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Giorgio Garabed, un monaco armeno accusato d’eresia

L’11 settembre del 1742 Muratori veniva contattato da un monaco armeno, Giorgio Garabed. Questo ignoto personaggio, che in quel periodo si trovava a Ferrara, scriveva al grande storico che era sua intenzione restituire alla Biblioteca Latina le opere di San Giacomo di Nisibeno che fino a quel momento erano state tradotte dalla lingua siriana in lingua armena; secondo il religioso quegli antichi manoscritti erano conservati nel monastero degli Armeni, situato sull’isola di San Lazzaro a Venezia, sotto la custodia del monaco costantinopolitano don Antonio di Baltasar. Il Garabed si sarebbe cimentato volentieri nella traduzione in latino di quei testi e così si appellava alla fama di Muratori affinché, tramite l’aiuto di qualche conoscenza veneziana, gli fossero concesse le copie delle opere di Nisibeno.

Su questo insolito personaggio non possediamo informazioni biografiche. Tuttavia nella corrispondenza intercorsa tra Giuseppe Antenore Scalabrini e Muratori, pubblicata da Paolo Rocca, troviamo alcune notizie sul Garabed che permettono di ricostruire quali vicende lo portarono a Ferrara; inoltre possiamo notare quanto lo storico modenese, di fronte ad un’impresa così nobile, avesse preso a cuore la vicenda del monaco218. L’8 novembre del 1742 Muratori scriveva a Scalabrini di avvisare l’armeno che non aveva ricevuto, fino a quel momento, nessuna risposta da Venezia219; quindi si era premurato, appena aveva ricevuto la lettera del Garabed, di contattare don Antonio di Baltasar. Da Ferrara il corrispondente gli rispondeva tre giorni dopo affermando che il monaco desiderava farsi conoscere dando alle stampe la traduzione latina di quelle opere e pensava che: “se potesse averlo per di lei mezzo, il manoscritto del santo Nisibeno, che forse sarebbe facile ottenere coll’occasione

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Tra le opere manoscritte del Manetti troviamo questa difesa del Muratori: “Ragionamento in difesa del

celebre letterato Lodovico Antonio Muratori contra le opposizioni calunniose del Dottor Biagio Schiavo”

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Paolo Rocca, ‘La corrispondenza Scalabrini-Muratori’, in «Atti e memorie della Deputazione provinciale

ferrarese di Storia Patria», vol. V. 1950-1951. Secondo il Rocca il Muratori inviò al Garabed una responsiva

datata 20 settembre 1742, conservata tra le lettere che l’erudito inviò allo Scalabrini e che il Campori, nel volume XIII dell’Epistolario, la segnala come inviata al Ferrarese.

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che la Corte Serenissima si trova in Venezia e››, garantiva lo Scalabrini, ‹‹che il religioso è ottimo in tal affare, perché sommamente erudito››220.

Trascorsi quasi sette mesi il Muratori riferì al frate ferrarese di aver ricevuto risposte positive dal Baltasar, che si era impegnato a trasmettere la copia del manoscritto richiesto221. Ma da Ferrara non arrivavano buone notizie: il Garabed era fuggito dalla città senza lasciare traccia di se.

Nella lettera che Scalabrini inviò all’erudito il 17 giugno 1743 leggiamo del passato burrascoso del monaco armeno e che molto probabilmente lo condusse alla fuga; scrisse il frate ferrarese: ‹‹Dovevo io da venti giorni sono avvisare V.S. illustrissima qualmente don Giorgio Garabed, sacerdote monaco basiliano armeno, peritissimo nelle lingue latina, greca, francese, italiana, oltre la turchesca ed armena nativa, trattenuto in Ferrara per ordine del Santo Ufficio, che lo fece arrestare in Polonia nel venire da Erzerum, e condotto a Roma; dove, stato cinque anni nel sacro tribunale, fu mandato relegato in questa città presso del Santo Ufficio, che lo consegnò ai frati carmelitani di San Paolo, pagandoli la dozzina, con presentarsi ogni sera. Gli fu commutata l’abitazione in altra di suo gusto, e passò al rito latino, quotidianamente celebrava nella chiesa nova, avendo da dodici e più anni deposta la barba ed il vestito orientale; ed andava con abito longo da prete latino; con ogni esemplarità interveniva a tutte le pubbliche funzioni; alle dispute argomentava bravamente in filosofia e teologia; ben accetto nelle conversazioni ed amato da tutti; ne più osservato come v’era l’ordine alle porte››222. Lo Scalabrini proseguì la lettera raccontando al Muratori che, molto probabilmente, il Garabed era fuggito da circa venti giorni e aveva lasciato la città con un calesse proveniente da Bologna. Il monaco aveva lasciato le stanze in cui alloggiava piene dei suoi libri, di vestiti e di mobili di buona fattura; la partenza avvenne così in modo repentino che nessuno per due giorni si accorse della sua assenza. Quando ciò avvenne tutti sospettarono che fosse morto nella stanza e furono costretti ad abbattere la chiave. La notizia della fuga del Garabed arrivò alle orecchie della curia arcivescovile e del Santo Uffizio che subito confiscarono i beni del monaco e sentenziarono che era andato a Livorno dove, ricongiuntosi ad alcuni connazionali, sarebbe partito per Costantinopoli, sua patria. Il Muratori da Modena si diceva molto dispiaciuto per l’accaduto e soprattutto perché era fallito l’affare della traduzione delle opere del Nisibeno; secondo l’erudito il Garabed era fuggito perché ridotto alla disperazione e sentenziava ‹‹sarebbe stato bene il trattar meglio

220 Ibidem; 221 Ibidem, pp. 192 222

chi poteva far del bene fra i suoi. Ora ci sarà nemico, e dirà quanto di male saprà di noi, e del nostro operare››223.

Nell’Archivio Muratoriano, conservato presso la Biblioteca Estense di Modena, abbiamo rinvenuto casualmente una lettera del Baltasar di San Lazzaro, purtroppo non vi è specificato il destinatario ma supponiamo possa trattarsi dello Scalabrini che in questa vicenda aveva assunto il ruolo di intermediario tra lo storico e il Garabed. La missiva porta la data del 25 luglio del 1743 e inviata da Venezia quindi scritta dopo la fuga del monaco armeno da Ferrara; apprendiamo subito che il Baltasar fosse l’abate del monastero degli Armeni conosciuto col nome di don Antonio di Baldassarre. Questi era stato messo al corrente sulle intenzioni benevole del Muratori di aiutare lo sventurato religioso nell’impresa di traduzione delle opere del Nisibeno ma scriveva: ‹‹Quel prete armeno costantinopolitano, chiamato qui nella sua stimatissima Garabed, qual nome è di suo padre, perch’esso si chiama d. Giorgio di Garabed Mechleim Oghli, essendo persona sospetta d’eresia, che noi il conosciamo benissimo qual’ègli è col suo fuggir via ci diede grandissimo dolore; imperochè egli potrà apportar alli nostri Cattolici in Levante non poco danno. Tuttavia speriamo ch’il Signore Iddio proteggerà li poveri Cattolici nostri Armeni››. L’abate di San Lazzaro, nonostante il cattivo esempio del Garabed, pensò che non poteva negare al famoso erudito di onorare San Giacomo Nisibeno inoltre la traduzione latina dell’opera sarebbe stata compresa anche fuori dall’Italia però enunciava quali sarebbero state le difficoltà di tale impresa: ‹‹Primieramente per i vocaboli antichisissimi, quali si può dire sono adesso come in abuso e barbari e da intendersi difficili e poi per le autorità che cita sono moltissimi e senza li capitoli de’ testi; onde bisognarà affaticarsi per trovarle ad una ad una. Di più sarà di mestieri che dopo haver tradotto il detto libro si emendino li errori occorsi e si trascriva tutto il libro tradotto per seconda volta e così sarà doppia la fatica del traduttore il quale per giustissime cause vuol’esser onninamente anonimo››.

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