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a trieste non succede nulla: è l’unica fra le grandi città dell’impero (vienna, budapest, praga, venezia, milano) in cui la rivoluzione non scoppia

italiana dal punto di vista politico, perché la nazione italiana non è stata ancora inventata, e le fedeltà quindi vanno a San Marco o agli Asburgo, di solito anta-gonisti gli uni con gli altri. Parallelamente, la rivalità è molto forte anche fra le

élites italiane, ad esempio fra quelle triestine e quelle veneziane.

Dietro invece i gruppi linguistici sloveni e croati non sta una cultura alta ed es-si non esprimono una classe dirigente, perché ricoprono l’ultimo gradino della scala sociale. La conseguenza è ovvia: quando dopo la conquista napoleonica, e poi la restaurazione, comincia a svilupparsi un discorso nazionale, i primi che lo recepiscono sono gli italiani, perché sono gli unici a disporre di una classe diri-gente in grado di farlo proprio. Ciò avviene nel corso della prima metà dell’Ot-tocento, con differenze però molto significative, perché nell’area giuliano-dal-mata possiamo in realtà distinguere molto bene tre fasce: la Dalmazia, l’Istria e Trieste, caso al quale assomiglia molto, se pur su scala minore, quello di Fiume. Somiglianze e differenze le vediamo esprimersi molto bene in quel grande mo-mento della verità che è la crisi del 1848.

In Istria, già appartenente a Venezia, la tendenza è quella risorgimentale, come nel resto d’Italia: non ci sono le condizioni pratiche per fare la rivoluzione, ma i primi gruppi di patrioti guardano con commozione alla nuova Repubblica di San Marco, vogliono battersi per l’Italia unita e, se non possono fare altro, van-no a difendere Venezia. A Trieste invece van-non succede nulla: è l’unica fra le gran-di città dell’Impero (Vienna, Budapest, Praga, Venezia, Milano) in cui la rivo-luzione non scoppia. Soltanto, alcune decine di giovanotti guidati da un giorna-lista veneziano cercano di inscenare una manifestazione tricolore, ma vengono dispersi non dalla forza pubblica, ma dai facchini delle ditte di import-export. Dopo di ciò, dal momento che in tutta Europa è scoppiata la libertà e tutti par-lano di diritti nazionali, gli esponenti più autorevoli della classe dirigente trie-stina si consultano e dicono: anche noi siamo una nazione, però non siamo né italiani né tedeschi: siamo cosmopoliti. Vale a dire, siamo una nazione non na-zionale, cosa che, fra le varie esperienze del ’48 europeo, è una delle più curiose. Guardate, però, che non si tratta affatto soltanto di una bizzarria, ma anzi di un segnale importante di come, alla metà del secolo, i giochi sono in realtà ancora aperti e la traiettoria che avrebbe condotto alla generalizzazione degli Stati nazio-nali non è per niente scontata. Dietro quella strana affermazione sta infatti uno dei più potenti gruppi imprenditoriali dell’Impero, che a qual tempo è ancora la principale potenza continentale assieme alla Francia; e quel gruppo di impren-ditori e politici ha un disegno strategico molto chiaro. Si tratta – nientemeno – di rispondere all’evidente crisi di legittimità del sistema creato dal Congresso di Vienna, sostituendolo non con una galassia di Stati nazionali, ma con un pro-cesso di unificazione continentale che parta non dalla politica ma dal mercato. Usando un termine attuale (all’epoca si parlava di «Stato commerciale») potrem-mo chiamarlo un mercato comune europeo comprendente tutta l’area tedesca, i domini asburgici, l’Italia e proiettato verso i Balcani. Questa grande area

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La dalmazia diventa il primo punto di crisi per l’italianità adriatica tro-europea – da cui il termine di «Mitteleuropea» – si sarebbe dovuta

progres-sivamente unificare secondo quelle che oggi viene chiamata la logica «funziona-lista» dell’integrazione europea, senza mettere inizialmente in discussione con-fini e sovranità. Come dire, l’Europa del mercato contro l’Europa delle patrie. Questo progetto arriva fino al governo di Vienna e poi fallisce (per varie ragioni, e con la conseguenza non da poco che l’unificazione tedesca si farà a guida prus-siana), ma ricordarlo, anche in sede didattica, non è inutile proprio per le con-siderazioni che consente di formulare sia sui tempi della storia, sia sui caratteri e sui limiti dell’attuale processo di integrazione europea.

Comunque, tornando a Trieste, per tutto il Risorgimento la città conferma la sua fedeltà all’Austria e viene ricompensata con un’autonomia enorme: il comune assume competenze più ampie di quelle di un attuale regione italiana a statuto speciale. Ciò significa che di fatto i triestini si autogovernano, mentre il governo di Vienna garantisce i finanziamenti indispensabili per realizzare le infrastrut-ture e per mantenere il dumping tariffario su cui si fonda l’economia emporiale. Non è un caso che questa sia rimasta nella memoria come l’età dell’oro di Trieste. La terza fascia è quella della Dalmazia. Qui la classe dirigente è di origini etni-che molto miste – prevalentemente italiani, croati e ungheresi – ma cementa-ta dall’uso linguistico veneto, dalla cultura icementa-taliana e dallo stile di vicementa-ta urbano. Però la Dalmazia non fa parte della penisola italica ed è evidente che non potrà venir coinvolta nel processo di unificazione nazionale: ne è ben convinto anche uno dei maggiori patrioti risorgimentali, cioè il sebenzano (vale a dire di Sebe-nico) Niccolo Tommaseo. E allora, l’élite dalmata elabora il concetto di «nazio-ne dalmata», etnicamente mista ma di cultura italiana, e la sua richiesta politica è quella dell’autonomia, che metta la Dalmazia al riparo dalle ipotesi di ristrut-turazione dello spazio asburgico promosse dai croati di Zagabria, che vorrebbe-ro inglobare anche la Dalmazia in un’unica pvorrebbe-rovincia cvorrebbe-roata.

Questo disegno strategico funziona, ma dura poco ed anzi la Dalmazia diventa il primo punto di crisi per l’italianità adriatica. La ragione è evidente: la nazio-nalizzazione degli italiani – anche se in forme politiche molto prudenti – è solo il primo passo di un processo di modernizzazione politica che coinvolge progres-sivamente non solo i centri urbani, ma tutto il retroterra abitato da popolazioni rurali di lingua croata. Questo fenomeno presenta due aspetti fra loro collegati: nazionalizzazione e democratizzazione. Ciò significa che dapprima si creano le

élites nazionali croate, poi queste si impegnano a nazionalizzare le masse

croatofo-ne, ci riescono e nel contempo il suffragio si allarga. Il risultato è, che quando al voto arrivano decine di migliaia di elettori che si definiscono politicamente croa-ti, la nazione dalmata urbana e il suo progetto autonomista vengono spazzati via. Per la verità, le autorità austriache accelerano il processo, perché dopo tre guerre di indipendenza in meno di venti anni, non si fidano più tanto dei loro sudditi italiani, mentre i soldati croati hanno sempre versato il loro sangue per l’impe-ratore sui campi della Lombardia. Ma anche senza le forzature delle autorità

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i movimenti nazionali tardo-ottocenteschi non concepiscono la diversità nazionale come ricchezza, ma come limite alla piena realizzazione di un’identità nazionale, la propria

rebbe cambiato molto poco e negli anni Ottanta l’unico comune ancora ammi-nistrato dagli autonomisti e non dai croati, rimane Zara.

I casi di Dalmazia lanciano l’allarme anche agli altri italiani, che cominciano a pensare: oggi è capitato a loro, domani potrebbe capitare a noi. Certamente, le situazioni sono diverse, perché in Istria e a Trieste gli italiani sono molti di più e per giunta hanno il monopolio del potere locale, però le cose cambiano: l’on-da della nazionalizzazione di massa comincia a coinvolgere tutti, ed assume una caratteristica molto particolare.

Di solito, quando agli studenti spieghiamo questo problema della nazionalizza-zione delle masse, facciamo riferimento ad uno schema che va benissimo per gli Stati nazionali, in cui si dice, ad esempio, «fatta l’Italia bisogna fare gli italiani», ed elenchiamo le grandi agenzie della nazionalizzazione dall’alto: scuola, eserci-to, burocrazia, religione della patria. Ma l’Austria asburgica non è uno Stato na-zionale, e di conseguenza lo Stato non nazionalizza affatto le masse. Il processo però si avvia lo stesso, ma non viene gestito dalle istituzioni, bensì dalle stesse

éli-tes nazionali attraverso una fittissima rete associativa, presente

contemporanea-mente e concorrenzialcontemporanea-mente sul medesimo territorio.

Questo accade in molte regioni dell’Impero, e nella Venezia Giulia il caso forse più emblematico (anche perché meglio studiato) è quello di Pisino, piccola cit-tà al centro dell’Istria, a maggioranza italiana mentre la campagna è croata. Al-la fine del secolo in quel piccolo borgo di qualche migliaio di abitanti si conta un centinaio di associazioni dei più diversi tipi, tutte rigorosamente doppie: una italiana ed una croata.

Contemporaneamente, a supporto delle pretese nazionali vengono elaborati i mi-ti nazionali, che in parte vengono presi in presmi-tito da quelli creami-ti nel cuore del-la nazione (Firenze, Roma, Venezia, Zagabria), in parte costruiti in loco. Tutti presentano alcune caratteristiche comuni: la rappresentazione mononazionale di una realtà plurale ed i concetti di superiorità della propria nazione, di autoctonia – quest’ultima sempre rivendicata per sé e negata agli altri – e, conseguentemen-te, di diritto esclusivo al possesso della terra. Si tratta di un passaggio importanconseguentemen-te, a livello europeo. I movimenti nazionali tardo-ottocenteschi non concepiscono la diversità nazionale come ricchezza, ma come limite alla piena realizzazione di un’identità nazionale, la propria. Il territorio deve sempre «appartenere» a qual-cuno, cioè ad una sola nazione; e se di fatto ospita gruppi nazionali diversi, essi si considerano rispettivamente come ospiti indesiderati, estranei ad un ordine «natu-rale» delle cose, che va in qualche modo – talvolta in qualsiasi modo – ristabilito. Fra le autorappresentazioni degli italiani e degli slavi ci sono però anche alcune differenze importanti, legate a due diverse idee di nazione. Per gli italiani si trat-ta di una concezione volontrat-taristrat-ta, culturalistrat-ta, inclusiva, che considera naturali i processi di assimilazione. Gli slavi invece, che mutuano la concezione tedesca (Blut und Boden), preferiscono una concezione etnicista, naturalista, che meglio si presta a difendere il corpo della nazione dal rischio dell’assimilazione culturale.

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a partire dagli anni ottanta dell’ottocento accade che chi si inurba provenendo da territori dove si parla sloveno o croato sempre meno è spinto a rinunciare alla propria madrelingua e quindi ad integrarsi in una società italiana Questa differenza si somma ad un’altra, legata alle caratteristiche sociali e del

po-polamento. Per gli italiani, che provengono da una civiltà urbana, potere e le-gittimità abitano in città, mentre le campagne sono considerate semplicemente l’agro dei centri urbani, privo di personalità propria, ed i campagnoli vengono normalmente irrisi. Per gli slavi, invece, il cuore del popolo batte in campagna, dove si coltiva la terra che nutre i cittadini parassiti. Combinate queste due con-cezioni (etnicismo e ruralismo) e trovate un concetto, che nella cultura politica italiana semplicemente non esiste: il concetto di «territorio etnico», vale a dire del territorio abitato dalla popolazione rurale di una nazione, a prescindere dal fatto che al suo interno vi siano o meno delle «isole» urbane di altra nazionalità. Ecco che in questo modo sono stati costruiti due schemi di lettura della realtà del popolamento nazionale assolutamente incompatibili ed incomunicabili. Li trovate espressi con grande evidenza nelle cosiddette «carte etniche» che vengo-no realizzate dagli intellettuali delle varie nazioni e su questi vengo-nodi ruoterà buona parte del dibattito nazionale nel Novecento.

Quindi, nell’area giuliana le nazioni si formano in maniera competitiva, e la prima conseguenza di questa nuova competizione per la nazionalizzazione delle masse, è che vengono meno i precedenti meccanismi di integrazione. Questi funziona-vano in una sola direzione e si fondafunziona-vano sulla modifica degli usi linguistici, che trascinava con sé l’inserimento in una identità culturale. I poli di questo sistema erano le città, che integravano gli apporti esterni. Il caso limite è quello dei centri moderni, Trieste e Fiume, considerati vere «fabbriche di italiani». Trieste in due secoli ha moltiplicato trenta volte la sua popolazione principalmente per via di immigrazione, talvolta anche alquanto esotica. Tutti i cittadini, sia quelli vecchi che parlavano un dialetto friulano, sia quelli nuovi provenienti un po’ dapper-tutto dal continente e sopratdapper-tutto dalle sponde mediterranee attratti dai privilegi dell’emporio, hanno assunto la lingua veneta in quanto lingua degli affari, e sono divenuti italiani: prima culturalmente e poi, progressivamente, anche da un pun-to di vista nazionale. La trasformazione si è compiuta di solipun-to in una o al massi-mo due generazioni, perché di solito viene a coincidere con la promassi-mozione sociale. A partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento però accade che chi si inurba prove-nendo da territori dove si parla sloveno o croato sempre meno è spinto a rinun-ciare alla propria madrelingua e quindi ad integrarsi in una società italiana, per-ché esiste un tessuto associativo culturale e scolastico sloveno e croato, che non solo lo spinge a mantenerla, la sua lingua madre, ma anzi ne fa il perno di una nuova identità collettiva, di tipo nazionale. Ciò significa che in un breve volge-re di tempo sul medesimo territorio si cvolge-reano società progvolge-ressivamente separate. Di conseguenza, il numero di coloro che si considerano politicamente slavi cre-sce, mentre si allarga il suffragio. In Istria alla fine del periodo asburgico gli elet-tori slavi sono probabilmente maggioranza; a Trieste no, ma le proiezioni sono molto inquietanti e prefigurano uno scenario in cui, verso la metà del secolo, gli italiani saranno oramai ridotti in minoranza.

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Le autorità austriache sono sempre meno disponibili a farsi carico della tutela degli italiani, di cui si fidano sempre meno

Nasce così e rapidamente si diffonde fra gli italiani una nuova percezione, quel-la del «pericolo squel-lavo», e si innesca un circolo vizioso. La percezione di perico-lo acuisce il sentimento nazionale italiano, tanto che vent’anni dopo la fine del Risorgimento, gli italofoni di cultura italiana di Trieste si sentono italianissimi e minacciati: di conseguenza guardano sempre più al regno d’Italia come unica protezione e si chiudono nella difesa ad oltranza delle proprie posizioni. A que-sta chiusura a riccio corrisponde un moltiplicarsi delle rivendicazioni del movi-mento nazionale sloveno e croato, che chiede parità di diritti nazionali (ad esem-pio nell’uso pubblico della lingua e nell’insegnamento) e proclama apertamen-te che prima o poi le isole italiane verranno inghiottiapertamen-te dal mare slavo. La risul-tante è la lotta nazionale ad oltranza, che diventa il problema centrale della vita politica nei territori giuliani, con un progressivo aumento del tasso di estremi-smo: fortunatamente, in genere si tratta solo di estremismo verbale, ma è chiaro che decenni di proclami incendiari preparano il terreno per esplosioni più gravi. E veniamo qui ad un punto fondamentale per la comprensione delle dinami-che politidinami-che tra fine Ottocento e metà Novecento, non solo nell’area giulia-na, che è condensato e simbolo di tendenze generali europee. Qual è la posta del conflitto fra i movimenti nazionali? È il controllo delle istituzioni, perché tutti i gruppi dirigenti hanno compreso benissimo il ruolo strategico che le istituzioni svolgono nei processi di nazionalizzazione di massa. In questa vi-sione quindi, che diventa appena possibile pratica politica ed amministrativa, le istituzioni perdono ogni imparzialità rispetto alle tendenze antagoniste pre-senti nella società civile, fino a divenire strumenti di sopraffazione di una parte sull’altra. In epoca asburgica la portata del fenomeno è limitata, perché la com-petizione si svolge in genere nelle amministrazioni locali, cui il sistema asbur-gico affida ampie competenze nelle materie nazionalmente «calde». Quando però all’Impero si sostituiranno, dopo le due guerre mondiali, gli «Stati per la nazione», ecco che saranno le istituzioni dello Stato a raccogliere le richie-ste di intervento provenienti dalle componenti nazionali antagonirichie-ste presenti sul territorio. Ed a quelle richieste le istituzioni statali risponderanno positiva-mente – prima l’Italia e poi la Jugoslavia – lanciando tutta la forza della mac-china dello Stato contemporaneo contro la minoranza nazionale rimasta dalla «parte sbagliata» della frontiera.

Tornando a fine Ottocento, nella competizione nazionale a Trieste e in Istria gli italiani partono in vantaggio, ma rischiano di perderlo rapidamente, perché, agli elementi di fragilità che abbiamo ricordato, se ne aggiungono altri. In pri-mo luogo, le autorità austriache sono sempre meno disponibili a farsi carico del-la tutedel-la degli italiani, di cui si fidano sempre meno, e promuovono una politica di bilanciamento delle nazionalità che mette in discussione quel monopolio del potere locale senza il quale gli italiani si sentono perduti. Lo dirà esplicitamente uno degli ultimi governatori asburgici, il principe di Hohenlohe, che avrà come programma quello di trasformare Trieste in una «città delle nazioni».

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all’irredentismo democratico, che non piace molto alla classe dirigente che si definisce liberal-nazionale, si affianca un altro filone, che guarda invece alle novità del panorama politico italiano, cioè al nazionalismo In secondo luogo, lo sviluppo economico modifica i rapporti di potere: fino alla

metà dell’Ottocento nell’Impero asburgico esistevano tre grandi piazze finanzia-rie: Vienna, Praga e Trieste. Trent’anni più tardi, dopo la grande depressione e la successiva ristrutturazione, ne sono rimaste solo due: Vienna e Praga, Trieste non c’è più. Lo sviluppo economico continua lo stesso, ma oramai è finanziato quasi integralmente o dal capitale austro-tedesco, oppure da quello ceco-slavo. Per di più, il capitale ceco non è politicamente neutro, perché in tutto l’Impero la borghesia ceca si presenta come l’alfiere dei diritti dei popoli slavi, e finanzia ovunque i movimenti nazionali slavi.

Qual è la conseguenza generale? Che l’autonomia istituzionale e il predominio politico degli italiani cominciano a scricchiolare, e senza quella gabbia protet-tiva gli italiani temono di venir facilmente inghiottiti dalla prevalenza numeri-ca di sloveni e croati. Per di più, anche l’autonomia politinumeri-ca si sta svuotando di contenuti, perché la classe dirigente italiana sta perdendo il controllo dei gangli economici in una fase di trasformazione accelerata. Quel che segue è il panico e la soluzione politica escogitata per bloccarlo si chiama irredentismo, vale a dire volontà di distacco dall’Austria e richiesta di annessione all’Italia.

L’irredentismo giuliano ha una parabola piuttosto significativa, esemplare dell’evo-luzione del clima politico non solo nella Venezia Giulia: comincia a sinistra e fi-nisce a destra. Le prime frange irredentiste, che compaiono già nel corso degli an-ni Settanta, sono vicine agli ambienti più radicali del movimento risorgimentale italiano, cioè al garibaldinismo e al mazzinianesimo. È a questo filone «democra-tico», in senso risorgimentale, che fa riferimento quello che viene in genere con-siderato il primo martire dell’irredentismo, Guglielmo Oberdan (la cui vicenda meriterebbe un interessantissimo discorso a parte, perché offre moltissimi spunti). Poi però all’irredentismo democratico, che non piace molto alla classe dirigen-te che si definisce liberal-nazionale, si affianca un altro filone, che guarda inve-ce alle novità del panorama politico italiano, cioè al nazionalismo. Questo pia-ce di più e diventa progressivamente l’ideologia dominante, di fatto condivisa e cautamente supportata anche dalla dirigenza politica liberal-nazionale. Tale è la versione dell’irredentismo che maggiormente si diffonde anche nelle organiz-zazioni di massa su base nazionale create dagli italiani in tutti i territori appar-tenenti all’Austria, su imitazione del modello creato dal movimento pangerma-nista. L’organizzazione principe è la Lega Nazionale, ma a fianco di essa esiste una miriade di altre associazioni, che effettivamente costituiscono un tessuto di massa, antagonista a quello slavo – altrettanto sviluppato – e sempre più fiera-mente avverso all’Austria.

Dal punto di vista del ragionamento politico, l’irredentismo deve però risolvere un problema di fondo, sentito per la verità molto più a Trieste che in Istria. Tutti sanno che dal punto di vista economico Trieste è una costruzione assolutamen-te artificiale dell’impero austriaco, che si regge su di un meccanismo di