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storie fuori daLLa storia

di viviana facchinetti

inter

il perdurare della provvisorietà di vita nei centri di accoglienza e la generale tremula identità del futuro, associati alla propaganda a favore dell’espatrio verso i paesi d’oltreoceano, furono stimolo ad una massiccia emigrazione

Per la sua unicità temporale e di contenuti, l’emigrazione giuliano-dalmata si po-siziona fuori dai tradizionali schemi dell’emigrazione italiana, prodotta dagli an-ni di contingenza economica del Novecento. E ancora rimane poco conosciuta. Fu un dopoguerra lunghissimo quello della Venezia Giulia, che originò un dram-ma in due tempi ed infiniti quadri. Dopo il primo cospicuo esodo conseguente al trattato di Parigi del 10 febbraio 1947, che aveva ceduto al governo di Tito la Dalmazia, Fiume e l’Istria meridionale, nel 1954 il memorandum di Londra san-cì la fine dell’amministrazione anglo-americana sulla «Zona A» del Territorio Li-bero di Trieste – che poté ricongiungersi all’Italia – mentre lasciò alla Jugoslavia il rimanente territorio istriano, contrassegnato come «Zona B». Per la situazione venutasi a creare – spesso persecutoria – che disconosceva la loro identità italia-na e italia-nazioitalia-nalizzava i loro averi, anche tantissimi abitanti di quelle terre si trova-rono nelle condizioni di doversi staccare dalle proprie radici.

I profughi istro-dalmato-quarnerini giunsero in Italia in momenti, modi e con-dizioni diverse. Ad accomunarli quasi tutti però, fu la sosta nei campi di acco-glienza, in cui per anni venne allestita la loro sistemazione: o in baracche diver-se, che separavano uomini da donne e bambini, oppure in grandi cameroni, che coperte posate su corde stese fra le pareti, trasformavano in un alveare di «mo-novani» familiari. I servizi, collettivi e centralizzati.

Ad ogni arrivo a Trieste, si ripeteva anche il triste rituale del deposito, nei ma-gazzini del porto vecchio, delle masserizie portate in salvo dalla propria casa. Si sarebbe dovuto trattare di un’operazione provvisoria: sono divenute materiale per il museo dedicato all’esodo.

Il perdurare della provvisorietà di vita nei centri di accoglienza e la generale tre-mula identità del futuro, associati alla propaganda a favore dell’espatrio verso i Paesi d’oltreoceano, furono stimolo ad una massiccia emigrazione. Le disposi-zioni che la regolamentavano, prevedevano il contingentamento delle ammissio-ni alle partenze, precedute queste da severe visite mediche di controllo e subor-dinate all’accettazione di un contratto di lavoro, che quasi sempre contemplava mansioni di manovalanza generica o di bracciantato agricolo. Per chi non viag-giava con il supporto dell’IRO (International Refugee Organization), nei due anni successivi c’era l’obbligo del rimborso del biglietto di viaggio.

Furono in tanti a salpare verso il Canada. Le navi più frequenti la Vulcania e la Saturnia, se il porto d’imbarco era Trieste o comunque in Italia. Cospicuo fu in-fatti anche il numero degli esuli mandati in Germania, nel campo IRO di Bre-men, ad attendere il trasferimento oltreoceano. Quasi sempre lo sbarco avveni-va ad Halifax, sul famoso Pier 21, il molo divenuto il simbolo canadese dell’im-migrazione ed ora museo. Dei primi successivi momenti, due sono le voci che particolarmente emergono come denominatore comune nei ricordi di ogni no-stro emigrato. Una è la deludente scoperta dell’unico tipo di pane allora in ven-dita: a cassetta, confezionato, di consistenza stuccosa e dal sapore sgradevole. La seconda è l’allucinante viaggio di tre giorni per il trasferimento alle località di

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È incredibile il numero di nostri conterranei che nell’ultimo dopoguerra si trovarono ad attraversare l’atlantico, per continuare altrove il loro futuro. e dell’incredibile hanno le vicende che si trovarono ad affrontare destinazione, fatto su di uno sbuffante treno a vapore, vecchio e degradato,

ge-neralmente paragonato ad un carro bestiame.

È incredibile il numero di nostri conterranei che nell’ultimo dopoguerra si trova-rono ad attraversare l’Atlantico, per continuare altrove il loro futuro. E dell’incre-dibile hanno le vicende che si trovarono ad affrontare. Anni di rinuncia e stenti sono stati però dignitosa premessa ad una generale conferma nella patria di ado-zione. Ci sono faticose storie di successo, legate alla terra ed all’agricoltura, pa-rallele a gratificanti percorsi nell’imprenditoria e nel mondo culturale canadese. Ad accomunare quella moltitudine che ha trovato una serenità esistenziale sulle rive dei grandi laghi americani, il ricordo della terra d’origine, spruzzato di sal-sedine dell’Adriatico.

Oggi nella regione nordamericana sono ancora 250 le famiglie originarie dell’Istria. Al tempo, il gruppo più consistente fu quello insediatosi a Chatham, cittadina dell’Ontario – attualmente di 43.000 abitanti – a sud-ovest di Toronto. Fu per potenziare la produzione agricola dell’area nonché la manodopera dello zucche-rificio e dell’industria del tabacco locali che, negli anni seguenti alla diaspora, i profughi istriani vennero allettati con seducenti prospettive di benessere, illustra-te da emissari del governo Canadese, inviati a contattarli di persona nei campi profughi funzionanti a Trieste.

La sistemazione logistica, una volta arrivati, quasi sempre era un’incognita: per bene che andasse, si risolveva in fatiscenti casolari abbandonati, da risistemare, lontani da tutto e tutti. Il lavoro nei campi era durissimo, a cottimo e stagiona-le. Doveva dare remunerazione sufficiente a coprire il periodo di lunghi inver-ni, nevosi e freddi, con poche opportunità di un impiego che andasse a sostitui-re quello estivo. Per alcuni c’era la possibilità di occupazione nello zuccherificio o nella fabbrica tabacchi, dove – dopo il raccolto e l’essiccazione – c’era la fase conclusiva della lavorazione delle foglie di tabacco, destinato alla produzione di sigari. Settore questo che, specialmente all’epoca della crisi di Cuba, ebbe note-vole impulso.

Le aree da curare si estendevano a perdita d’occhio. Talvolta in un giorno si riu-sciva a stento a coprire due file di zolle: una nel senso dell’andata, l’altra in quel-lo del ritorno… e con appresso bambini anche molto piccoli. Si cominciava che non era ancora giorno, si finiva che il sole era già tramontato. Da scuro a scuro

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Questo intervento è la sintesi di un confronto a più voci a cui hanno partecipato, ol-tre all’autrice, presidente della Commissione Formazione dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Antonella Braga e Mauro Begozzi (Isti-tuto storico della Resistenza e della società contemporanea nel Novarese e nel Verbano Cusio Ossola «Piero Fornara» – Novara), Enrico Pagano (Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli «Cino Mo-scatelli»), Luciana Rocchi (Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contem-poranea), Maria Rocchi (Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resi-stenza), Fabio Todero (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia).

Prima che nel 2004 fosse istituito il «Giorno del Ricordo», nella rete degli Isti-tuti della Resistenza e dell’età contemporanea facenti capo all’InsmlI 1 il tema era stato messo più volte all’ordine del giorno dall’Istituto di Trieste 2. È stato questo Istituto a produrre fin dagli anni sessanta le ricerche storiografiche più serie 3, quelle che hanno contribuito a definire poi la Venezia Giulia «un labo-ratorio della contemporaneità nell’Europa centrale». In esso hanno lavorato per anni fianco a fianco docenti dell’università e della scuola pubblica, gli uni e gli altri interessati alla condivisione e allo scambio dei punti di vista. Questa, del re-sto, è una caratteristica della Rete dell’InsmlI.

l’Istituto ha aperto gli anni Ottanta con Storia di un esodo. Istria 1945-1956 4; negli anni novanta, con la crisi jugoslava e le guerre che ne sono derivate, ha po-tenziato l’impegno nella scuola e per la scuola; il volume Il confine mobile.

Atlan-te storico dell’Alto Adriatico 1866-1992. Austria, Croazia, Italia, Slovenia 5, fu uno strumento preparato da un gruppo di insegnanti per i colleghi e per gli studenti.

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