• Non ci sono risultati.

La diffusione del modello della “crescita”

Chi scrive non ha nessuna particolare simpatia per il modello della crescita o della modernizzazione che dir si voglia, né ovviamente ritiene che si tratti del migliore dei mondi possibile. Al contrario, esistono fondati motivi per ritenere che quel modello, sottoposto a decenni di critiche circostanziate, manifesti segni evidenti di crisi di funzionamento e di squilibrio (Bottazzi, 2013). Ma è indubbio che, se utilizziamo il modello come descrittivo di un processo che ha avuto e sta avendo luogo nel mondo, nel Nord e nel Sud,

7. Nei paesi in ritardo di sviluppo, per usare un eufemismo, il modello occidentale, so- prattutto dopo la perdita di appeal del modello collettivista sovietico – che peraltro può non

essere molto diverso, nei suoi aspetti regolativi, da quello cresciuto nel mondo capitalistico, come dimostra il caso della Cina (Arrighi, 2007) – ha sempre e certamente esercitato una grande attrazione. I paesi che hanno adottato un più o meno rigido modello statalista (so- cialista), come l’Algeria, hanno prima o poi dovuto aprire al mercato proprio perché non riuscivano a garantire adeguati livelli di consumo individuale della popolazione. Garantire questi livelli – il cui tempio è rappresentato dai centri commerciali, sempre più simili tra loro da Roma ad Algeri, da Milano al Cairo a Tunisi o a Rabat – per il massimo numero di persone è anche condizione non secondaria di una relativa pace sociale.

non possiamo non riconoscere che, in effetti, le cose sono andate nel senso che lo stesso modello descrive: più o meno, tutte le società contempora- nee hanno forzatamente marciato nel senso descritto dal modello, anche perché le istituzioni internazionali, dall’onu all’fmi alla Banca mondiale, nonché la crescente interdipendenza prodotta dalla globalizzazione, hanno trasformato il modello di regolazione della crescita/modernità in una sorta di pensiero unico. Da non trascurare, inoltre, è la capacità di seduzione e di convinzione che il modello ha di per sè7.

Alle caratteristiche sopra sommariamente richiamate bisogna aggiunge- re, per completezza, che il tutto si svolge nel contesto di uno Stato-nazione, con una propria organizzazione burocratica, una popolazione etnicamente omogenea (la nazione, appunto) e il potere di controllo su un territorio più o meno vasto, delimitato da precise frontiere.

Nel processo di occidentalizzazione del mondo, il modello della “cre- scita” è probabilmente il più penetrante e duraturo prodotto di esportazio- ne dell’Europa. Non si tratta semplicemente di capitalismo, o per lo meno non è solo una questione di capitalismo, ma di una sua versione capace di imporsi come modello – accettato – dei rapporti sociali e dei meccanismi regolativi della società.

Nei paesi con una forte caratterizzazione islamica, il modello della mo- dernizzazione penetra innanzitutto nel periodo del colonialismo. Natural- mente le dinamiche sono state diverse da caso a caso, ma presentano signifi- cative analogie. L’introduzione di forme di proprietà privata in agricoltura, con l’esproprio delle terre cosiddette “tribali”, e l’introduzione di forme di prelievo fiscale di vario genere in forma monetaria sono infatti elementi che gettano le basi per una nuova forma di organizzazione sociale ed economica e che frequentemente vedono una classe di piccoli e medio-grandi proprie- tari locali formarsi a lato delle élite coloniali di origine metropolitana. Con- temporaneamente si creano le condizioni per la creazione dei primi strati, più o meno consistenti, di lavoratori salariati (nelle miniere, in agricoltura, nelle industrie di interesse del colonizzatore). Un embrione di sistema pub-

8. Sulla modernizzazione e sulla sua capacità di presa ideologica esiste un’ampia lette- ratura: due saggi particolarmente stimolanti sono quelli di Martinelli (1998) e di Latham (2000); mi permetto di rimandare anche a Bottazzi (2009).

blico dell’istruzione e della sanità viene posto in essere e l’amministrazione coloniale prefigura gli standard della burocrazia pubblica che seguiranno.

Il vero imprinting, tuttavia, arriva al momento dell’indipendenza, che

nel caso dei paesi islamici del Mediterraneo rimonta agli anni Cinquanta e Sessanta. Lo Stato che viene costruito è una replica dello Stato-nazione nato in Occidente. Il modello di società e di economia non poteva che es- sere quello che andava per la maggiore – anche sull’onda delle teorie dello sviluppo che in quei decenni dominavano ed erano sponsorizzate dalle più influenti organizzazioni internazionali, le teorie appunto della moderniz- zazione8. D’altronde, anche le classi dirigenti che avevano condotto la lotta

per l’indipendenza e che rappresentavano le nuove élite di governo erano del tutto schierate nella stessa direzione: finite le imposizioni e le vessazioni del colonialismo bisognava “svilupparsi”, bisognava industrializzarsi, razio- nalizzare l’agricoltura, far crescere l’istruzione, aumentare l’occupazione salariata (quasi che fosse l’unica forma di occupazione), migliorare le con- dizioni materiali e aumentare i consumi.

In un bel saggio dei primi anni Ottanta, una studiosa tunisina, Hele Béji (1982), parla di “disincanto nazionale”: le speranze accese dall’indipenden- za svaniscono abbastanza rapidamente sull’onda del fatto che ci si rende progressivamente conto che la colonizzazione non è stata una semplice parentesi, quasi che si potesse ricominciare come se niente fosse accaduto. Essa ha inciso profondamente sulle strutture sociali e mentali della popola- zione, nonché sull’economia. Ne consegue che i margini di scelta, rispetto al modello che abbiamo chiamato “della crescita”, erano del tutto esigui, se non inesistenti. Non era cioè possibile ripartire da zero, bisognava muoversi dentro un percorso tracciato.

Il dinamismo economico dei primi due decenni successivi all’indipen- denza (promosso anche da una favorevole congiuntura internazionale), le promesse e le speranze alimentate da quel dinamismo, assicurano ai nuovi Stati un consenso abbastanza ampio. Per quanto possa significare, il pil cre- sce regolarmente e in modo sostenuto, soprattutto sino agli anni Ottanta. Nonostante l’aumento straordinario della popolazione, le condizioni di vita migliorano sensibilmente e una quota crescente della popolazione può ac- cedere a quei beni di consumo individuali – dai televisori alle automobili, ai beni di consumo durevoli in generale, che rappresentano, agli occhi del cit- tadino medio, l’aspetto più attraente della modernizzazione. Rilevanti flussi migratori dalle campagne verso le città hanno nel frattempo luogo. L’aumen-

9. Sul Washington Consensus e sulle politiche di aggiustamento strutturale esiste una

vasta letteratura; un’analisi molto precisa e convincente è quella di Stiglitz (2002 e 2003).

to della popolazione urbana alimenta ancor più il modello della “crescita”, facendo crescere l’occupazione salariata e la monetizzazione dell’economia.

Già alla fine degli anni Ottanta, tuttavia, appaiono alcuni segni di crisi, nei quali si inserisce, come diremo tra breve, la questione dell’Islam. Tunisia, Marocco, Egitto e Algeria (in misura minore e per specifiche ragioni lega- te ai prezzi del petrolio) vedono esplodere il loro debito pubblico, gonfiato dalle spese per diffondere servizi quali istruzione e sanità e per mantenere quel minimo di sostegno dei redditi necessario per la pace sociale. Il pane e la semola, ad esempio, componenti fondamentali dell’alimentazione delle classi popolari, hanno sempre avuto un prezzo politico, sostenuto dai go- verni. Quando il Fondo monetario internazionale interviene per garantire il pagamento del debito – nel quadro di quel Washington Consensus che preve-

de le strategie neoliberiste del cosiddetto “aggiustamento strutturale”9 – bi-

sogna ridimensionare drasticamente la spesa pubblica. Non a caso, le prime ribellioni, i primi movimenti di protesta, si registrano già alla fine degli anni Settanta (Egitto) e nei primi anni Ottanta (Tunisia, Marocco) sotto forma di “rivolte del pane”, in risposta alle decisioni governative di ridurre il calmie- ramento del prezzo del pane e della semola.

È probabile che le gestioni certamente autocratiche, familistiche e cor- rotte (si pensi al caso del regime di Mubarak in Egitto, a quello di Ben Ali in Tunisia o alla casta militare in Algeria) abbiano contribuito a diffondere l’opinione che questa fosse la causa delle crescenti difficoltà economiche. Se pure tutto questo è stato sicuramente importante, la causa del problema non risiede nell’appropriazione di risorse pubbliche da parte di una ristret- ta cerchia al potere, ma va cercata in ragioni strutturali. Il sistema economi- co non consente (o non consente più) di supportare le promesse che aveva fatto: diventa cioè del tutto impossibile garantire occupazione e/o salario per tutti, alimentazione per tutti, scuola e formazione per tutti, sanità e me- dicine per tutti, tanto più che la rapida crescita della popolazione aumenta in modo esponenziale il numero di coloro che hanno diritto.

6.4