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Il “grato perdimento”

L’elaborato concetto di grazia, non senza un’esplicita relazione con la prassi albertiana precedente, è funzionale a comprendere come questa vitalità dell’ombra ereditasse alcuni caratteri della concezione quattrocentesca della bellezza.

Anche in rapporto ad un’estetica dell’ombra alcune intuizioni erano presenti nel De

Aspectibus di Alhazen. Władysław Tatarkiewicz aveva notato vi fosse presente

un’embrionale riflessione sulla bellezza (pulcritudo) delle ombre e delle tenebre, capaci entrambe di favorire, con il potenziale oscurante e velatorio che è loro proprio, la percezione della proporzione cosmica311. La cultura platonica cristiana aveva fatto della luce

(lux) uno dei termini emblematici dell’estetica teologica metafisica la cui assolutezza era riflessa da una visione nitida e trasparente, spogliata di quelle sfumature e oscillazioni percettive che appartenevano al cangiante del reale. Alhazen, muovendo da coordinate empiriche esenti da urgenze trascendenti immediate, accoglieva invece nel suggerito pancalismo della sua impostazione aristotelica anche elementi appartenenti al dinamismo dei fenomeni, tra cui erano comprese tanto l’ombra quanto l’oscurità in generale, insieme alle altre visibiles intensiones.

“Umbra facit apparere pulcritudinem, quoniam multis formis visibilium sunt macule et pori subtiles reden eas turpes, et cum fuerint in luce solis, apparebunt macule eis, quare latebit pulcritudo eorum. Et cum fuerint in umbra aut in luce debili, latebunt ille macule et ruge, quare apprehenditur pulcritudo eorum. Et etiam tortuositates que apparent plumis avium et in panno qui dicitur alburalmon in umbra onn apparent et in luce debili. Et obscuritas facit pulcritudinem apparere, quoniam stellae non apparent nisi in obscuro. Et similiter non apparet pulcritudo earum nisi in nigredine noctis et in locis obscuris et latet in luce diei. Et stellae in noctibus obscuris sunt pulcriores quam in noctibus lunae”312.

Le tenebre sono belle perché favoriscono la percezione della luce, e la volta universale del cielo, grazie ad esse, risplende di infinite stelle. La bellezza delle tenebre è quindi una bellezza “in negativo”, una bellezza dell’assenza a vantaggio dello splendore che ne risulta valorizzato. L’ombra invece è pulchra perché al contempo nasconde e cela: può infatti celare dei difetti di un volto velandoli con la sua graduale oscurità in una luminosità debole (in luce

debili): ha perciò una qualità plastica che interagisce con il corpo cui si sovrappone

conferendogli una più o meno marcata visibilità. Si avvertiva già, in nuce, un soggiacente interesse per la qualità velata dell’ombrosità che, eccettuato il Fontana, non trovava ancora espressione.

311 Tatarkiewicz W., Medieval aesthetics, Mouton, The Hague 1970 312 Alhazen, De Aspectibus, op. cit., liber I.

Sul piano pittorico la convergenza strutturale di luminismo figurativo e canone artistico, visibile con il primissimo Rinascimento, subisce una serie di curve evolutive nel corso del XVI secolo che accompagnano, a valle, la trasformazione della sensibilità chiaroscurale, conducendo molto presto, già con Leonardo, a tradurre il nitore aggraziato di Alberti o la sua leggiadria di lumi distesi in dialogo sommesso di ombre dense e lumi soffusi (Leonardo) palesando molto presto i segni di una svolta che, con la licenza sprezzante di Aretino, Vasari o Dolce sarà la cifra di stile di un perfezionamento concettuale conclusivo, aperto sul Seicento. Questa transizione graduale dalla concinnitas albertiana alla grazia leonardesca, e dalla venustas quattrocentesca alla sprezzatura vasariana, scorre al di sotto di esperienze pittoriche intrise di una sperimentalismo che comprende anche, tra le altre cose, innovative poetiche della luce e dell’ombra ben al di fuori di recinti canonici e prospettive normative conclamate. Nell’opera di Alberti (De Pictura, De re aedificatoria) il concetto di

grazia si è rivelato per molti versi assimilabile a quello di concinnitas; non solo associandosi,

come vedeva Sciolla, ai temi del movimento e della varietas, e in questo anticipando quel “non so che” che ne avrebbe contraddistinto la pregnanza cinquecentesca, ma anche esprimendosi in una coesione evidente con i termini della misura, della simmetria e della loro conseguente bellezza ideale: “Ex superficierum compositione illa elegans in corporibus concinnitas et gratia extat, quam pulchritudinem dicunt”313.

Nelle traduzioni cinquecentesche tale coesione passa talvolta attraverso la sostituzione terminologica delle due parole314. Lodovico Domenichi nella prima versione volgare edita

del lavoro albertiano, traduce il passo citato semplificandone la portata alla sola grazia ed eludendo dal testo la concinnitas (“In questa composizione di superficie dunque, s’ha da cercare sovra tutto gratia e bellezza”315), quasi a sostenerne indirettamente l’osmosi, mentre

il Bartoli rende la concinnitas con leggiadria. Tale convergenza restituiva un concetto sfrangiato e mobile ma complessivamente capace di esprimere con precisione una tensione ordinante e classica, matura espressione di una concezione compassata della vita intellettuale che aveva nell’elusione degli estremi e nel giusto mezzo temperato il senso generale di un’attitudine poetica apollinea. L’ideale phronetico di Alberti, ancora perfettamente aristotelico, ha il respiro creativo di una visione nascente, che fa dell’estetica

313 De Pictura, libro II. Comunque leggermente diversa l’opinione di Giancarlo Sciolla, che ne vede

l’espressione soprattutto legata alla venustà dei movimenti e alla bellezza della varietà dei colori sulla superficie dipinta, in un certo senso già evocando quella componente plurale e dinamica (i movimenti, la varietas) da cui sarà in seguito determinata. Vedendone la medesima rilevanza nell’opera di Pino, l’autore sosteneva soprattutto la rilevanza cinquecentesca della grazia. Sciolla G.C., Grazia, prestezza, terribilità : definizione e ricezione della pittura in Paolo Pino e Lodovico Dolce, “Arte documento”, anno 2000, pp. 92-95, p.92. Si veda inoltre l’apporto di Pozzi, Mattioda, Giorgio Vasari

storico e critico, pp.206-207, che pur non considerando il vincolo concinnitas-grazia, vedono come la

posizione di Alberti sia di apertura, nonostante la sua vaghezza.

314 Cfr., Maraschio N., Il “De pictura” albertiano nelle traduzioni cinquecentesche di Lodovico

Domenichi e di Cosimo Bartoli, in Beniscelli A., Furlan F., a cura di., Leon Battista Alberti (1404- 72) tra scienze e lettere : atti del Convegno organizzato in collaborazione con la Société internationale Leon Battista Alberti (Parigi) e l'Istituto italiano per gli studi filosofici (Napoli), Genova, 19-20 novembre 2004, pp.260-286.

315 Domenichi L., La pittura di Leon battista Alberti, In Vinegia : appresso Gabriel Giolito de Ferrari,

una suprema forma etica; così che lo scompenso dichiarato dall’ombra, supposto da una precisa concezione mimetica, non era abbastanza giustificato nel quadro da comprometterne l’ordine imprescindibile316.

La gravità del luminismo che invece si deduce dall’opera leonardesca e dai suoi appunti di studio, oltre a definire la matura acquisizione di un linguaggio sofisticato capace di addensare la ricerca pittorica intorno a temi di per sé elusi dalla visione quattrocentesca (le ombre sfumate, i lumi degli interni, etc.) riflette contemporaneamente un più sottile e sotteso tratto estetico.

Per quanto il concetto di chiarezza sia nel suo lavoro superato in favore di una concezione crepuscolare del gusto “mezzo”, declinazione nebulosa della medesima idea di equilibrio disteso317, resta evidente la coscienza che un determinato tipo di alterazione chiaroscurale

fosse, di fatto, viziosa e quindi “peccaminosa” (disonesta pittoricamente in quanto carente visivamente), e che il sapere ottico del pittore, essendo chiamato ad una pittura di equilibrio che rispondesse alla medietas della percezione, non dovesse fare altro che evitare di attualizzarne la contraddizione. L’attenzione ai lumi artificiali è quindi presente ed ha prima di tutto una funzione plastica molto precisa318 (il rilievo), ma si viene rapportando

immediatamente al fatto imprescindibile che l’impiego di lumi ravvicinati artificiali, se favorisce il senso tridimensionale dei corpi, alimenta al contempo una tipologia figurativa del disordine, tanto da poter compromettere la grazia diffusiva assurta invero a modello dell’arte pittorica.

Quel corpo che si troverà in mediocre lume, fia in lui poca differenza dai lumi all’ombre, e questo accade sul fare della sera o quando è nuvolo e queste opere sono dolci e àcci gratia ogni qualità di volto, sicché in ogni cosa li stremi sono vitiosi: il troppo lume fa crudo, il troppo scuro non lascia vedere: il mezzano è bono”319.

Una luce eccessiva come quella del fuoco o del sole implica una polarizzazione diretta che estenua i rapporti di chiaro e di scuro compromettendo il mezzano del loro equilibrio armonico. Sono i concetti di dolcezza e di grazia a rappresentare, in un certo senso, il risvolto estetico del lume mezzano, come se la capacità di rendere conto di una percezione dettagliata e complessiva mantenesse anche la promessa della bellezza affidata alla pittura e della sua unità interna320. Come il lume diffuso, che è quasi un’ombra perlacea distesa a velare

i fenomeni (tramonto, nuvole) favorisce l’uniformità dell’immagine, il lume particolare, il cui

316 Si noti come sia ancora preponderante sia la notazione etica di Aristotele sul giusto mezzo della

Nicomachea, quanto persista ancora la sintesi di ottima percezione e giusto canone visivo. Sul tema si

veda.

317 Su questo tema si può vedere Barash M., luce e colore, op. cit.

318 “il lume particolare è causa di dar miglior rilievo ai corpi ombrosi, che l’universale, come ci

mostra il paragone di una parte di campagna illuminata dal sole, ed una ombrata dal nuvolo, che solo si illumina del lume universal e dell’aria”. Leonardo, Trattato.

319 Leonardo, Trattato, cap.699, p.291.

320 Si noti come sia ancora preponderante sia la notazione etica di Aristotele sul giusto mezzo della

Nicomachea, quanto persista ancora la sintesi di ottima percezione e giusto canone visivo. Sul tema si

frutto visivo è l’intensificazione del contrasto, la nega nella sua unità interna. Per questo, quando Leonardo propone di dipingere figure nel suo giardino, chiede che fosse preparato un telo da porre in alto, sopra i soggetti da imitare, in modo che attenuasse l’incidenza diretta del sole sui corpi ombrosi agevolando il pittore nel cogliere i profili fluidi delle ombre e non piuttosto la loro cruda nitidezza321. “Il lume tagliato dall’ombre con troppa evidenza –

scrive infatti – è sommamente biasimato”, perciò non si faranno figure alluminate dal sole, “ma fingi alcuna quantità di nebbia o nuvoli trasparenti, essere interposti infra l’obbietto et il sole, onde non essendo la figura dal sole espedita, non saranno espediti i termini dell’ombre con quelle de’ lumi”322. La cosa è tanto più evidente quando il Vinci ci chiede di

dipingere figure a lume di candela in una stanza riconoscendo l’affaticamento ottico cui i contrasti marcati conducevano.

“A questo lume di notte sia interposto il telaio con carta lucida, o senza lucidarla, ma solo un intero foglio di cancelleresca; e vedrai le tue ombre fumose, cioè non terminate; e il lume senza interposizione di carta ti faccia lume alla carta ove disegni”.

Appannare la scena per svincolarsi dalla necessità di rendere crudo e acuto il contrasto. Qui si nota altresì un primo passaggio in favore di una intelligente “non terminazione” delle ombre, della loro fumosità che acquista un valore positivo risolvendo per il soggetto a lume

di notte la difficoltà intrinseca della luce artificiale “in scena” con un escamotage tecnico.

Ad ogni modo il rapporto che vincola senso della grazia e dinamica dei lumi è il medesimo che in Alberti sposava equilibrio di bianco e nero e concinnitas. Idee divise ma inseparate, il cui legante è determinato dal fatto che l’armonia della percezione e di conseguenza quella dell’immagine dipendono dall’intensità della dialettica dei lumi, che diventa quindi strumento di primario senso estetico.

Possediamo diversi appunti leonardeschi per cui lume e grazia si inanellano dando vita ad una prospettiva visuale che ha nella luminosità il suo momento più esplicito e indicativo. In un passo relativo all’imitazione di una figura umana tale sfumatura di senso caratterizza molto bene la svolta proposta dal toscano. Se l’immagine che devi rappresentare è dentro “una casa oscura, e tu la vedi di fuori”, scrive, “questa tal figura ha le ombre oscure sfumate, stando tu per la linea del lume; e questa tal figura ha grazia, e fa onore al suo imitatore per esser essa di gran rilievo e le ombre dolci e sfumose, e massime in quella parte dove manco vedi l'oscurità dell'abitazione, imperocché quivi sono le ombre quasi insensibili”323. In questi passaggi sta già la grande tradizione ritrattistica settentrionale di

tutto il secolo, che si esprimeva con Giorgione, con Lotto (fig.55), con Correggio (fig.54), con Parmigianino, spesso a lume scuro o lume notturno. Allo sguardo verso la finestra, che dà su un interno, quasi antitetica rispetto alla finestra albertiana che si apre sull’esterno,

321 Nella definizione di Filippo Baldinucci, la Maniera cruda, “Dicesi quella di quei pittori, che non

sapendo valersi delle mezze fiate, trapassano senza termine di mezzo quasi da profondi scuri agli ultimi chiari, e così fanno le loro pitture con quasi nessuna imitazione del vero, e senza rilievo”;

Vocabolario toscano dell’arte del Disegno, Studio per Edizioni Scelte, Firenze 1975, ad indicem.

322 Leonardo, Trattato, cap. 39; Delle qualità del lume per ritrar rilievi naturali e finti 323 Leonardo, Trattato, cap. 83

consegue l’idea che la grazia possa dipendere dalla corretta rappresentazione dell’ombra. La

grazia inizia così a discostarsi dalla concinnitas di Alberti, il quale mai avrebbe accolto le

ombre sfumate a modello canonico dell’arte. Le ombre, qui, devono essere dolci, cioè non crude, unite, ribadendo la medietas dell’ideale comune; con Leonardo, però, esso è risolto nel gioco della penombra e non nell’equilibrio post-medievale dello splendore di Alberti o di Ghiberti. La grazia che ne deriva si configura come la gradevole impressione che nasce dalla qualità luminosa interpretata non tanto dalla luce ma dalle ombre, “massime in quella parte dove manco vedi l’oscurità”, cioè dove la percezione dell’abitazione è praticamente assente (“quivi le ombre quasi insensibili”). All’oggetto

s’aggiungerà la gratia d’ombre con grato perdimento, private integralmente da ogni termine spedito: e questo nascerà per causa della longhezza del lume che passa infra i tetti delle case, e penetra infra le pareti, e termina sopra il pavimento della strada e risalta per moto riflesso ne’ luoghi ombrosi de’ volti, e quelli alqanto rischiara E la lunghezza del già detto lume del cielo stampato dai termini de’ tetti con la sua fronte, che sta sopra la bocca della strada, allumina quasi insino vicino al nascimento delle ombre che stanno sotto l’oggetto del volto” 324.

Si sta preparando quella che già Vasari comprendeva come un’acquisizione definitiva nel dominio della pittura moderna. Alla grazia delle figure per mezzo delle ombre e dei lumi è dedicato un capitolo:

Grandissima grazia d'ombre e di lumi s’aggiunge ai visi di quelli che seggono sulle porte di quelle

abitazioni che sono oscure, e gli occhi del riguardatore vedono la parte ombrosa di tali visi essere oscurata dalle ombre della predetta abitazione, e vedono alla parte illuminata del medesimo viso aggiunta la chiarezza che le dà lo splendore dell'aria: per la quale aumentazione di ombre e di lumi il viso ha gran rilievo, e nella parte illuminata le ombre quasi insensibili, e nella parte ombrosa i lumi quasi insensibili; e di questa tale rappresentazione e aumentazione d'ombre e di lumi il viso acquista assai di bellezza”325.

La grazia, sembra dirci Leonardo, deriva da una condizione di visibilità anche spazialmente liminare, giocata su orli e su profondità di spazio, nelle quali la difficile coesistenza di ombre vacue e punti luce saettanti fornisce una necessaria circostanza di interrogativo estetico. Sotto il medesimo profilo è compresa anche la questione immancabile del rilievo: in un passo dedicato alla comprensione della migliore fonte di illuminazione di una figura stagliata su una parete oscurata, la grazia è intesa soprattutto in senso plastico, ovvero traduce il migliore rilievo di essa.

Già da questi pochi passi si deduce una definizione polisemica del termine, che ha però nella trattazione del Vinci una specificità luministica tale da contraddistinguerne poi, anche nella critica successiva, la peculiarità. Nel Dialogo di Pittura del veneziano Paolo Pino

324 Leonardo, Trattato, cap.416 325 Leonardo, Trattato, cap.90.

(1548)326, che conosceva senza dubbio il pensiero leonardesco e che molto poteva aver

tratto dalla traduzione del De Pictura albertiano di Lodovico Domenichi (1547), la grazia è ancora pensata in relazione al chiaroscuro e assume una esplicita valenza luministica oltre che plastica327. Anche secondo Ludovico Dolce, che scrive nell’ambito della cultura figurativa

veneta, la grazia assume una inevitabile accezione luministica, poiché appartiene a quella

sprezzatura, su cui torneremo, che ha valore proteiforme, ma che pure traduce il fenomeno

luminoso nell’arte328.

Tra questi scritti, la riflessione di Leonardo mette però a fuoco con maggiore chiarezza come venisse mutandosi il concetto della grazia in rapporto alla luce. Leonardo ci parla della

grazia accentando soprattutto un difficile equilibrio di lumi accesi e di ombre profonde, che

la schiude ad un panorama teorico in cui la bellezza del nitore diffuso (claritas) venisse gradualmente superata dallo sfumato equilibrio di intensità di lumi e ombre con giudizio e

sprezzatura (Castiglione). La grazia leonardesca accoglie, cioè, la profondità dell’ombra,

aggravando il paradigma di Alberti, ancora troppo matematico e troppo “affettato” per poter rendere il senso universale di una natura che si stava scoprendo animata di una potenza immanente e trasformativa sempre più fluida, fiorente, umida. Di qui assaporiamo un primo e fluido passaggio verso un’estetica delle ombre.

Si può notare a questo proposito ancora un aspetto. Leonardo accetta, come Alberti e come Fontana, che la pittura debba in primo luogo rendere la vitalità tridimensionale di ciò che rappresenta, e ha quindi bisogno del rilievo e del chiaroscuro marcato e profondo per potere compiere il suo dovere espressivo, prima che narrativo. L’uso delle ombre è però estremamente pericoloso, lo abbiamo visto, se l’obiettivo dell’artista è quello di rendere le immagini anche piacevoli, gradevoli alla vista, perché smorza e spesse volte incupisce l’impressione complessiva dell’immagine. Lo scarto sottile ma emblematico di Leonardo si coglie in un passaggio in cui l’autore accenta l’elemento mimetico contro quello estetico, agendo quindi in contrasto con la logica albertiana e provvedendo a consigliare il pittore di

326 Pino P., Dialogo della Pittura di Messer Paolo Pino, nuovamente dato in luce, P. Gherardo, Venezia 1548,

in Barocchi P., a cura di, Trattati d’arte del cinquecento tra manierismo e controriforma, 3 voll., Laterza, Bari 1960, I, pp.93-139

327 “Del lume, ultima parte et anima del colorire, dicovi ch’all’imitazione del propio vi conviene aver

buon lume, che nasci da una finestra alta, e non vi sia refletto de sole o d’altra luce. Questo perché le cose che ritraggete si scuoprano meglio e con più graziato modo, et anco le pitture hanno più di forza e rilevo, et in ciò loderei ch’il pittore eleggesse il lume nell’oriente, per esser l’aria più temperata e gli venti di quello men cattivi”.

328 Cfr. Sciolla G. C., Grazia, prestezza, terribilità : definizione e ricezione della pittura in Paolo Pino e Lodovico

Dolce, “Arte Documento”, a. 2000, p.95-25. Ludovico Dolce considera i lumi all’interno del

discorso sul colore. Dopo aver spiegato come usarli nel modo più efficaci in modo da fingere il cangiante del divenire delle manifestazioni, specifica che per riuscirvi fosse necessaria una certa sprezzatura, che vincesse il difetto dell’affettatura, la quale priva di grazia la pittura. Dolce, Dialogo

della pittura di M. Ludovico Dolci intitolato l’Aretino, nel quale si ragiona della dignità di essa pittura e di tutte le parti necessarie che a perfetto pittore si acconvengono, Venezia, G. Giolito de Ferrari, 1557, in Barocchi P., a

cura di., Trattati d’arte del cinquecento tra manierismo e controriforma, 3 voll., Laterza, Bari 1960, I, pp. 141- 206.

Sprezzatura e affettatura sono, inequivocabilmente, termini dedotti dal Cortigiano di Baldassarre

Castiglione. Cfr. Roskill M. W., Dolce’s Aretino and the venetian art theory in Cinquecento, 2000 (prima edizione 1968).

sacrificare una bellezza generale e diffusa in favore di un dipinto che spicchi fuori dal quadro.

“Non è sempre buono quel che è bello, e questo dico per quei pittori che amano tanto la bellezza de’ colori, che non senza gran coscienza danno lor debolissime, e quasi insensibil ombre, non stimando il lor rilevo. Et in questo errore sono i ben parlatori senza alcuna sentenza”329.

Si vede infatti che le ombre rischiano di smorzare attivamente l’armonia del colore. Eppure,