’identità costituirebbe un pericolo sociale atto a giustificare azioni di sicu- rezza e repressione nelle strade, cioè negli spazi pubblici occupati dai giovani (perlopiù uomini). L’argomento è persino diventato uno dei pilastri della retorica del Partito nazionale democratico (pnd), il partito unico al potere sino a pochi anni fa (che ha organizzato un congresso tematico nel 2002, ha avviato politiche sulla casa per i giovani e di microcredito per l’impresa), che rivaleggia in tal senso con i soli Fratelli musulmani (Boutaleb, 2011).

All’interno di questa categoria sociologica possiamo effettivamente ascrivere non solo una più ampia fascia d’età, ma tutta quella variegata po- polazione attiva che ha occupato gli spazi pubblici per esprimere la frustra- zione e la contestazione di un sistema politico, economico e sociale. Stu- denti, disoccupati, precari, militanti o simpatizzanti di diversi movimenti della società civile o di movimenti islamici come la Fratellanza musulmana o i salafiti, delle confraternite sufi o della Chiesa copta, hanno contribuito, collettivamente, al rovesciamento del trentennale regime mubarakiano.

Si tratta dunque della rivoluzione di una generazione di giovani o della rivoluzione interna alla gioventù araba ed egiziana nello specifico?

Un altro dato correlato da tenere in considerazione nell’analisi delle ri- volte è il rapido processo di urbanizzazione, che ha visto sempre più i giova- ni delle città quali protagonisti della scena araba, forse proprio perché più soggetti a esclusione sociale, disoccupazione, tensioni esplosive, ma anche

più vicini ai centri di potere. Uno degli aspetti cruciali delle proteste, delle manifestazioni, di atti più e meno rivoluzionari, tocca insomma non sem- plicemente i luoghi d’azione, mai neutrali o casuali, ma quello zoccolo duro della divisione tra società rurale e urbana che accomuna molti paesi arabi colpiti dalle rivolte.

Possiamo sin da subito scardinare ilmito – presente in troppe analisi – del predominio di un Islam astratto quale prisma unico o deterministico attra- verso cui osservare la regione (Beinin, Vairel, 2011, pp. 18-20); si tratta certo di un aspetto complesso e molto importante della società egiziana, sul quale torneremo ripetutamente, ma che non può prescindere dalla struttura sociale del paese. Anche l’“identità islamica” può essere annoverata tra le componen- ti del fenomeno diffuso di alienazione dei giovani (Martín Muñoz, 2000), che avrebbero forse potuto opporre la loro autorità morale e intellettuale ai vecchi governanti e perciò rappresentare un nuovo ordine sociale, economico e politico (in nome di questa identità?) e fornire un’alternativa etica ai mali della società. Ma il colpo di mano dell’esercito, che ha spodestato il breve go- verno della Fratellanza nel luglio 2013, suscita nuove riflessioni sulla vita della confraternita e sull’evidente incapacità di veicolare quell’alternativa.

L’incapacità o la mancata volontà di fornire risposte ai problemi econo- mici, sociali e politici e alle fratture conseguenti, come pureai processi di trasformazione in atto da tempo, non poteva che generare destabilizzazione sociale, con l’esplosione, presto o tardi, delle manifestazioni di dissenso e ribellione. Questo sarebbe a oggi il principale risultato del percorso rivolu- zionario inaugurato il 25 gennaio 2011, il “giorno della collera”, che trova nei suoi moventi fondamentali un lungo processo di erosione, a più livelli, di importanti fonti di legittimazione presso i giovani: lo Stato post-coloniale, l’Islam, la famiglia e il nazionalismo (particolarmente sentito dagli Egizia- ni). Ma soprattutto è venuta a mancare, e non solo tra i giovani, la legittima- zione del potere politico, di uno Stato che non assolve più, da troppo tempo ormai, alle sue funzioni sociali. Quando la società politica non coincide con la società civile, per parafrasare note categorie gramsciane, lo Stato s’inde- bolisce e, paradossalmente, può fortificarsi solo nel suo autoritarismo.

Il risentimento giovanile verso le autorità per via dello smantellamento del welfare state, della disoccupazione e della corruzione, del blocco della

mobilità verticale dei più istruiti, hanno spinto i giovani a ribellarsi. Ma si era nel frattempo indebolito anche il ruolo protettivo e autoritario della famiglia quale tradizionale fonte di riferimento, a causa dei diffusi proces- si di individualizzazione e precarizzazione sociale, anche se resta difficile affrancarsene e rendersi autonomi in tempi di forte crisi economica. Così aumentano la frustrazione e i conflitti generazionali che si riflettono nel-

la critica allo Stato e al potere, com’era già avvenuto con gli ufficiali liberi guidati da Nasser nel 1952. La generazione del Sessantasette, che visse la sconfitta della guerra dei Sei giorni contro Israele, è stata la prima a mettere davvero in discussione le basi ideologiche, economiche e politiche avviate dalle generazioni precedenti, proprio per la disillusione maturata in quei giovani istruiti vissuti sotto il socialismo arabo. Ma, secondo lo studioso Ahmed Abdallah, questi giovani finirono per essere divisi, frustrati, radica- li, e non realizzarono alcun progetto, anzi la loro generazione si disintegrò, senza riuscire adinfluenzare i giovani degli anni Duemila (Meijer, 2000b).

Ritorneremo nei prossimi paragrafi sugli esiti di questo mancato inse- gnamento e lascito politico, dal momento che alcune difficoltà d’analisi e d’azione politica delle precedenti generazioni si perpetuano ancora oggi. Il ruolo di intellettuali, professionisti, accademici e uomini politici nella richiesta di riforme non ha incontrato l’interesse popolare in genere, più focalizzato sulle questioni sociali. Tale scollamento tra sfera sociale e politi- ca, la distanza tra cittadinanza politica e sociale, secondo Sarah Ben Néfissa (2008, p. 20), riscontrabile in movimenti contestatari come Kifaya (lette- ralmente Basta!), sembra però essere anche il frutto di una lunga strategia del potere governativo egiziano. Ciò dimostrerebbe, in effetti, il relativo insuccesso registrato dal processo rivoluzionario, che ha scosso ma non re- almente – o perlomeno non sinora – trasformato il paese.

Eppure non poco è cambiato: l’aumento delle mobilitazioni sociali, in particolare dal 2005-06, ha coinvolto sempre più la popolazione povera e più svantaggiata, grazie anche alla maggior libertà di espressione nello spa- zio pubblico dovuta proprio all’azione delle élite intellettuali e politiche prima inascoltate. L’occupazione delle strade e delle piazze cittadine dal gennaio 2011 ha condotto in poche settimane al rovesciamento del regime e alla caduta del presidente Mubarak. In seguito, diversi grandi appunta- menti elettorali hanno segnato l’era post-Mubarak: il voto per eleggere le due Camere del Parlamento; il referendum costituzionale (marzo 2011) e l’approvazione della nuova Costituzione nel 2013; la presidenza, che ha visto l’ascesa del candidato dei Fratelli musulmani (fm) Mohamed Morsi (giugno 2012), sino al suo rovesciamento da parte dell’esercito (luglio 2013) e all’elezione del generale delle forze armate Abd al-Fattah al-Sisi (2014).

Secondo il politologo Gilbert Achcar, gli intellettuali, gli studenti e gli insegnanti e diverse professioni liberali, le classi medie insomma, sono stati il motore di questo processo. Ma la concorrenza è stata da subito forte con il movimento nazionalista e con la sinistra comunista (gli stessi nemici della politica statunitense), ognuno dei quali ha conosciuto una fase di ascesa e di declino, lasciando ad esempio, a partire dagli anni Settanta, campo libe-

2. Se nei decenni Settanta e Ottanta l’Egitto conobbe un periodo di congiunture econo- miche favorevoli, non necessariamente dovute all’infitāh (grazie a rendite da emigrazione,

turismo, esportazioni, traffico nel Canale di Suez), la crisi petrolifera verso la metà degli anni Ottanta incise fortemente sull’intera economia. Mubarak avvia allora un piano di riag- giustamento strutturale, con tagli importanti alla spesa pubblica, con la cessione di imprese pubbliche e col taglio delle sovvenzioni ai prodotti correnti. Il malcontento che ne è seguito è stato frenato con politiche di deliberalizzazione, cioè con la restrizione delle libertà pub- bliche (Ferrié, 2011).

ro all’integralismo finanziato dal regno saudita, che accoglieva i fm perse- guitati (anche sulla scia della rivoluzione iraniana del 1979). Li accolse an- che durante la fase di apertura economica liberista, infitāh2, contribuendo

all’imborghesimento del movimento e al suo ingresso nel mercato capita- lista, senza che però la “modernizzazione” riguardasse anche il programma politico della Fratellanza (Achcar, 2013, pp. 143-8).

Questo difficile percorso verso la democratizzazione o, per meglio dire, verso la normalizzazione del paese fa riemergere il ruolo dell’Islam tra le fila governative o tra quelle più usuali dell’opposizione. Data la strumen- talizzazione di importanti referenti identitari, è stato possibile avviare nei decenni un processo di reislamizzazione dal basso, mentre il regime lo fa- voriva dall’alto, secondo una tacita e opportunistica alleanza tra regime e Fratellanza, nuovamente interrotta dai militari (con i quali i fm avevano precedentemente “flirtato”). Il loro ruolo durante la rivoluzione (e nella prassi) è stato caratterizzato da opportunismo pragmatico, ma ha anche evidenziato come la compagine interna sia meno coesa di quanto si possa pensare e come la categoria sociale dei giovani sia trasversale a tutte le com- ponenti della società civile. Infatti c’è una certa confusione sulla gioven- tù della Fratellanza: molti hanno partecipato da subito alle rivolte, alcuni hanno lasciato i fm, altri sono stati espulsi, altri hanno scelto di rimanervi. La leadership della Fratellanza musulmana – e non solo – ha invece mal interpretato gli appelli alla manifestazione del 25 gennaio 2011 e il loro se- guito nei giorni o mesi successivi, e nonostante più tardi si sia dichiarata parte delle forze rivoluzionarie, aveva prima rifiutato di unirsi alle marce della millioneyya (un milione di persone), preferendo riprendere la retorica

autoritaria della giunta sulla “mano straniera” e sui complotti per destabi- lizzare l’Egitto. Non possiamo qui dilungarci sui successi e i fallimenti del- la Fratellanza musulmana, ma è importante comunque sottolineare la sua lontananza dalle rivendicazioni sociali. Non c’è niente nell’ideologia della Fratellanza che contrasti la proprietà privata o il profitto per sé; le sue poli- tiche business-friendly si sono mostrate in continuità con le liberalizzazioni

dei governi Mubarak, anche perché gli stessi suoi leader sono degli uomini d’affari. L’accettazione delle politiche liberali (che contrastano con i settori

più deboli della società) stride con le attività caritatevoli e la narrazione uf- ficiale volte a supportarli (Gervasio, Teti, 2012, p. 110).

Questa incongruenza, che ormai constatiamo a livello globale e non solo presso la finanza “islamica”, può essere annoverata tra le cause della re- cente sconfitta del movimento dei fm? L’interrogativo non è inopportuno e s’inserisce a pieno titolo tra le cause profonde delle rivolte, delle primavere arabe già avviate negli anni Duemila, anni caratterizzati da privatizzazio- ni, riforme costituzionali, pluralismo partitico in occasione delle elezioni e maggior libertà di stampa ed espressione. Tutti elementi che hanno fatto credere in una transizione verso la democrazia, ma che hanno invece porta- to al disincanto e allo scontro.

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