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Ifigenia in Tauride: i tortuosi percorsi del dio dell’oracolo

Le implicazioni politiche dell’oracolo delfico nelle tragedie attiche

2.4 L’oracolo politico nel teatro di Euripide

2.4.8 Ifigenia in Tauride: i tortuosi percorsi del dio dell’oracolo

Diversa appare invece la prospettiva in cui viene presentato l’oracolo di Apollo nell’

Ifigenia in Tauride: infatti, le ripetute accuse al dio e alla sua veridicità pronunciate nel

corso del dramma, subiscono un brusco mutamento alla fine, quando, invece, le parole divine sembrano andare in direzione della salvezza dei personaggi. La tragedia è databile fra il 414 e il 409 a.C.276

All’inizio del dramma, Oreste riassume in pochi versi la sua passata esperienza (vv. 77-83) per concludere dicendo di essere in attesa della fine dei suoi travagli (α̕λ ἔιζνηκ' ἐο ηέινο πόλσλ η' ἐκσ̃λ). Come il personaggio nella rappresentazione eschilea, il giovane atrida ha seguito l’oracolo di Apollo e avverte che la responsabilità del gesto è da attribuire al dio, ma a differenza che in Eschilo, in questo dramma egli appare stanco e sfiduciato, incapace di pazientare ancora nell’attesa di un risultato positivo e diffidente nei confronti della preveggenza e provvidenza divina. Così, esita ad obbedire ad un nuovo responso nel momento in cui esso gli appare pericoloso: Pilade che, in questa tragedia come nelle

Coefore di Eschilo, rappresenta, in qualche modo, la voce di Apollo e delle sue istanze277,

invoca l’oracolo per spronare l’amico all’azione.

Oreste, dopo aver commesso il matricidio, approda in Tauride sulla base di un oracolo di Apollo che gli prescriveva di recuperare il simulacro di Artemide in quella terra

275 Cfr. D. H. Roberts, op. cit., p. 120

276 A. Lesky (op. cit., p. 606 e nota n. 241) riferisce che l’Ifigenia in Tauride e l’Elena non furono scritte a grande

distanza di tempo l’una dall’altra. Dal momento che la seconda va datata con sicurezza al 412, l’Ifigenia andrebbe collocata prima, per cui gli anni più probabili per la sua rappresentazione sembrano essere il 414 e il 413 a.C. Nel sostenere tale posizione, Lesky riprende il parere di Platnauer (M. Platnauer, Euripides.

Iphigenia in Tauris, Oxford 1967, p. XVI), di Matthiessen (K. Matthiesen, Elektra, Taurische Iphigenie und Helena,

Göttingen 1964, p. 63) e di Dale (A. M. Dale, Helen, Oxford 1967, p. XXVIII) che si basano su osservazioni metriche estremamente sottili, pur mostrando una certa diffidenza per la definitività dei confronti strutturali.

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(ἐληεπ̃ζελ αὐδὴλ ηξίπνδνο ἐθ ρξπζνπ̃ ιαθὼλ/ Φνη̃βόο κ' ἔπεκςε δεπ̃ξν, δηνπεηὲο ιαβεη̃λ/ α̗γαικ' Ἀζελσ̃λ η' ἐγθαζηδξπ̃ζαη ρζνλί, vv. 977-979). Tuttavia, a più riprese nel corso del dramma, il giovane, trovandosi in pericolo di morte, attribuisce ad Apollo la causa della sua rovina in quanto il dio lo avrebbe ingannato col suo responso. Così Oreste dubita degli oracoli in un senso molto particolare: egli crede che essi si avverino, non diffida dunque della loro veridicità, ma ritiene che si compiano per la distruzione, e non per la salvezza, dell’individuo. Questo è il significato della sfiducia che il giovane ostenta lungo tutta la tragedia.

Tale atteggiamento si rivela fin dai primi versi, quando Oreste grida: ‚ω̙ Φνη̃βε, πνη̃ κ' αὖ ηήλδ' ἐο α̗ξθπλ η̗γαγεο / ρξήζαο‛ (vv. 77-78), attribuendo a Febo la colpa di averlo tratto nuovamente in inganno (ήλδ' ἐο α̗ξθπλ η̗γαγεο) con i suoi vaticini (ρξήζαο). Pochi versi dopo (vv. 93-94), egli afferma di essere giunto in una terra ignota e inospitale per avere ingenuamente dato retta alle parole di Apollo (η̘θσ δὲ πεηζζεὶο ζνη̃ο ιόγνηζηλ ἐλζάδε / α̗γλσζηνλ ἐο γε̃λ α̗μελνλ. ζὲ δ' ἱζηνξσ̃), mentre al v. 560, dopo aver rievocato le vicende degli Atridi ed il suo matricidio, diffida della protezione degli dèi (ἀιι' νὐ ηὰ πξὸο ζεσ̃λ εὐηπρεη̃ δίθαηνο ω̗λ). Ma è ai vv. 570-575 che il giovane esprime con maggiore chiarezza la sua sfiducia nei confronti degli oracoli divini e la propria ingenuità per avervi prestato ascolto:278 νὐδ' νἱ ζνθνί γε δαίκνλεο θεθιεκέλνη πηελσ̃λ ὀλείξσλ εἰζὶλ ἀςεπδέζηεξνη. πνιὺο ηαξαγκὸο ἔλ ηε ηνη̃ο ζείνηο ἔλη θἀλ ηνη̃ο βξνηείνηο· ἓλ δὲ ιππεη̃ηαη κόλνλ, ὅη' νὐθ α̗θξσλ ω̕λ κάληεσλ πεηζζεὶο ιόγνηο ὄισιελ ὡο ὄισιε ηνη̃ζηλ εἰδόζηλ.

278 Precedentemente, ai vv. 120-121, Oreste aveva dichiarato la duplice responsabilità del dio e dell’uomo

nell’adempimento della parola oracolare (νὐ γὰξ ηὸ ηνπ̃ ζενπ̃ γ' αἴηηνο γελήζνκαη / πεζεη̃λ α̗ρξεζηνλ ζέζθαηνλ· ηνικεηένλ).

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Questo passo, di grande importanza per la mia ricerca, rivela, attraverso le parole del giovane argivo, quella che certamente è una convinzione di Euripide: neppure gli dèi chiamati ‚saggi‛ (ζνθνί γε δαίκνλεο θεθιεκέλνη) sono più veritieri (ἀςεπδέζηεξνη), esenti da menzogna, rispetto ai sogni alati, per cui nelle cose divine regna una gran confusione, un gran turbamento (πνιὺο ηαξαγκὸο), mentre una cosa sola (ἓλ δε κόλνλ) addolora ancora Oreste, ossia il fatto che pur non essendo stolto (νὐθ α̗θξσλ ω̕λ) fu distrutto (ὄισιελ) per aver dato retta alle parole oracolari (κάληεσλ πεηζζεὶο ιόγνηο). Qui non viene fatta esplicita menzione del responso delfico, ma appare evidente che l’allusione è proprio a quello dal momento che più volte, nel corso del dramma, Oreste vi aveva fatto riferimento. Quest’ultimo ha obbedito alla parola dell’oracolo ma l’unico risultato sembra la sua immimente rovina.

La sfiducia nei confronti del responso divino è esplicita, e pertanto, rispetto alla concezione che Eschilo aveva di quest’ultimo segmento della saga degli Atridi, è chiaro che la piega che essa assume nella presentazione euripidea è assolutamente differente e per certi versi opposta: l’atteggiamento nei confronti dell’oracolo di Apollo rappresenta un forte elemento di distanza fra i due poeti tragici.

Altrettanto forte è l’attacco che Oreste rivolge al dio ai vv. 711-715, dove con grande chiarezza viene ribadita la menzogna da parte di Apollo:

ἡκα̃ο δ' ὁ Φνη̃βνο κάληηο ω̕λ ἐςεύζαην· ηέρλελ δὲ ζέκελνο ὡο πξνζώηαζ' Ἑιιάδνο ἀπήιαζ', αἰδνη̃ ησ̃λ πάξνο καληεπκάησλ. ω̚η πάλη' ἐγὼ δνὺο ηἀκὰ θαὶ πεηζζεὶο ιόγνηο, κεηέξα θαηαθηὰο αὐηὸο ἀληαπόιιπκαη.

Oreste pensa che il dio abbia voluto allontanarlo per una sorta di ‚vergona‛ nei confronti del suo oracolo, quasi temesse che potesse apparire infruttuoso. Uccidendo la madre, il giovane ha dato retta alle parole del dio che, tuttavia gli ha mentito (ἐςεύζαην): in cambio ha ottenuto la morte (ἀληαπόιιπκαη). Questa immagine di distruzione (che già

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nell’Agamennone era associata ad Apollo dalla sacerdotessa Cassandra) rappresenta un motivo ricorrente in questo dramma: le parole di Febo non giovano (ηὰ Φνίβνπ δ' νὐδὲλ ὠθειεη̃ κ' ἔπε, v. 723), anzi conducono l’individuo alla rovina. La stessa idea viene espressa al v. 939, quando Oreste afferma che l’oracolo di Apollo fu per lui principio d’ogni male (ιέγνηκ' α̗λ. ἀξραὶ δ' αἵδε κνη πνιισ̃λ πόλσλ), e al v. 975, nel quale dice che Febo fu la sua rovina (Φνη̃βνο, ὅο κ' ἀπώιεζελ). E’ evidente la portata concettuale di tale considerazione.

Se la nostra analisi si fermasse qui, potremmo concludere che anche l’Ifigenia in

Tauride, come i precedenti drammi euripidei osservati, si colloca in una prospettiva che

potremmo definire ‘antiapollinea’ o, addirittura, ‘antidelfica’.

Tuttavia, tale ipotesi può essere immediatamente smentita. Innanzitutto basta esaminare diverse battute di Pilade (che, come si è già osservato, rappresenta una sorta di ‚portavoce‛ del dio): egli afferma a più riprese che non si può disattendere l’oracolo del dio (ηὸλ ηνπ̃ ζενπ̃ δὲ ρξεζκὸλ νὐθ ἀηηζηένλ, v. 105), che peraltro non li ha ancora distrutti (ηὸ ηνπ̃ ζενπ̃ ζ' νὐ δηέθζνξέλ γέ πσ / κάληεπκα, v. 719-20). Ancora più chiaramente è il personaggio di Ifigenia che, probabilmente a causa della sua esperienza, non sembra affatto dubitare della potenza e della veridicità del dio. Così accade al v. 391, in cui la fanciulla afferma che nessun dio è malvagio, e ai vv. 1084-5, nei quali la giovane, invocando l’aiuto di Artemide, dice che, se la dea non interverrà, la bocca del Lossia non sarà più veritiera per i mortali (η̕ ηὸ Λνμίνπ / νὐθέηη βξνηνη̃ζη δηὰ ζ' ἐηήηπκνλ ζηόκα).

Va detto anche che lo stesso Oreste, man mano che si avvicina la fine del dramma, comincia a presagire che il dio, probabilmente, stia volgendo tutto per il suo bene. Intanto, al v. 975 egli afferma che già una volta Febo lo ha salvato quando, dopo la sua assoluzione sull’Areopago, le Erinni che non si arrendevano al verdetto volevano perseguitarlo: in quel caso Apollo, che inizialmente era stato la sua rovina, divenne il suo salvatore (εἰ κή κε ζώζεη Φνη̃βνο, ὅο κ' ἀπώιεζελ). Qualche verso dopo, egli definisce la missione che sta compiendo nella Tauride ‚η̘λπεξ ἡκη̃λ ω̘ξηζελ ζσηεξίαλ‛, una via di salvezza disegnata per lui dal dio. Infine, è sempre Oreste che, ai vv. 1015-1016, riconosce che, considerando tutti insieme gli elementi della sua vicenda (primo fra tutti il responso di Febo citato poco prima), ha speranza di ritornare in patria (α̘παληα γὰξ / ζπλζεὶο ηάδ' εἰο ἓλ λόζηνλ ἐιπίδσ

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ιαβεη̃λ). Ma, a differenza che in Eschilo (dove non mancano analoghe accuse nei confronti del dio che sembra perseguire solo i suoi interessi), qui il giovane sembra dovere forzare il

dio in qualche modo.279

Tuttavia è soprattutto Atena, che compare ex-machina alla fine del dramma, a dimostrare la bontà degli oracoli di Apollo. Così parla la dea ai vv. 1437-42:

πεπξσκέλνλ γὰξ ζεζθάηνηζη Λνμίνπ δεπ̃ξ' η̙ιζ' Ὀξέζηεο, ηόλ η' Ἐξηλύσλ ρόινλ θεύγσλ ἀδειθε̃ο η' Ἄξγνο ἐζπέκςσλ δέκαο α̗γαικά ζ' ἱεξὸλ εἰο ἐκὴλ α̗μσλ ρζόλα, ησ̃λ λπ̃λ παξόλησλ πεκάησλ ἀλαςπράο.

Come nelle Eumenidi, Atena recupera il ruolo di salvatrice di Oreste. Seguendo i responsi di Febo, il giovane è giunto in quel luogo per portare ad Argo il simulacro di Artemide e per ricondurvi la sorella Ifigenia sana e salva: questo avrebbe costituito un sollievo, una tregua dai mali presenti che lo attorniavano (ησ̃λ λπ̃λ παξόλησλ πεκάησλ ἀλαςπράο). La dea sottolinea così l’intento positivo sotteso alle parole di Apollo.

Infine il coro di donne greche, nello stasimo ai vv. 1234-1282, cantando la storia dei gemelli figli di Leto e di come il piccolo Apollo abbia preso possesso dell’oracolo di Delfi, definisce ‚veridico‛ il trono da cui il dio pronuncia i suoi oracoli e, per ipallage, veridica è la voce del dio: eppure tale stasimo, narrando l’irruenza e la veemenza del dio bambino, che esige dal padre il ripristino della propria autorità sul sito oracolare, sembra contrastare

con la pacifica rappresentazione della versione eschilea della successione a Delfi.280

Concludendo, dunque, potremmo affermare che, sebbene lungo tutta l’Ifigenia in

Tauride, le ripetute accuse di Oreste nei confronti di Apollo sembrino costituire

279 Cfr. anche D. H. Roberts, op. cit., p. 105.

280 Come afferma D. Roberts, il contrasto fra i due drammaturghi, a proposito di questo stasimo, non consiste

unicamente nel fatto che Eschilo dia una rappresentazione pacifica della successione delfica mentre quella di Euripide è più violenta. Secondo il primo poeta, Apollo riceve la sua sede oracolare da Gaia, Temi e Phoebe e i suoi poteri profetici da Zeus: Febo predice quello che vuole Zeus e dice la verità, i suoi responsi riguardano ciò che è e ciò che dovrebbe essere. In Euripide, invece, Apollo caccia Temi e la sua supremazia su Delfi è ristabilita da Zeus: il dio profetizza quello che era, che è e che sarà, ma non necessariamente quello che dovrebbe essere (cfr. D. H. Roberts, op. cit., p. 107-8).

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un’ulteriore prova dell’atteggiamento antidelfico di Euripide, in realtà il seguito e la conclusione del dramma rendono giustizia alla veridicità delle profezie apollinee e

all’efficacia dell’azione provvidente del dio.281 E’ possibile che tale mutamento di

prospettiva da parte del drammaturgo dipenda unicamente dal mutamento del contesto

politico?Personalmente, come si dimostrerà in seguito, io non credo<

In ogni caso, siamo sicuri che questo ‚lieto fine‛ cancelli completamente tutte le precedenti affermazioni dei personaggi e l’amarezza, ostentata lungo tutto il dramma, verso l’oracolo di Apollo? Niente di quello che dice Oreste serve a cancellare completamente le sue precedenti affermazioni sul dio di Delfi, che non viene mai del tutto

giustificato.282 Nessun risarcimento per il matricidio, dunque, neppure nella conclusione

del dramma, e il lieto fine dell’opera dipende dalla dea Atena più che da Apollo.