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Sprezzatura della notte

Sembra apparire molto chiaramente la vocazione pratica del paradosso pittorico che qui si è enunciato, e il passaggio da questa all’ideale di un artista nobile: il tentativo magico di vincere il paradosso. Questo aspetto apre la nostra analisi in due direzioni, facendo convergere su di esso, da una parte la problematica pittorica del dipinto notturno, dall’altra la questione più vaga dell’oscurità, generalmente intesa. I due aspetti, a rigore, sono diversi per quanto risultino strettamente inanellati dal mostrare un presupposto essenziale nell’immagine dell’ombra e dello sbattimento.

Nelle Vite di Vasari il problema della maniera oscura e quello della notte, vengono discussi prendendo le mosse dal basico presupposto albertiano, appositamente superato e perfezionato da un’estetica della sprezzatura e della grazia mutuata prevalentemente dal Castiglione, e rivolta a cristallizzare e a celebrare un aspetto ormai ampiamente presente nella pratica artistica404. A questo proposito Enrico Mattioda e Mario Pozzi impiegano

l’etichetta, per Giorgio, di “manierismo classico” che contempli la presenza, entro una matrice albertiana tradizionale (classica)405, di elementi estranei all’ordine della regola tali da

sfumare e quindi alterare, talvolta tendendo persino al disarmonico, l’armonia dell’insieme risolta da quella licenza che sarà uno dei vertici concettuali delle poetiche manieriste. Per quanto le etichette di qualsiasi tipo siano sempre problematiche, la posizione degli autori focalizza bene il punto della questione, registrando la persistenza di un valore estetico composito applicabile sui piani diversi dell’esperienza figurativa.

Era stato già Anthony Blunt a notare, del resto, come proprio nell’opera dell’aretino si fosse mostrato lo stacco netto tra l’ antica idea della bellezza e quella moderna della grazia, segnando finalmente tra le due una rinnovata distanza concettuale406. Nella sua analisi, la

404 Sulla grazia di Baldassarre Castiglione è presente un’ampia bibliografia. Per una visione generale

sull’autore si rimanda al classico lavoro di Quondam A., “Questo povero Cortegiano” : Castiglione, il libro,

la storia, Bulzoni, Roma 2000, con bibliografia precedente. Si può vedere anche Hanning R. W.,

Rosand D.,, Castiglione : the ideal and the real in Renaissance culture, New York 1983, in particolare il saggio di Edoardo Sacconi, Grazia, Sprezzatura, Affettazione in the Courtier, pp. 45-67. Sulla grazia in Castiglione, si veda in particolare Ricci M. T., Grâce et la sprezzatura chez Baldassarre Castiglione, “Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance”, T. 65, No. 2 (2003), pp. 233-248. Berger H., The

Absence of Grace: Sprezzatura and Suspicion in Two Renaissance Courtesy Books, Stanford University Press,

2000; Ferroni G., “Sprezzatura e simulazione”, in Ossola C., Prosperi A., a cura di., La Corte e il

“Cortegiano”, tomo I, Bulzoni, Roma 1980, pp. 119-147. Gagliardi A., La misura e la grazia. Sul “Libro del Cortegiano”, Tirrenia Stampatori, 1989. Mercuri R., “Sprezzatura e affettazione nel Cortegiano”, in Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, Bulzoni, Roma, 1975, pp. 227'-274. Quondam A., “La forma del vivere”. Schede per l'analisi del discorso cortigiano, in Ossola C., Prosperi A., a cura di.,, La Corte e il “Cortegiano”, tome II, Bulzoni, Roma, 1980, pp. 15-68.

405 Pozzi M., Mattioda E., Giorgio Vasari : storico e critico, Olschki, Firenze 2006. 406 Blunt A., Artistic theory in Italy, 1450 – 1600, Clarendon Oxford 1956.

bellezza concerne le opere d’arte antica, primitive, lette all’insegna di una misura perfetta,

mentre la grazia pertiene chiaramente alla modernità e la licenza è una delle caratteristiche che distinguono la maniera moderna dall’affettazione antica.

Se come scrivono Mattioda e Pozzi, “la grazia per Vasari è una bellezza spirituale, che supera l’aristotelica bellezza corporale, costituita dalla giusta proporzione delle parti, e può coesistere con la sproporzione”407, integrando esplicitamente l’idea di una sprezzatura che

convive con il disordine perché, distaccandosi, lo risolve con gentilezza e cortesia, allora qualsiasi forma di contrasto stridente o disarmonico potrà essere abbracciata, accolta in un discorso sull’arte immaginato come perfetto e conclusivo. Come potremo rivedere in seguito, dietro questa intuizione di fondo vibra la coscienza, retorica e poetica insieme della riscoperta della Poetica di Aristotele negli ambiti intellettuali in cui lo stesso Vasari era immerso, poiché è soprattutto da lì che si potevano dedurre le categorie principali per pensare anche il disarmonico e l’illogico integrandoli nella più consolidata facies artistica. Il ruolo del colore è chiaramente secondario rispetto a quello del disegno, padre e madre di tutte le arti ed elemento strutturale della pittura. Ciò nonostante esso vanta la funzione essenziale di realizzare l’unione delle tinte distese sopra il disegno, assumendo la responsabilità di un’armonia equilibrata e unitaria. Poiché Vasari concepisce lume e ombra in termini strettamente pittorici (a differenza, in parte, di Alberti), non sviluppa una specifica teoria della luce, che forse anche per questo non ha goduto di ottima fortuna nelle tematiche critiche aretine. E si tenga conto, a questo proposito, che per altri autori coevi, e su tutti Lomazzo, l’unione è realizzata sostanzialmente dall’equilibrio dei lumi e delle ombre, seguendo in ciò Leonardo. Ad ogni modo, – tratto estetico – per Vasari è da realizzare una sorta di “discordanza di colori diversi accordati insieme”, come la definisce nel Proemio408,

dimostrata tanto dalle scelte delle tinte quanto dall’uso variegato della luce. La disposizione del chiaroscuro deve quindi rispondere a questa prima funzione organizzatrice e stabilizzante dell’opera.

Se “tutte le pitture a olio o a fresco o a tempera, si debbon fare talmente unite ne’ loro colori”, e “si debbono adoperare i colori con tanta unione, che e’ non si lasci uno scuro e un chiaro sì spiacevolmente ombrato e lumeggiato ch’ e’ si faccia una discordanza e una disunione spiacevole”, è chiaro come la commistione del chiaro e dello scuro deve in prima istanza riflettere un’ordinata ricerca di unità interna, in modo che rilievo e armonia continuino chiaramente a coesistere: “si debbe nel lavorare metter gli scuri, dove meno offendino e faccino divisione, per cavare fuori le figure; come si vede nelle pitture di Rafaello da Urbino e di altri pittori eccellenti che hanno tenuto questa maniera”. La luce sembra acquisire, albertianamente, proprio in questo contrasto un ruolo plastico ed estetico preciso409.

407 Mattioda, Pozzi, Vasari..., op. cit., p.204 408 Vasari G., Proemio alle Vite, 1550, p.79

409 Il tema della luce in Vasari è stato relativamente poco studiato rispetto ad altri più decisivi

soggetti della sua opera. Molto significativo il lavoro di Le Mollé R., Significato di lume e di luce nelle

Vite di Vasari, in AA,VV. Il Vasari, storiografo e artista; atti del Congresso internazionale nel IV

centenario della morte; Arezzo- Firenze, 2 - 8 settembre, Grafistampa, Firenze, 1974, pp.163-177, che in questo senso è stato pionieristico. Il tema ha poi una rilevanza circostanziata nello scritto di Barasch M., Luce e colore nella teoria artistica del Rinascimento, Marietti, Genova 1992. Nello scritto

Ora, poiché l’arte è universale ed è chiamata a rappresentare ogni fenomeno del mondo, Vasari riconosce che alcune circostanze atmosferiche e certe istorie rischino di compromettere questa stabilità e unione di lumi per il fatto che richiedono una determinazione atmosferica e cronologica differente: si appresta quindi a chiarire che “... non si debbe tenere questo ordine nelle istorie dove si contrafacessino lumi di sole e di luna, o vero fuochi o cose notturne; perché queste si fanno con gli sbattimenti crudi e taglienti, come fa il vivo. E nella sommità dove sì fatto lume percuote, sempre vi sarà dolcezza et unione. Et in quelle pitture che aranno queste parti, si conoscerà che la intelligenza del pittore arà con la unione del colorito campata la bontà del disegno, dato vaghezza alla pittura, e rilievo e forza terribile alle figure”410.

La questione, qui, è l’accordo tra la natura e l’ideale, e interroga il notturno come condizione di esperienza artistica di frontiera. È il problema che si apre anche tra il ritrarre e l’imitare. Il ritratto si limita a restituire l’apparenza esterna di una persona, mentre l’imitazione implica la correzione del dato, una trazione di quello verso l’ideale. Come Alberti, qui, il nostro aretino è aristotelico: Nova ne notava tutta l’affabilità filosofica: perché “per la teoria artistica del Cinquecento l’obiettivo dell’arte non sarebbe quello di riprodurre il mondo naturale così come esso è, perché quest’ultimo è caratterizzato da molte imperfezioni; il suo compito sarebbe invece quello di abbellire, di migliorare il mondo esistente”411. Le conclusioni a proposito del ritratto sembrano coincidere con quelle

relative alla notte: “correggere” un ritratto in virtù della bellezza ideale implica infatti compromettere la sua funzione pittorica, che deve essere strettamente mimetica (“ritrarre”). Così la notte, i lumi di sole, di luna, o di fuoco, esistono in una condizione espressiva che è la loro e chiedono un’infrazione di norma, pena la loro mancata riuscita. Certo, la “piacevole discordanza” che questi generano è densa di possibilità espressive inedite: potrà tradursi in

sofisma celebrale, capriccio, stupenda meraviglia, non certo in armonia solare e simmetria

aggraziata, non certo in concinnitas: forse si tradurrà persino in gravità, terrore, terribilità: ma di questo parleremo dopo.

Il pericolo della sgradevolezza è necessario correrlo laddove il pittore è chiamato a rappresentare scene in cui la luce-sorgente è direttamente presente in scena; e tra i casi sopra riportati abbiamo scene diurne e almeno tre campi di azione notturni: paesaggi lunare, scena di fuoco od incendio, e più generali “cose notturne”, forse sogni o grilli o fantasticherie irrazionali, come si intuisce dal testo. Qui, dice Vasari, il vivo, ovvero la natura percepibile, mostra come a connotare l’“immagine sia la violenza della luce tagliente. In un certo senso, il vero forza la trasgressione dell’ordine, la natura chiede di accettare la disarmonia, il contrasto. Certo, da un punto di vista tecnico, la presenza della luce, pur non contraddistinta da una posizione teorica precisa, armonizza prima di tutto i colori e li rende

uniti. Ugualmente nelle opere di Correggio il lume si diffonde con una delicatezza dolce e

chiarificatore di Mattioda-Pozzi, op. cit.; i riferimenti alla luce si trovano sotto la tematica del colore, a pp.121-128. Cfr. Biow, op. cit., 2018.

410 Vasari G., Proemio, 1550, p.81.

calda che non è altro che la mera superficie esterna, la spoglia percepibile di contro ad una diffusiva e generalizzata gravezza scura: solo “dove [il lume] percuote” lì sta “dolcezza e unione” (fig.49). La “maniera cruda” indica, nel Vocabolario di Filippo Baldinucci, “quella di quei pittori che non sapendo valersi delle mezze fiate trapassano senza termine di mezzo quasi da profondi scuri agli ultimi chiari, e così fanno le loro pitture con quasi nessuna imitazione del vero e senza rilievo”412. Lo sbattimento è “l’ombra che vien cagionata sul

piano, e altrove dalla cosa dipinta e corrisponde a quell’oscurità che gettano fuori di sé i corpi nella parte opposta a quella chè illuminata”413. Si comprende come il dilemma di

Mariotto mettesse in gioco un delicato problema armonico, ponesse il suo punto nella resa mimetica in rapporto a qualsiasi canone. Se già nel 1548 Giorgio aveva dipinto sulle pareti della propria dimora un incendio notturno era perché ne coglieva il valore programmatico, almeno quanto lo era il paesaggio diurno di fronte ad esso. E d’altro canto, fin dai quadri della giovinezza, Giorgio si era, in prima persona impegnato a riprodurre gli effetti di polarità luministiche addensate su fondi tenebrosi, come si vede nella secca ma interessante

Deposizione nel Sepolcro oggi nella chiesa dell’Annunziata di Arezzo (1535)414, dedotta dalla Deposizione di Rosso Fiorentino di Sansepolcro (1528) (figg.41-42) e incline ad una gravitas

tenebrosa che, seppur giustificata dal racconto (la deposizione di Cristo avviene nel buio) non celava ambizioni poetiche molto precise, aggiornate su mode figurative già piuttosto diffuse. È poi a Raffaello, in questo caso più che a Michelangelo, che è riconosciuta la nuova modernità dei lumi. Il Sanzio aveva iniziato a sperimentare con crudezze cromatiche e luministiche fin dai lavori nella Stanza di Eliodoro, dove proponeva con novità una dialettica suggestiva di accordi architettonici e coloristici, in cui le luci sembravano inclinare al drammatico teatrale, mettessero in rilievo gli elementi della storia marcandone il protagonismo; si pensi però, soprattutto, ai successivi lavori di Giulio Romano415, ai

notturni di Perin del Vaga, ai lavori alchemici di Beccafumi, e soprattutto alla fase terribile e mostruosa di Polidoro da Caravaggio, dove la sensazione tellurica dei bozzetti di Capodimonte o delle operette napoletane dimostra il più alto portato disarmonico, insieme a Tiziano, dell’atteggiamento scuro dell’arte, talmente oltre la comune grazia degli artisti da non avere praticamente nessun seguito.

Questa prima dichiarazione vasariana dell’arte in notturna è quindi trasversale, non diretta. È un pensiero dell’alterità rispetto ad una concezione prestabilita, relativamente stabile. Apre quindi alla concezione di una sostanziale diversità di forme, ad enucleare teoricamente uno spazio altro ad intendere l’emisfero artificiale dell’immagine, per il quale “non si debbe

412 Baldinucci F., Baldinucci F., Vocabolario toscano dell'arte del disegno, Firenze 1681, “maniera cruda”, ad

vocem

413 ivi, “sbattimento”, ad vocem

414 Per questo soggetto molto fortunato nella produzione di Vasari, e spesso incline ai notturnismi

tenebrosi, si rimanda De Girolami Cheney L., Giorgio Vasari: Il trasporto di Cristo o Cristo portato al

Sepolcro, in “Artibus et Historiae”, Vol. 32, No. 64, pp.41-61. Quasi un decennio più tarda la

magniloquente Deposizione di Galleria Doria (1544), o l’albeggainte e nuvolosa Pietà della collezione Chigi Saraceni di Siena (1542)

415 Tafuri M., Giulio Romano : linguaggio, mentalità, committenti, in Gombrich E., a cura di., Giulio

Romano, catalogo dell’esposizione, Mantova, Galleria Civica di Palazzo Te, 1 settembre - 12

tenere questo ordine”. È dato davvero adesso di parlare di notturno come di un sovvertimento del giusto mezzo, e anzi come ribaltamento stesso di quell’ordine sacro e icastico dell’unione interna sfumante. Il forte contrasto che deriva da una fonte luminosa diretta mette in discussione l’equilibrio della composizione, ma la norma esatta e dolce della storia deve essere sacrificata, letteralmente, alla correttezza dell’imitazione naturale (Leonardo).

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41. Rosso Fiorentino, Deposizione, Sansepolcro, San Lorenzo 1528 42. Giorgio Vasari, Deposizione, Arezzo, SS. Annunziata, 1535

43. Correggio, Riposo durante la fuga in Egitto e San Francesco, Firenze, Museo degli Uffizi.

Il notturno è il tipo di dipinto in cui questa condizione di alterata gravità e contradditoria estetica di luci è assunta a soggetto dell’immagine, messa a fuoco come necessaria condizione visiva, un uscire fuori dai confini ben disposti di una connotazione precisa, ma esattamente questo sconfinamento garantiva tanto la maestà dell’arte, quanto in ultimo la cristallizzazione dell’ideale poetico sotteso alla fortuna critica del notturno figurativo. In un certo senso, ne era la più autentica sfida: confrontarsi con l’impossibilità. Nel Paragone era stato detto: la pittura dipinga l’impossibile, lampi fuochi e la notte oscura. Una retorica del pittore moderno che è soprattutto un programma e un’apertura. Anche perché, l’uscita dalla norma è prima di tutto un’autentica e sonora distonia. In un passo dell’edizione del 1550 si legge:

“Così nella pittura si debbono adoperare i colori con tanta unione, che e’ non si lasci uno scuro et un chiaro sì spiacevolmente ombrato e lumeggiato che e’ si faccia una discordanza et una disunione spiacevole, salvo che negli sbattimenti, che sono quelle ombre che fanno le figure addosso l’una all’altra, quando un lume solo percuote addosso ad un prima figura che viene ad adombrare del suo sbattimento la seconda. E questi ancora, quando accaggiono, vogliono esser dipinti con estrema dolcezza et unitamente, perché chi gli disordina viene a fare che quella par più presto un tappeto colorito o un paro di carte da giuocare che carne unita o panni morbidi o altre cose piumose, delicate o dolci. Ché sì come gli orecchi restino offesi da una musica che fa strepito o dissonanza o durezze (salvo però in certi luoghi et a’ tempi, sì come io dissi degli sbattimenti), così restano offesi gli occhi da’ colori troppo carichi o troppo crudi”416

Il finale riferimento musicale è un retaggio della cultura albertiana. Nella tradizione medievale e quattrocentesca che avevano nel platonico De Musica di Boezio uno dei testi cardine di riferimento, la musica è la disciplina che ha rappresentato l’anelito ad una bellezza fondata sulla proporzione dei numeri armonici, la cui percezione sensibile rifletteva un ordine universale, fondamento matematico tanto dell’azione e dell’anima dell’uomo quanto dell’organizzazione complessiva del cosmo417. È interessante notare

come una “cruda disattenzione” alla dolcezza della rappresentazione, alla sua piacevole (perché armonica) unione corrispondesse ad un’infrazione dell’unità perseguita, ma aprisse uno spazio inedito di sperimentazione sul dominio negativo dell’immagine. Gli sbattimenti di lume e di ombre potevano avere effetti difficili da sfruttare e regolare, e si configuravano come forme esplicite della spiacevolezza. Non che tale sgradevole alterazione dell’ordine non potesse essere sfruttata in favore di effetti che, per contrasto, venissero ad essere privilegiati. Vasari stesso lo chiarisce nella Vita di Piero di Cosimo, quando scrive che “come

416 Vasari G., Vite, 1550, p.80

ne’ cibi talvolta le cose agre, così in quelli passatempi le cose orribili, purché sieno fatte con giudizio et arte, dilettano maravigliosamente il gusto umano”418. Ludovico Dolce riferisce la

stessa caratteristica alla venustà o grazia di Raffaello419. Cesare Malvasia ricorda come nella Resurrezione del Louvre di Annibale Carracci gli angeli ai lati di Cristo fossero rimasti

“mortificati e rotti” dagli sbattimenti “soavi e giuditiosi” che, di converso, rendevano splendente e nitido il corpo centrale di Cristo420. Anche i chiaroscuri di Donducci,

“meravigliosamente spiccando le prime piazze de’ chiari”, “alla prima ferivano la vista e [solo in seguito] con estrema vaghezza appagavano il gusto”421. Il notturno è la condizione

narrativa in cui questi sgradevoli sbattimenti si danno esplicitamente come meta dell’arte: la mimetica della notte chiede, infatti, che questi siano protagonisti. Leonardo in ciò era stato molto esplicito. Una pittura di lumi presuppone l’accentazione di effetti di cesura e di contrasti che sono assunti a momento ineludibile della pratica. E una pittura della notte reclama la centralità sfidante dell’oscurità. Tornando a Vasari, quindi, nel “caso degli sbattimenti”, “una discordanza et una disunione spiacevole” diventa quindi la regola, la norma, la forma, sostenuta da quelle intenzioni di acutezza e licenza che facevano da sfondo. Entro questa tradizione, sembra che il caso ekphrastico più esplicito ci venga però ancora da Malvasia, quando descrive i quadri notturni di Lorenzo Garbieri commissionati da Benedetto Giustiniani per San Paolo a Bologna:

“introdusse giudiciosamente, e con non più praticato modo, una finestra chiusa da vetri, per i quali penetrando certi raggi di Sole, quanto più gagliardi fan spiccare i lumi delle parti vicine, e scoperte, in vn tanto più scuro fondo lasciano perdersi affatto le più lontane, e nascose. Riesce dunque in tal guisa così tremendo il colorito, e di tanta forza, ch'oltre di questo, non si creda potersi dar dall'arte alle figure maggior tondo, e rilieuo. La fierezza però non offende la grazia, nè dal caricato tingere vien pregiudicato punto il fondato disegno, perche aggiustati sono sempre i contorni, corrette tutte le parti, accordata egregiamente la intera massa, in niun'altra cosa si direbbe inoltrarsi il rischio e darrischiarsi il coraggio che ne’ bizzarri scorti che gionti tutta uia all'ultima meta dell'ardire, non sanno trascendere i termini del possibile, e del douere”422.

Dove ancora, si legge, l’impatto tremendo e terribile, austero e gravissimo di lumi e ombre notturne è valorizzato ancora, ma – ecco il punto – senza che la grazia fosse sbilanciata, contraddetta (fig.144).

Dal punto di vista teorico, si viene a formare un coerente e stimolante dualismo ordine- disordine, armonia-disarmonia, dolcezza-crudezza che trova nell’uso creativo del lume e dell’ombra (talvolta persino intensificata dalla luce naturale423), il suo più evidente spazio di

418 Vasari G., Vita di Piero di Cosimo, Giunti 1568, vol.II, p.22.

419 Dolce L., Dialogo della pittura di m. Lodouico Dolce, intitolato l'Aretino. Nel quale si ragiona della dignità di

essa pittura, e di tutte le parti necessarie, che a perfetto pittore si acconuengono: con esempi di pittori antichi, & moderni: e nel fine si fa mentione delle uirtù e delle opere del diuin Titiano, Giolito, Venezia 1557, p.196.

420 Malvasia C., Vite de’ pittori, pp.264-265. 421 Malvasia C., Vite de’ pittori, pp.412-413. 422 Malvasia, Felsina, p.278

423 Si ricordi come nella descrizione della Liberazione di San Pietro Vasari avesse accentuato la

funzione “cromatica” del contrluce per la comprensione figurativa del notturno. Se si guardano alcuni