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Il nero e la concinnitas

3. Un colore per le tenebre

3.1. Il nero e la concinnitas

Non è fuori luogo notare come in un trattato come il citato De oculo morali, che avrà un’interessante fortuna successiva196, le atmosfere legate ad una percettibilità alterata (la

presenza della nebbia, gli effetti di una candela in una stanza buia, per esempio) costituiscano interessanti esempi adottati analogicamente per avanzare insegnamenti morali facendo leva sulla simbolizzazione della mortificazione dell’effetto visivo197. In un certo

senso, come ci saremmo aspettati, l’asimmetria del fatto sensibile veniva trasferita sul piano educativo fungendo quasi ad emblema di esso. Questo spiega da una parte una soggiacente propensione alla trasfigurazione emblematica del fatto visivo e fisico, ma dall’altra mette bene in rilievo come la condizione armonica del vedere ed il suo ordine fossero elementi imprescindibili per esprimere una grazia universale dalle implicazioni tropologiche. Il vedere nebuloso e la condizione sensibile disarmonica comportano, di fatto, un disequilibrio rapportabile al negativo dell’esperienza umana.

Da un punto di vista ottico, certo, non c’è dubbio che non si desse un regime di visibilità laddove luce e tenebra prevalessero o fossero esplicite o troppo fortemente presenti. È un’idea su cui indugia anche Barasch quando interpreta le forme della concinnitas albertiana: in un certo senso, partendo dal presupposto mimetico e scientifico dell’immagine, una luminosità diffusa ed equilibrata, esente da scompensi marcati e contrastati, favorisce l’immediatezza della percezione, riesce a cogliere i dettagli più sottili del suo soggetto rendendo conto delle minuzie dei fenomeni, i quali andrebbero persi in condizioni di visibilità alterata o drammatica.198

Il secondo passo del De Pictura in cui entra in scena la tenebra della notte è contenuto del II libro e ribadisce quanto finora appuntato.

195 Witelo, op. cit., p.183.

196 Se ne conosce un’edizione gesuitica nel Seicento, che fa luce sulla continuità di certe tradizioni

speculative e simbolico-analogiche anche in età moderna. Raymond J., Oculus mysticus, r.p.d. Raymundi

Iordani, canonici regularis, primum præpositi Vticensis, dein abbatis Cellensis, ... Scribebat anno 1381. Theophilus Raynaudus ex Societate Iesu, Boissat, & Laurentii Anisson, Lugduni 1641.

197 Il testo è di grande interesse. Attribuito a John Pecham nell’edizione veneziana del 1496, Liber de

oculo morali, Venetijs : per Ioanne hertzog alemanum,1496, de tredecim mirabilibus. Su questi temi

si può vedere Dallas D. G. II., Seeing and Being Seen in the Later Medieval World: Optics, Theology and

Religious Life, Cambridge University Press 2009.

Nel capitolo quarantasettesimo Alberti riprende il discorso dell’alterazione delle superfici dei colori per mezzo del chiaro e dello scuro. La questione è la stessa già ricordata in termini prospettici-ottici e interroga direttamente l’equilibrata armonia percettiva del chiaroscuro nella determinazione credibile delle superfici dipinte:

“Qui vero raccontiamo cose quali imparammo dalla natura. Posi mente che alla superficie piana in ogni suo luogo sta il colore uniforme; nelle superficie cave e sperice piglia il colore variazione, però ch'è qui chiaro, ivi oscuro, in altro luogo mezzo colore. Questa alterazione de' colori inganna gli sciocchi pittori, quali se, come dicemmo, bene avessono disegnato gli orli delle superficie, sentirebbono facile il porvi i lumi. Così farebbono: prima quasi come leggerissima rugiada per infino all'orlo coprirebbono la superficie di qual bisognasse bianco o nero; di poi sopra a questa un'altra, e poi un'altra; e così a poco a poco farebbono che dove fusse più lume, ivi più bianco da torno, mancando il lume, il bianco si perderebbe quasi in fummo. E simile contrario farebbero del nero”199.

Il delicato inveramento tridimensionale dell’immagine ha in primo luogo una funzione ottica, e definisce il referente segnico della percezione provando ad evitare gli inganni percettivi del colore alterando l’impressione della forma. Subito dopo si estende tale impressione percettiva connotandola in una precisa qualifica estetica che approfondisce il discorso dei lumi codificandoli all’interno di una medietas che appare di carattere estetico. Prosegue infatti con uno dei passi più noti del De Pictura:

“Ma ramentisi mai fare bianca alcuna superficie tanto che ancora non possa farla vie più bianca. Se bene vestissi di panni candidissimi, convienti fermare molto più giù che l'ultima bianchezza. Truova il pittore cosa niuna altro che 'l bianco con quale dimostri l'ultimo lustro d'una forbitissima spada, e solo il nero a dimostrare l'ultime tenebre della notte”200.

Si tratta della prima notte citata in un testo di teorica rinascimentale.

In primo luogo valga un appunto storico. La frase è tratta dal Manoscritto del De Pictura conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, il principale dei tre scritti autografi che raccolgono la genesi e l’elaborazione del trattato del letterato ligure. Secondo gli studi recenti di Rocco Sinisgalli l’editio princeps latina comparsa nel 1540 a Basilea per i tipi di Bartholomaues Westheimer con la curatela di Tommaso Venatorius, amico e sodale, tra gli altri, di Albrecht Dürer201, rappresenterebbe l’effettiva elaborazione finale da parte

dell’autore a partire dal testo volgare fiorentino, visibilmente più ricco e appuntato delle precedenti versioni, conservate ad oggi presso la Bibliothèque Nationale de France a Parigi e la Biblioteca Capitolare di Verona202, le quali attestano l’esistenza di una versione

primitiva del De Pictura, in circolazione per l’Europa del Quattrocento. Il passo latino della

199 Alberti, De pictura, Libro II, cap.47. 200 Ibidem.

201 Sinisgalli ricostruisce efficacemente i passaggi che portano a considerare il fatto che l’edizione

latina di Basilea, che Grayson non aveva considerato, sia il diretto riflesso dell’ultima elaborazione teorica dell’intellettuale italiano, probabilmente codificata alla fine degli anni ’60 del XV secolo.

princeps suona leggermente diverso rispetto alla precedente versione vernacolare ma ne

mantiene intoccato il contenuto: Nam habet pictor aliud nihil, quam album colorem, quo ultimos

tersissimarum superficierum fulgorem imitetur: solumque nigrum invenit, quo ultimas noctis tenebras referat203. Il lustro della spada è diventato il fulgore di superfici tersissime, mentre fermo resta il

confronto con le tenebre della notte immaginate nel più cupo fondo del colore nero. La parola fulgor, nella tradizione scolastica, è sinonimo di splendor, e mantiene in particolare un’accezione di intensività qualitativa, di brillante accento visivo. In questo senso, l’idea del brillio della spada specchiante è concettualmente più sottile delle superfici terse, che

geometrizzano l’effetto luminoso. È comunque interessante notare come entrambi tali sottili

confronti iconografici non compaiano nel manoscritto veronese né in quello parigino, probabilmente il più antico autografo individuato. Più semplicemente il testo della Capitolare esplicita una circostanziata attenzione ad un equilibrio della visibilità che va ad esprimersi nell’uso chiaroscurale, ma non immagina ancora confronti visivi che attestino o scoprano l’applicazione del bianco-nero allo spazio figurativo del pittore; dice infatti: “che il bianco e il nero s’adoprano con grande discrezione però che non si trova altri colori con li quali si ripresenti l’ultimo chiaro o scuro”204.

Ne emergono due motivi differenti. Da una parte, l’indispensabile ricezione luministica chiamata a presentare la medietas con cui la percezione si offre, secondo il conclamato metodo di Alhazen, che nella medietas di lumi aveva riscontrato lo stato perfetto della vista. Dall’altra si nota la definizione di un canone fondato sulla equanime distanza dagli estremi del visibile e dell’invisibile (luce e tenebre), che asseconda una precisa concezione poetica realizzata da un nitore armonico e diffuso. Come specifica Patrizia Castelli, “La finestra sul mondo non prevede infatti all’inizio del Quattrocento una visione umbratile bensì permeata di una luce dorata che tutto intride di sé: paesaggi, corpi e oggetti. La prospettiva, unitamente alla luce da cui non va mai distaccata, contribuisce a formare quella categoria estetica che potremmo definire ‘aurea’ per la sua splendente unità e fulgore”205.

L’ideale della claritas ha invero un’origine complessa. Si trova già ben espresso nella tradizione neoplatonica, è presente ad Aristotele ed ha soprattutto una inevitabile diffusione con la tradizione scolastica che faceva della claritas uno dei simboli del Bene e della bellezza. Non si tratta quindi di individuare l’origine della concezione di Alberti, soprattutto se si considera dubbio il suo platonismo,206 e se si valorizza l’ispirazione

sostanzialmente pratica del suo approccio estetico. Alberti rende conto di questa eredità ormai comune e diffusa facendo della concinnitas, “la legge fondamentale e più esatta della natura”207, il fine e il modo della pratica artistica. Nel De re aedificatoria essa interpreta in

particolare l’aspirazione ordinata della natura considerata nel suo insieme. Se è vero, come

203 Alberti L. B., De pictura praestantissima, et nunquam satis laudata arte libri tres absolutissimi, Westheimer

B. editore, Basilea 1540, p.93; Sinisgalli R., Il Nuovo De Pictura op. cit., p.233.

204 Alberti L. B., De pictura (redazione volgare), a cura di Lucia Bertolini, Polistampa, Firenze 2011,

p.294.

205 Castelli P., Estetica del Rinascimento, Il Mulino, Bologna 2005, p.62. 206 Di Stefano, Alberti, op. cit.

207 Alberti L.B., De re aedificatoria, p.816. Oppure, al Libro VI, p.446, “Definiremo la bellezza come

l’armonia fra tutte le membra, nell’unità di cui fan parte, fondata sopra una legge precisa, per modo che non si possa aggiungere o togliere o nulla cambiare se non in peggio”.

specifica nel Libro IX, che la bellezza non sovrintende all’opinione individuale bensì una facoltà conoscitiva innata della mente208 (f.12), le parti della concinnitas, definita come “ogni

grazie e splendore”, ovvero il numero, delimitazione e collocazione209, esprimono l’aspirazione

dell’arte a quella simmetria che la stessa natura ricerca e regola,

“giacchè tutto ciò che si manifesta in natura è regolato dalle norme di (detta) concinnitas, e la natura non ha tendenza più forte di quella di far sì che tutti i suoi prodotti riescano assolutamente perfetti. Ma un fine siffatto non sarebbe mai raggiunto senza simmetria giacché in tal caso andrebbe perduto quel superiore accordo tra le parti che è a ciò necessario”210.

Nel De Pictura il concetto di concinnitas compare un numero limitato di volte: nel I Libro essa ha una funzione ancora geometrica, ed indica la misurata disposizione delle linee e degli angoli. Nel II libro, compare in relazione all’idea di grazia (gratia) e di bellezza (pulchritudo) quando interroga la disposizione simmetrica delle superfici della rappresentazione (cap.8), e discute la rappresentazione dei movimenti aggraziati dell’arte (cap.42). Al capitolo 46 la traduzione latina rivela una sottigliezza concettuale che stabilisce un nesso ulteriore tra concinnitas e chiaroscuro-rilievo, traducendo con concinnitas albi et nigri: “lume e ombra fanno parere le cose rilevate”211.

Baxandall sottolineava del resto il valore del concetto chiave di claritas per descrivere la qualità estetica della letteratura e dell’arte quattrocentesca: metafora legata al visivo ma felicemente rapportata alla chiarezza della dizione e al cortese parlare, danzare e pensare, essa diventava la cifra di un atteggiamento tanto intellettivo quanto, appunto, estetico, proprio perché palesava sul piano dell’espressione secondo analogia la logica leggera e delicata dell’armonia celeste di platonica memoria. La chiarezza viene ad indicare un equilibrio armonico e mediano, un rapporto misurato tra gli elementi di una composizione che codifica l’aspirazione ad un ordine perfetto, esente da screzi visivi o sonori perché richiamato da una verità ordinatrice più alta. A questo proposito è stato proposto anche un ideale neoplatonico per spiegare l’ideale luminoso di Alberti212. L’equilibrio e la distribuzione

dei lumi e delle ombre, nel panorama umanistico di primo Quattrocento, rifletteva un’estetica della mensura cortese particolarmente apprezzata, perché si coniugava con gli ideali della ratio. La ratio nel commisurare il “chiaroscuro” nell’opera di Pisanello è interpretata da Guarino da Verona secondo la categoria non solo, appunto, della ragione ordinata, ma anche con quella della symmetria, o della concordia: Quae lucis ratio aut tenebrae!

208 Alberti L.B., De re aedificatoria p.812

209 In ambito architettonico, per numero si intende la suddivisione, la misura dell’edificio, che deve

riflettere una scelta giusta; la delimitazione, (finitio), pone dei termini, ed è rapporto di linee, elementi architettonici definiti, mentre la collocazione è la posizione dell’edificio in rapporto all’ambiente circostante.

210 Alberti L.B., Liber IX, V, p.814.

211 Alberti, De Pictura latino, cap.46. Nicia è ricordato da Plinio come un artista particolarmente

attento alla resa dei lumi e delle ombre, con specializzazione nel rilievo e nelle scene che ne facessero spiccare l’impiego espressivo, come le battaglie.

Distantia qualis!/ Symmetriae rerum! Quanta est concordia membris!213. Nel De deliciis sensibilibus

paradisi di Bartolomeo Rimbertino la “maggiore bellezza” è determinata dalla luce intensa,

coesa alla chiarezza dei colori e, quindi, alla ratio della corretta proporzione. Abbastanza da stabilire una esplicita coordinazione tra intuizione razionale e dialettica ordinata di lumi e di ombre, iscrivendosi in un progetto di umanità intensificato dalla ricerca estetica.

Per lo stesso motivo la regolazione classica del bianco e del nero appare come lo specchio duplice di un modello ideale cortese ispirato dall’astensione di qualsiasi eccesso, ma anche come la scelta di “equilibrio di visibilità” che si assicura nella giusta medietas: “sarebbe certo utile il bianco e nero si facesse di quelle grossissime perle quale Cleopatra distruggeva in aceto, ché ne sarebbono quanto debbono avari e massai, e sarebbero loro opere più al vero dolci e vezzose214”.

“E se pure in distribuirli peccano, meno si riprenda chi adoperi molto nero, che chi non bene distende il bianco. Di dì in dì fa la natura che ti viene in odio le cose orride e oscure; e quanto più facendo impari, tanto più la mano si fa dilicata a vezzosa grazia. Certo da natura amiamo le cose aperte e chiare. Adunque più si chiuda la via quale più stia facile a peccare”215.

Un’idea molto diffusa, densa di elaborazioni future, che ritroveremo ancora nel centro delle riflessioni cinquecentesche. D’altro canto, già Lorenzo Valla ne aveva sintetizzato il rilievo: “ait album esse nobilissimum colorum nigrum abiectissimum alios vero ita quemquam optimum ut est albo coniunctissimus rursum ita quenquam deterrimum”216.