Ora, sembra che irrigidire le Vite di Vasari dietro categorie stringenti e ubiquitarie rischi di smorzare la bellezza narrativa che gli è propria in favore di un’analisi statica che non ne rispetti, in ultimo, il vitalismo vibrante. Talvolta si dà anzi in Vasari un sincretismo di idee e di termini391 che è il frutto di un atteggiamento narrativo oltre che storico e teorico. Roland
le Mollé riconosceva, d’altro canto, almeno quattro modelli e generi alla base della scrittura delle Vite392, e secoli di ricerca storica hanno aperto rivoli di studio e di interpretazione che
mostrano l’effettiva pluralità di fonti antiche e moderne che stanno alla base delle due edizioni delle Vite, abbastanza da schiudere ad una proficua e irriducibile eterogeneità di spunti e di modelli. Alcuni studi hanno concentrato, anche per questo, l’attenzione sull’ekphrasis come strumento privilegiato di distendere idee estetiche e poetiche precise calandole nella vita esemplare degli artisti e nell’“animismo” fecondo delle loro opere393,
laddove Vasari precorre Longhi: la descrizione come metodo e cuore del discorso. Da una parte, allora, le Teoriche, e dall’altra le vite, i racconti che ne mettevano in campo liberamente valori e ricerche. Si lascerà parlare un’immagine, quindi, per ascoltare quanto in essa Vasari ha da dirci.
Per quanto riguarda l’oscurità, sono molti i passi che possono essere impiegati per raccontare l’evoluzione che stiamo seguendo e l’esercizio letterario dei topoi che la accompagnano. Si prenda allora in considerazione il bellissimo dipinto di Mariotto
391 Cfr. Ferrari S., Panofsky e Vasari : alcune considerazioni, 2001.
392 Le Mollé R., Georges Vasari et le vocabulaire de la critique d’art dans les "Vite", Ellug 1988.
393 Su questo aspetto Alpers S., Ekphrasis and Aesthetic Attitudes in Vasari's Lives, in “Journal of the
Albertinelli conservato presso le Gallerie dell’Accademia di Firenze, realizzato in un periodo cha va dal 1506 al 1511 per l’altare maggiore della Compagnia di San Zenobi nei pressi della cattedrale della città394 (fig.40)
L’effetto immediato che provoca il dipinto di Albertinelli alla vista è quello di un’opera il cui valore estetico appare da subito calibrato da un dialogo evidente di profondità e di piani. Lo sfondo della casa, quasi una chiesa, in cui l’evento dell’Annunciazione è ambientato, si spinge verso un’ombra fitta, che lascia solo trasparire alcuni dettagli della decorazione, favorendo lo stacco netto dei protagonisti della scena, in primo piano, posti quasi sulla cornice dell’immagine come a volerne segnare la pregnanza fisica, cercando anzi di “invadere” per mezzo di un chiaroscuro intensificato, l’ambiente dell’osservatore con la derivata accentuazione del radicalismo statuario e naturalistico delle figure. Dietro di loro, assorbiti da una prospettiva ribassata, le angolature delle colonne e delle cornici su cui si imposta l’arco centrico della scena, appaiono rischiarate da macchie chiare di colore, molto netto e quasi trasparente, che detta la struttura rigorosa dell’immagine, liberata dal suo geometrismo solo nella parte alta del quadro, dove l’immagine perlacea e viola della luce che accompagna Dio Padre, quasi generando un controluce, si irradia magicamente saturando le vesti cangianti degli angeli musici, disposti a raggera intorno a Lui, impreziosendo il fondo caliginoso di intarsi di colore squillante. La luce divina dell’alto spalanca una voragine verticale di forma circolare verso il cielo trascendente attraendo ad uno spazio altro che si affaccia con tutta la sua potenza sull’antro ombroso sottostante. La dialettica di lumi e di ombre che deriva da tale macchina scenica mette in evidenza una profonda coscienza linguistica nell’uso alternato del chiaroscuro. Se ne comprendono, qui, tanto la potente intonazione spaziale orizzontale, quanto la coinvolgente attrazione luminosa verticale, che nel panorama fiorentino di quel momento, dopo le prove di Fra Bartolomeo in San Marco, acquisiva una risonanza molto nuova. Cogliendone la rilevanza, con il gusto narrativo che lo contraddistingue, l’aretino costruisce per Mariotto una scena topica che diventa il prototipo di una classica sfida del pittore alle difficoltà dell’arte, e il tema che si trova a dover risolvere il giovane allievo di Fra Bartolomeo è abbastanza tipico da essere presente anche in altri casi delle Vite. Si tratta del dialogo complesso di lumi e di ombre, di crudezza e di dolcezza, di profondità o di copertura, a mostrarci dove si ponesse il punto nevralgico di questa sottile dialettica.
“Prese a fare nella Compagnia di S. Zanobi, allato alla canonica di Santa Maria del Fiore, una tavola della Nunziata, e quella con molta fatica condusse. Aveva fatto far lumi a posta, et in su l’opera la volle lavorare, per potere condurre le vedute, che alte e lontane erano, abbagliate diminuire e crescere a suo modo. Eragli entrato in fantasia che le pitture, che non avevano rilievo e forza et insieme anche dolcezza, non fussino da tenere in pregio; e perché conosceva che elle non si
394 A proposito del quadro di Mariotto, si può vedere Borgo A., The works of Mariotto Albertinelli,
Garland, New York 1976, pp. pp.107-112; pp.318-325. Documentazione d’archivio reperibile in Poggi G., Appunti d’Archivio : della serie dei "Miracoli di S. Zanobi" di Sandro Botticelli, dei "Miracoli di S.
Zanobi" di Ridolfo del Ghirlandaio agli Uffizi e dell’"Annunciazione" di M. Albertinelli nella Galleria dell’Accademia., in “Rivista d’arte”, n.9, 1916, pp. 62-67, L’opera è citata tra i casi di alterazioni
cromatiche da McGrath T., Color and the Exchange of Ideas between Patron and Artist in Renaissance Italy, in “The Art Bulletin”, vol.82, n.2, 2000, pp.298-308.
potevon fare uscir del piano senza ombre - le quali avendo troppa oscurità restano coperte, e se son dolci non hanno forza -, egli arebbe voluto agiugnere con la dolcezza un certo modo di lavorare che l’arte fino allora non gli pareva che avesse fatto a suo modo: onde, perché se gli porse occasione in questa opera di ciò fare, si mise a far perciò fatiche straordinarie, le quali si conoscono in uno Dio Padre che è in aria et in alcuni putti, che sono molto rilevati dalla tavola per uno campo scuro d’una prospettiva che egli vi fece, col cielo d’una volta intagliata a mezza botte, che girando gli archi di quella e di minuendo le linee al punto, va di maniera indentro che pare di rilievo; oltra che vi sono alcuni Angeli che volano spargendo fiori, molto graziosi. Questa opera fu disfatta e rifatta da Mariotto innanzi che la conducesse al suo fine più volte, scambiando ora il colorito o più chiaro o più scuro, e talora più vivace et acceso et ora meno; ma non si satisfacendo a suo modo, né gli parendo avere agiunto con la mano ai pensieri dell’intelletto, arebbe voluto trovare un bianco che fusse stato più fiero della biacca: dove egli si mise a purgarla per poter lumeggiare in su i maggior’ chiari a modo suo. Nientedimeno, conosciuto non poter far quello con l’arte che comprende in sé l’ingegno et intelligenzia umana, si contentò di quello che avea fatto, poi che non agiugneva a quel che non si poteva fare; e ne conseguì fra gli artefici di questa opera lode et onore, con credere ancora di cavarne per mezzo di queste fatiche da e’ padroni molto più utile che non fece, intravenendo discordia fra quegli che la facevano fare e Mariotto”395.
40. Mariotto Albertinelli, Annunciazione, Firenze, Gallerie dell’Accademia, 1510 circa
Si nota in primo luogo la distanza che intercorre tra questo passo e quello corrispondente dell’edizione Torrentiniana, in cui Vasari si limita a ricordare l’opera archiviandola molto presto per la fatica che Mariotto vi aveva impiegato e per l’insoddisfazione dei committenti, senza suggerire nulla dell’impegno che, secondo l’edizione del ‘68, avrebbe comportato la sua fattura396. Lo scarto significativo che si gioca tra le due edizioni nel definire e
concettualizzare più precisamente determinate evoluzioni stilistiche è tra gli elementi che hanno favorito l’elaborazione di un più evidente concetto di oscurità, chiamato in causa, come vedremo, soprattutto in aggiunte subite dalla prima edizione anche a proposito degli artisti più rappresentativi (Stefano Fiorentino, Leonardo, Fra Bartolomeo, appunto Albertinelli, Puligo (fig.40, 44), etc.397
Il problema essenziale individuato dall’aretino è duplice. Da una parte il rilievo, e dall’altra la
forza; da una parte la forza e dall’altra la dolcezza. Rilievo, forza e dolcezza intese come qualità
imprescindibili che si inanellano reciprocamente, l’una relativa all’imitazione della realtà (la
mimesis), l’altra fondata nella ricerca della qualità stilistica della sua costruzione armonica. In
primo luogo, comunque, il rilievo è l’imprescindibile che l’artista è chiamato a realizzare. Nel racconto di Vasari, Albertinelli aveva persino fatto appositamente preparare sorgenti di lumi adatte per la costruzione dell’immagine e lavorando in loco per adeguare allo spazio dell’interno la veduta e calibrando quindi le distanze e la profondità attraverso l’elaborazione timbrica della luce, giocata intorno all’abbagliamento – letteralmente “offuscamento”, da abumbratio398 – dei fondi che “cresce” e “diminuisce” sulla base della
veduta prospettica e della sua galleggiante spazialità.
È ancora il tema classico del leonardismo, qui posto a mèta di una modernità figurativa che lo sposta dal piano ottico-scientifico e sperimentale-empirico al suo conclamato scenario pubblico. Si tratta ancora del colore e della luce intesa come pratica cromatica399. Poiché il
punto nevralgico è il rilievo, le ombre diventano il principale strumento visivo perché si possano inverare le figure rilevate dal piano di fondo, ma le ombre, ormai lo sappiamo, sono rischiose. Il paradosso e la difficoltà cui il pittore incorre è quindi evidente: la forza del rilievo è garantita da ombre altrettanto forti, che rischiano di produrre l’effetto di copertura, cioè di occultamento, negazione visiva. La dolcezza d’altro canto, con il suo sapore temperato400,
non fa forza, non genera terribilità, ma sembra favorire con minore energia lo scatto
396 “Prese a fare nella Compagnia di San Zanobi, allato alla canonica di Santa Maria del Fiore, una
tavola della Nunziata, e quella con molta fatica condusse. Aveva fatto far lumi a posta, et in su l’opera la volle lavorare, per potere condurre le vedute, che alte e lontane erano, abbagliate diminuire e crescere a suo modo; fecevi alcuni Angeli che volano e fanciulli bellissimi: et intravenendo discordia fra quegli che la facevano fare e Mariotto, Pietro Perugino, allora vecchio, Ridolfo Ghirlandaio e Francesco Granacci la stimarono, e d’accordo il prezzo di essa opera insieme acconciarono”. Vasari G., Vita di Mariotto Albertielli, in Vasari G., Vite, Torrentino, 1550, p.612.
397 Questo aspetto non è accennato negli studi di Le Mollé, Pittura di luce e di lume, vedere infra. e di
Biow., Vasari’s words : the "Lives of the artists" as a history of ideas in the Italian Renaissance, Cambridge University Press, Cambidge 2018, cap. dedicato alla “notte”.
398 Vocabolario degli Accademici della Crusca, Firenze 1612, ad vocem. (abbagliamento)
399 Su questo tema si rimanda a Gage J., Colour and culture, Little Brown Boston 1993, p.137.
Accennano alla questione anche Pozzi M., Mattioda E., Giorgio Vasari storico e critico, Olschki, Firenze 2006, capitolo dedicato al colore.
realistico dell’immagine da cui dipende però quel fattore mobile e vivente che è riconosciuto come speciale nella prassi figurativa. La dolcezza mostra, d’altro canto, l’espressione del canone classico, una specie di concordia concors perfettamente equilibrata, di cui maestro insuperabile sarà, non a caso, proprio Raffaello. Perciò Mariotto “arebbe voluto agiugnere con la dolcezza un certo modo di lavorare che l’arte fino allora non gli pareva che avesse fatto a suo modo”. Il tema della novità cui l’Albertinelli “avrebbe voluto” aspirare è quindi posto da una concreta problematica pittorica, che nasce dall’esigenza di scoprire un accordo segreto tra la potenza del chiaroscuro e la delicatezza dell’equilibrio luministico: c’era abbastanza per mobilitare questa impresa straordinaria. D’altro canto Mariotto dal suo maestro domenicano aveva tratto tanto l’idea di un intenso chiaroscuro di fondo quanto la curiosa e nuova accezione iconografica di un’Annunciazione a fondo nero, così lontana dalle conclamate iconografie del giardino e dell’hortus conclusus, da apparire praticamente una fondamentale novità iconografica 401: in quel contesto
l’Annunciazione di Leonardo Grazia del Museo della Cattedrale di Lucca o l’Annunciazione di lume ad affresco di Pontormo di Santa Felicita a Firenze, o la piccola Annunciazione di Bronzino agli Uffizi: quasi che già, in quella spazialità svuotata, si desse un modo diverso per intendere l’hortus, il giardino chiuso della verginità, in una “prospettiva trascesa”, come scrive Arasse, il cui mistero recondito era disvelato nel dialogo frastornante della luce e dell’ombra. Un’ombra che dice il bisogno di esprimere un’intima e nuova religiosità. Ed il
campo scuro d’una prospettiva funge così da fondo perché l’immagine del Padre rilevi con
somma maestà e potenza, gli archi si proiettano verso la tenebra parendo “di rilievo”: l’ombra si fa spazio, la sua oscurità può riempire plasticamente l’ambiente geometrizzato dell’architettura fittizia.
Che tale scena architettonica sfidasse le regole dell’arte per spalancare e risolvere qualcosa di ancora irrealizzato è vero. Che però la vittoria poetica, sfidando il prodigio dell’imitazione di fronte alla verità della natura, dovesse contrastare con la pratica possibile della pittura, è elemento altrettanto emblematico di una visione sfidante dell’arte rispetto al creato. Chiaramente vi soggiace il sotteso concetto di un miracolo del dipingere che renda possibile questa trasmutazione ontologica. Prima di tutto, di fronte all’ombra, oscura o dolce o coperta che sia, si attiva il processo mutevole della ricerca pittorica: “Questa opera fu disfatta e rifatta da Mariotto innanzi che la conducesse al suo fine più volte, scambiando ora il colorito o più chiaro o più scuro, e talora più vivace et acceso et ora meno”: come se la sintesi di forza e dolcezza implicasse un continuo esercizio di racconciamento e di misurazione di colore e di tono. C’è un’ansia del fare, un’ansia creativa, un’insoddisfazione, una ricerca.
L’epilogo segue, però, l’impossibilità del raggiungimento del ricercato “effetto di realtà”. La perfetta commisurazione di forza e dolcezza appare a Mariotto per quello che era: un mero desiderio intellettivo che avrebbe richiesto, per una più matura impostazione artistica, di superare il confine della pittura stessa, cercare una sorta di oltre-natura. Ecco la chiave che cerchiamo: perché la pittura si facesse realtà, commisurando rilievo, armonia e disarmonia,
401 Per una collocazione dell’Annunciazione in una storia della sua iconografica, si rimanda
lume e ombra, come vuole la natura, avrebbe avuto bisogno persino di un “colore che fosse più bianco della biacca”, fosse cioè puro, quasi una sorta di pura luce al servizio dell’immagine, unico diafano in atto capace di inverare, “lumeggiare i chiari a modo suo”, cioè risolvere il paradosso che l’intelligenza – ma non la mano – di Mariotto aveva in ultimo colto. È sottesa l’idea retorica e filosofica dell’artefice divino: Francisco de Hollanda, per esempio, seguito da Zuccari (e da Philippe de Champaigne402), aveva pensato
alla Luce come al bianco: “sia fatta la biacca”, scriveva. C’è un ché di alchemico in questo bianco purificato del suo stesso colore. Se il bianco fosse o non fosse un colore, del resto, era stato un problema filosofico fin dai tempi di Aristotele, mosso nuovamente da Leonardo che vi accennava nel Trattato, ma Vasari ne coglie l’aspetto prettamente materico, pittorico: ricercare un’oltre-realtà: un oltre-bianco per realizzare la pittura come Narciso aveva realizzato la sua ombra. Tale argomento trasmutativo sarebbe stato ripreso, agli inizi del Seicento, nei Dialogos de la pintura di Vicente Carducho a proposito del chiaroscuro leonardesco: l’autore riconosceva bene che nessuno aveva ottenuto l’abilità di realizzare i fondi scuri, di “proporcionar lo profondo del obscuro con lo realçado y luzido de la luz”, perché letteralmente “hai falta de la materia, no la hai suficiente à dar una luz y un lustre de una joya o metal brunido ni para un resplandor ni tampoco negro para la sombra de un tercioplelo negro”. E quindi il Filosofo Pittore Leonardo, continua, “presumió sacarlo à fuerça de distilaciones y artificios: y asi han pensado por este modo ya que no puedan llegar por lo menos aproximarse todo lo que fuere possible llegar, por lo menos aproximarse todo lo que fuere posible, tomando lo blanco del albayalde mas apurado ò claro del jenuli, por el lustre
ò luz cosa blanca baxando proporcionadamente hasta lo mas obscuro”403.
In questi scritti si avverte chiaramente la percezione che questo tipo di ricerca di lumi mettesse realmente il pittore di fronte ad una sfida di alta portata tanto tecnica quanto concettuale. L’eredità albertiana vibra nell’esigenza di fare della pittura lo “specchio di Narciso”, inverarla a tal punto da fare della biacca la luce, in una retorica sofisticata che è, però, soprattutto il frutto di un processo antico di pensare il virtuosismo della luce e l’ingegnosità della dialettica chiaroscurale. Il caso di Mariotto, niente affatto isolato, dimostra come sul piano narrativo si inanellassero concetti e proponimenti eterogenei, volti a costruire categorie pittoriche e visive che in quegli anni ’60 del XVI secolo stavano costruendo l’immagine della modernità figurativa. Punto nevralgico della discussione, però, è l’aver assunto detta oscurità a vertice e tema della rappresentazione, averne fatto uno snodo tematico nevralgico nel pensiero della modernità artistica. Tutto questo è sì il prodotto di un cammino faticoso nei sentieri della forma e della sua comprensione (da Ghiberti e Alberti, a Leonardo, a Hollanda, etc.), ma è anche l’espressione di una concezione figurativa inedita, che ne strutturava i parametri e ne rendeva leggibile, allora
402 Champaigne P. de., Leçon sur les Ombres, 1670 in Fontain A., Conférences inédites de l’Académie
Royale de Peinture et de Sculpture : d’Apres les manuscrits des archives de l’Ecole des Beaux-Arts., Fontemoin,
Paris 1903, pp.97-101.
403 Carducho V., Dialogos de la pintura su defensa, origen, essencia, definicion, modos y diferencias ... Por
Vincencio Carducho ... Siguese a los dialogos, informaciones y pareceres en fabor del arte, escritas por varones insignes en todas letras, Martinez, Madrid 1633, p.88v.
come oggi, l’intima novità iconica. I punti che saranno analizzati prossimamente riguardano i fuochi principali di tale processo e proveranno a considerarne alcuni presupposti teorici.