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Vita e morte di un ingegnere di Edoardo Albinati

Capitolo 1. M ASCHILITÀ : STUDI ED EVOLUZIONE DI GENERE

3.3. Una paternità mitizzata

3.3.1. Vita e morte di un ingegnere di Edoardo Albinati

Il testo di Albinati propone un tema opposto a quella su cui si interroga Pasolini: se nella tragedia viene messa in scena la disperata necessità del padre di dare un senso al mistero del figlio – sintomo della distanza generazionale, nonché dell’incomunicabilità fra i due – con l’autore romano è il figlio a voler decifrare quella figura paterna tanto idealizzata quanto sconosciuta. Tant’è che il titolo stesso accentua questo senso di lontananza fra padre e figlio. Il paratesto avverte che si narrerà della vita e della morte di «un» ingegnere, che potrebbe essere un ingegnere qualsiasi, sconosciuto e anonimo, e invece si tratta dell’ingegner Carlo Albinati:

per far questo bisognerebbe penetrare nel suo carattere, capirlo, e io mio padre non l’ho mai capito. Era un uomo spaventosamente ambiguo. In apparenza calmo e freddo, fino a farmi pensare che fosse indifferente alla maggior parte dei problemi degli altri e perfino, in un certo senso, ai propri, dimostrava in alcune occasioni una sensibilità morbosa e infantile che gli faceva perdere ogni misura. [VMI 11]

Albinati in questo «saggio» [VMI 38], come viene definito da lui stesso, ha modo di rievocare l’immagine di suo padre Carlo alla guida di una scattante Alfa Romeo. Si rende conto però di non riuscire a restituirne quella visione d’insieme che tanto auspicava, ma semplicemente di trascrivere un accumulo di dettagli e frammenti

«che restano scollegati tra loro come tessere di un puzzle lasciate sul pavimento da un

bambino disordinato» [VMI 43].

L’autore decide di dare alle stampe queste memorie solo dopo la morte della madre, ben vent’anni dopo la loro composizione, in nome della profonda discrezione con cui vennero messe per iscritto. La scrittura, pertanto, è anche uno strumento per alleviare un dolore altrimenti insopportabile:

ora forse posso cominciare a scrivere la storia. […] mentre comincio a scrivere la storia, mi assale e mi riempie di dubbi, voglio dire l’angoscia di vedere morire il proprio padre e al tempo stesso provare il desiderio di descrivere questo evento, vederlo soffrire e pensare alle parole in cui esprimere la sofferenza, coniando le frasi adatte, soppesandole, come se da tutto quel dolore non dovesse uscire che una pagina. Mentre mio padre moriva lentamente io annotavo dentro di me i momenti cruciali della sua agonia. Prendevo appunti. Mi imprimevo in mente alcuni dettagli, certe parole, come ho fatto fin da bambino. [VMI 32]

Il testo è interamente giocato sul fascino e l’incomprensione che il padre suscita nel figlio. Due termini estremamente legati l’uno all’altro, dal momento in cui la fascinazione è esercitata proprio da ciò che ci appare inavvicinabile e complesso.

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Peraltro Edoardo confessa di conoscere unicamente gli aspetti superficiali del padre, ossia «qualche aneddoto, il riassunto della trama, e in quattro parole, come si diceva a scuola, la sua “poetica”» [VMI 17].

Lo stesso autore durante un’intervista per il suo libro non manca di far notare quale sia l’incolmabile differenza fra la propria generazione e quella odierna. Se nella generazione degli anni Sessanta-Settanta ciò che caratterizzava il rapporto padre-figlio era quel gelido riserbo paterno che portava i figli a ribellarsi e ad esigere comprensione, oggi invece vi è una maggiore similarità e identificazione tra le due controparti. Non c’è da stupirsi, pertanto, se tutto il libro di Albinati appare come un doveroso tentativo di restituire a sé stesso e agli altri componenti della famiglia un’immagine il più possibile umanizzata del padre.

Se avessi capito prima che quei rari momenti di pace e di complicità tra di noi non erano illusori, ma indicavano una strada possibile, un cammino da percorrere insieme, anche se questa strada passava per la mia sottomissione, oppure per la sua, avrei fatto in tempo a salvare qualcosa di quel rapporto che invece è marcito nell’attesa che venissero fatti grandi passi l’un verso l’atro, che venissero dette cose importanti. […] Come potevo pensare che bastassero quelle venti parole scambiate in barca, a risolvere la questione tra me e mio padre? Io volevo che mio padre mi capisse, volevo che mi dicesse cose profonde e memorabili, anzi non mi limitavo a volerlo, lo esigevo. [VMI 50]

La descrizione del mondo esteriore del padre, delle gite in barca, dell’odio inspiegabile per la musica, del disinteresse verso l’arte in generale, della sua viva partecipazione all’attività politica, della paradossale curiosità verso la pittura da lui reputata degna solo fino a Michelangelo, sono tutti vani tentativi di Edoardo di trovare la giusta chiave di lettura di un padre conosciuto esclusivamente per la sua proverbiale ironia:

ora che mio padre non c’è più e io mi trovo a pensare a lui come non avevo mai pensato quando ero vivo, mi rendo conto di quante volte egli deve aver tentato di mettersi in comunicazione con me attraverso quella chiave scherzosa, quante volte ha fallito. Ma perché usava sempre quel tono un po’ canzonatorio e denigratorio? Perché recitava sempre lo stesso ruolo? [VMI 30]

Tuttavia questa enigmaticità paterna consente all’autore di svincolarsi da un mero biografismo e aprirsi a riflessioni più ampie e universali sulla vita e la morte.

Solo nella seconda parte del testo, quando al padre viene diagnosticata la malattia e la morte si fa sempre più vicina, la voce del figlio si fa universale e inizia a coincidere con tutti coloro che vorrebbero rivendicare un rapporto padre-figlio da sempre inappagato. Edoardo si rende conto che l’insoddisfazione di non aver mai conosciuto pienamente suo padre non è solo sua, ma perfino di sua madre. La moglie dell’ingegnere Albinati è convinta che per tutta la vita suo marito avesse indossato una maschera dietro cui avesse nascosto la sua più intima essenza, per poi scoprire che quella segreta intimità non sarebbe mai stata svelata, poiché inesistente:

Lei si aspettava che la morte avrebbe schiuso l’intimo di mio padre, e invece questi vi si barricò dentro e morì nel bozzolo senza che nessuno scoprisse com’era fatto, senza soprattutto che

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nessuno capisse che all’interno del bozzolo non si trovava niente altro che quella seta filata con tanto sforzo. Mia madre sperava che la morte portasse a galla i tesori sepolti nell’anima di mio padre, senza capire che il tesoro era quell’acqua limpida…in fondo alla cui singolare trasparenza non c’era niente che non fosse da sempre visibile ad occhio nudo, e cioè il fondo stesso, il fondale sabbioso, spoglio, desolato, privo di mistero e di qualsiasi doppiezza. [VMI 104]

La reazione immediata di Edoardo alla fase più dura della terapia del padre sarà quella di appunto fuggire negli Stati Uniti, ma solo questo distacco fisico gli garantirà di guardare con maggiore obiettività la propria situazione.

In Italia mi ero agitato invano nella palude dei rimorsi, col risultato di sollevare altro fango dal fondale, la viscida sostanza delle piccole offese e dei risentimenti nei confronti di mio padre, allontanandomi da lui mentre cercavo di soccorrerlo, potevo solo guardarlo affondare, era come la scena lentissima di un sogno, non potevo fare nulla, scalciavo a vuoto nei ragionamenti, pensavo che la sua fine si stava avvicinando e io non lo avevo capito, non ci avevo mai parlato sinceramente, non lo avevo mai abbracciato forte, non ero in grado di aiutarlo a sopravvivere e nemmeno a morire… [VMI 109]

Il viaggio si rivela cruciale per lo snodo della narrazione. Se inizialmente siamo partiti da un’idea di padre-mito, la fuga e il successivo ritorno in patria consentono al figlio di conoscere un padre diverso, un padre più «umano» nel senso pieno del termine. La lenta degenerazione fisica, gli ultimi deliri comportamentali, l’accentuarsi del lato bizzarro del suo carattere, l’incapacità di compiere i gesti più quotidiani, fanno sì che Edoardo inizi a guardare il padre non più con idealizzazione ma con tenera complicità, per quanto quel mistero che Carlo ha rappresentato in vita, continuerà a contraddistinguerlo anche dopo la morte.

Rimprovero a mio padre di avermi tenuto nascosto che la gente è fatta di carne e di sangue e che anche lui era fatto di carne e di sangue, per cui mi sorge il dubbio che, in definitiva, egli temesse sopra ogni cosa di essere riconosciuto da me per quello che realmente era, e che abbia vissuto l’intera sua vita, per così dire, in incognito, trincerandosi dietro una barriera di pura discrezione, da cui rari spiragli, ogni tanto, in una specie di spogliarello morale, lasciava intravedere una parte di sé. Ma perché lo ha fatto? Cosa c’era di così terribile da rivelare? Non lo saprò mai, e più passa il tempo dalla morte di mio padre (oggi sono nove mesi esatti), più perde corpo, come per un’emorragia di precisione, per uno sbiadimento del colore originario della sua vita, la speranza di saperne qualcosa. [VMI 131]

Albinati commenta il suo testo definendolo come «un libro di comportamenti e corpi che si muovono nello spazio e si incontrano alla fine»28. E infatti è proprio nel finale del libro che Edoardo incontra il padre, attraverso quell’inevitabile processo di identificazione attraverso cui il figlio stesso si sorprenderà nel replicare gli stessi atteggiamenti paterni che per una vita aveva cercato di rifuggire. L’immagine conclusiva dell’arcobaleno raddoppiato vuole infatti esprimere questa idea di due corpi che solo alla fine del testo – dopo la malattia, la morte e la scrittura – potranno incontrarsi. Albinati compie in questo modo un viaggio simbolico verso il padre29,

28 TONIOLO 2012. 29 ZOJA 2000, p. 288.

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partendo dalla ricostruzione della sua vita e consegnandoci un memoriale che dà voce all’umanità di questa figura inafferrabile.